Un virus ma non solo

In e-mail il 25 Febbraio 2020 dc:

Un virus ma non solo

Coronavirus: un fattore imprevedibile investe l’economia internazionale, la vita ordinaria di centinaia di milioni di esseri umani, la stessa società italiana.

L’immaginario collettivo e il discorso pubblico conoscono per questa via una improvvisa distrazione di segno, un cambio di vocabolario. Sembra che la stessa vita politica sia in qualche modo sospesa, ovunque rimpiazzata dalla emergenza virus.

Nel merito fioriscono interpretazioni discordanti, spesso opposte, nella stessa comunità scientifica, tra chi minimizza il fenomeno trattandolo alla stregua di una normale influenza, seppure più perniciosa, e chi invece giunge a paragonarlo alla spagnola del primo ‘900 (che fece, per inciso, decine di milioni di vittime).

Non saremo noi a improvvisare un giudizio clinico, non avendo le competenze scientifiche richieste. Vogliamo invece formulare prime considerazioni e proposte da un punto di vista di classe. Perché è vero che il virus non distingue le classi sociali, ma le risposte che si danno ad esso e le loro ricadute sono tutt’altro che socialmente neutre.

Una prima considerazione riguarda la percezione e rappresentazione pubblica del contagio, delle sue proporzioni, della sua progressività, della sua incidenza mortale.

Al netto delle diverse interpretazioni scientifiche, e della necessaria verifica del suo itinere, parliamo di un fenomeno ancora relativamente circoscritto su scala planetaria.

Il tasso di mortalità è in Cina attorno al 3%, e dell’1% fuori della Cina: un tasso sicuramente più alto di una normale influenza ma contenuto. Inoltre le vittime si concentrano nella fascia alta di età, in particolare tra persone molto anziane, già debilitate e/o immunodepresse. Come dire che l’effetto mortale sarà determinato da ritmo e raggio della propagazione del virus più che dalla sua potenza in quanto tale.

Vi sono stati e vi sono Paesi poveri semicoloniali, lontani dallo sguardo dei media d’occidente, segnati da fenomeni più devastanti relativamente al proprio territorio. È il caso dello Yemen, colpito dal colera, con una altissima mortalità infantile, o dell’Africa subsahariana dove nel solo 2001 l’AIDS fece oltre due milioni di morti.

Solo per dare l’ordine delle proporzioni.

Naturalmente non possiamo ad oggi valutare la portata del coronavirus, lo si potrà fare solo a bilancio.

Non sappiamo se le sue dimensioni finali saranno simili, o poco superiori, a quelle della Sars del 2003 (700 decessi nel mondo) o dell’Asiatica del 1957 (2 milioni di morti), o peggio ancora della terribile spagnola del 1918-1920.

Diciamo che la rappresentazione pubblica del fenomeno è oggi condizionata da due fattori, tra loro intrecciati, non strettamente clinici: la sua ricaduta potenziale sull’economia mondiale, già in fase di ulteriore rallentamento (netto calo della crescita USA, nuova possibile recessione in Giappone, calo della produzione industriale in Germania, Francia, Italia), e il fatto di essersi prodotto in Cina, prima potenza manifatturiera su scala globale, oggi minacciata come mai in precedenza da una regressione marcata del suo tasso di crescita, con effetti moltiplicati sul capitalismo internazionale.

La seconda considerazione attiene ai rimedi. La borghesia non sa bene come fronteggiare l’emergenza. Le stesse classi dominanti che hanno tagliato la spesa sanitaria per pagare il debito pubblico alle banche sono alle prese con gli effetti dell’austerità: dal taglio degli investimenti nella ricerca scientifica, totalmente appaltata all’industria farmaceutica, alla carenza ovunque di personale medico e paramedico oggi in Italia costretto, nelle zone interessate dal contagio, a turni di lavoro massacranti (oltre le 12 ore giornaliere).

Nulla più del coronavirus rende evidente l’irrazionalità della società borghese.

Crescono ovunque i bilanci militari, trainati dalla nuova grande corsa tra potenze imperialiste vecchie e nuove per la spartizione del mondo; cresce a dismisura il parassitismo del capitale finanziario, con migliaia di miliardi investiti dalle aziende nell’acquisto delle proprie azioni, per sostenerne il valore di borsa (mentre arretra la produzione reale e si distruggono i posti di lavoro).

In compenso nella sola Italia 9 milioni di persone non riescono ad accedere alle cure sanitarie, o perché non possono affrontarne le spese, o perché debbono aspettare un anno per una visita medica, o perché semplicemente l’ospedale del territorio è stato soppresso. Mentre i lavoratori e le lavoratrici della sanità pubblica si vedono negato persino il rinnovo del contratto, e quelli/e della sanità privata lo aspettano da ben 13 anni.

Oggi questa organizzazione capitalistica preposta alla distruzione ordinaria della sanità è incapace di fronteggiare un’emergenza straordinaria. E per questo ricorre di fatto a misure draconiane di ordine pubblico, sino a vietare ogni forma di manifestazione ben al di là dei territori contagiati. In una corsa panica tra governatori regionali e governo nazionale a cautelarsi da un possibile disastro, mentre le forze più reazionarie inzuppano in pane nel coronavirus per rilanciare pulsioni xenofobe e securitarie.

È necessario fronteggiare l’emergenza con ben altre misure: esame sanitario capillare di tutte le persone che possono essere entrate a contatto col virus; approntamento di nuovi presidi sanitari capaci di gestire sul territorio questo intervento straordinario; assunzione massiccia di nuovo personale medico e paramedico; investimento concentrato nella ricerca pubblica, scientifica e sanitaria; una patrimoniale straordinaria sulle grandi ricchezze per finanziare tali misure; nazionalizzazione dell’industria farmaceutica, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori.

A pagare il conto siano i capitalisti, gli azionisti, i banchieri, non i lavoratori e le lavoratrici!

 

Partito Comunista dei Lavoratori

Una legge truffa per i lavoratori e le lavoratrici

In e-mail il 3 Gennaio 2019 dc:

Una legge truffa per i lavoratori e le lavoratrici

2 Gennaio 2019

Ora che la Legge di stabilità è stata approvata, possiamo aggiungere alle considerazioni già espresse un giudizio d’insieme. Doveva essere “la manovra del popolo”, è invece una legge truffa.

La Legge Fornero rimane, con la sola parentesi di tre anni della cosiddetta “quota 100” (che quota 100 non è per via del vincolo dei 38/62 anni). Una parentesi che sarà finanziata in parte, oltretutto, dal blocco parziale dell’indicizzazione delle pensioni, voluto proprio dal governo Monti-Fornero. Peraltro moltissimi lavoratori e (soprattutto) lavoratrici interessati saranno esclusi persino dalla “parentesi”, per via del numero insufficiente dei contributi maturati o, di fatto, per la penalizzazione legata al minor numero dei contributi stessi.

Il cosiddetto reddito di cittadinanza, che attende ancora il decreto attuativo, assomiglia sempre più a un incentivo all’assunzione rivolto alle imprese. Lo stesso quotidiano di Confindustria ha commentato con compiacimento: «Le imprese entrano a pieno titolo nell’operazione reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza inizia ad avere sempre più la veste di vera politica attiva» (Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2018). Siamo al punto che persino Matteo Renzi, sulle colonne di Corriere della Sera, ha rivendicato la versione annunciata del reddito di cittadinanza come continuità degli incentivi del Jobs act.

Ma soprattutto il punto è: chi paga? Per poter sventolare sotto elezioni il drappo di due bandiere-elemosina e al tempo stesso mediare con la UE e rispettare il Fiscal compact – cioè il patto col capitale finanziario – i due imbroglioni Di Maio e Salvini hanno fatto l’operazione più semplice. Hanno spostato il carico di spesa sul 2020 e il 2021 con una gigantesca clausola di salvaguardia sull’Iva: 23 miliardi sul 2020 e 28,8 miliardi sul 2021.

Le elemosine sdrucite di oggi sono messe sul conto futuro dei “beneficiari” attraverso un aumento massiccio delle imposte indirette ammazza-salari o attraverso un taglio corrispondente delle spese sociali. Semplicemente, ai “beneficiari” questo non viene detto. A loro si comunica la «svolta storica», l’«abolizione della povertà», l’«orgoglio ritrovato dell’Italia» e altre idiozie spazzatura.

Peraltro, l’anticipo del conto è già in parte scritto, nero su bianco, nella manovra approvata.

La scuola subisce un taglio triennale di 4 miliardi, dal taglio al sostegno al taglio dell’edilizia scolastica.

Le privatizzazioni e dismissioni di beni pubblici previste sul solo 2019 ammontano a 19 miliardi, mentre nello stesso anno diminuiscono in assoluto gli investimenti pubblici.

Le assunzioni vengono bloccate nel 2019 in larga parte della pubblica amministrazione, con la mancata sostituzione di chi andrà in pensione e una pesante ricaduta su servizi già collassati, in particolare nella sanità.

Vengono sbloccate le tasse locali, con un via libera ai Comuni per nuovi rincari di Irpef, Imu, Tasi.

Si tagliano verticalmente, com’è noto, le spese per l’assistenza e l’integrazione dei migranti (dai famosi 35 euro vengono decurtati da 18 a 24 su affitto, pasti, biancheria, formazione).

All’altro capo della società le cose vanno diversamente.

Le imprese incassano la deducibilità dell’Imu sui capannoni al 40% (Di Maio puntava al 50%), l’ulteriore abbattimento della tassa sugli utili reinvestiti, anche in contratti a termine, dal 24% al 15% (Ires), la riduzione del 32% dei contributi per gli “infortuni” sul lavoro (Inail), la liberalizzazione degli appalti senza gara entro i 150.000 euro.

Le piccole imprese e i liberi professionisti incassano la flat tax al 15% sul fatturato sino ai 65000 euro nel 2019, e sino ai 100000 nel 2020.

Le banche e le assicurazioni che pagano un obolo triennale di 5 miliardi, prevedibilmente scaricato sui conti correnti e sulla clientela, intascano i 70 miliardi ordinari di soli interessi annui sul debito pubblico, per di più prevedibilmente maggiorati, di due miliardi, per via dell’aumento intervenuto dello spread (divario del tasso d’interesse tra titoli pubblici italiani e tedeschi) e della fine del Quantitative Easing della BCE.

Quanto ai salariati pubblici e privati, continueranno a reggere sulle proprie spalle l’intero edificio della società borghese.

Nulla muterà per loro.

Continueranno a pagare l’80% del carico fiscale.

Continueranno a subire la vacanza contrattuale nel settore pubblico.

Continueranno a subire il Jobs act di Renzi, rimasto intatto in tutti gli aspetti essenziali, a partire dall’abolizione dell’articolo 18.

Continueranno a subire il precariato (il famoso decreto dignità che doveva “abolirlo” ha esteso l’uso dei contratti a termine dal 20% al 30% dell’organico aziendale).

Continueranno a lavorare nei giorni festivi nella grande distribuzione e nel commercio, visto che la promessa di cancellarli è rimasta tale.

Mentre sotto la pressione delle Regioni a guida leghista, Veneto in testa, il governo ha avviato un progetto di autonomie regionali che tratterrà al Nord il grosso del residuo fiscale a scapito del Mezzogiorno, e mirerà a differenziare prestazioni e condizioni giuridiche e contrattuali del lavoro su basi territoriale. Un colpo frontale ai lavoratori e alle lavoratrici di tutta Italia.

Sino a quando? Sino a quando non si produrrà una grande ribellione sociale, di classe e di massa, che ponga l’interrogativo su quale classe governerà l’Italia: se i padroni o i lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

Tossicità e cialtroneria

In e-mail da Democrazia Atea il 20 Giugno 2018 dc:

Tossicità e cialtroneria

Molti ricorderanno che nel 2008 la parola maggiormente pronunciata negli ambienti finanziari, e non solo, era “subprime”.

I debiti “subprime” erano in effetti, prestiti per acquisti immobiliari concessi senza garanzie da alcune banche statunitensi, anche a coloro di cui era certa l’insolvenza, allo scopo di mantenere alti quegli stessi livelli di profitto che le banche d’investimento avevano realizzato già nel 2004 con la cosiddetta “bolla immobiliare”.

In Goldman Sachs avevano brindato ai profitti immobiliari e dopo che avevano concesso prestiti, consapevolmente, anche a chi non li avrebbe mai restituiti, non erano rimasti a guardare.
Avevano inventato una colossale frode, intuendo che quei debiti ingestibili avrebbero potuto essere trasformati in “misteriosi” pacchetti finanziari da vendere sotto forma di cartolarizzazioni.
In questo modo avrebbero continuato a guadagnarci sopra e nel contempo avrebbero spalmato su altri soggetti un rischio che altrimenti non sarebbero stati più in grado di gestire.

Attraverso il processo di cartolarizzazione, i mutui subprime si incrociarono con i prestiti e si trasformarono nei cosiddetti CDO Collateralized Debt Obligation: i CDO a loro volta vennero piazzati presso altre banche.
Quasi tutte le banche europee si sono avventurate nell’acquisto di queste autentiche bufale contabili.
Attraverso il meccanismo della cartolarizzazione dei debiti in prodotti derivati, la crisi immobiliare/bancaria americana si è trasformata in una crisi finanziaria europea, il cui effetto immediatamente evidente è stato quello di una contrazione di liquidità e di una recessione.
I prodotti derivati vennero disvelati in tutta la loro pericolosità, e furono comunemente denominati titoli “tossici”.

I bilanci delle banche, inizialmente gonfiati a dismisura sulle previsioni delle speculazioni, non mostrarono immediatamente la debolezza della loro reale patrimonializzazione.
Solo a distanza di tempo si è cominciato a fare il conto di quanti titoli tossici ci fossero nelle banche europee.
Poiché le parole contano, ed è noto come nei bilanci non possano comparire definizioni troppo esplicative, i titoli tossici si sono trasformati in titoli “illiquidi”, e sono stati catalogati in tre tipologie differenti, per meglio mascherarne la tossicità, come la stadiazione dei tumori.

I titoli di «Livello 1» sono i liquidi, e hanno prezzi riscontrabili sul mercato, poi ci sono i titoli di «Livello 2» che non hanno una immediata quotazione sul mercato ma forniscono parametri idonei a determinarne il prezzo, infine ci sono i titoli per i quali non c’è nessuna valutazione, sono gli invalutabili e sono quelli di «Livello 3» i quali, in assenza di parametri di valutazione, vengono iscritti in bilancio utilizzando modelli matematici, insomma un’altra furbata contabile.

Le banche, smascherate sulle reali consistenze patrimoniali, hanno cominciato a risanare i bilanci e a liberarsi delle tossicità.
Nel bilancio della Deutsche Bank di cinque anni fa risultavano annotati 54,7 trilioni di euro in titoli tossici.
La banca tedesca è riuscita a venderne in quantità tali da avere, al 2017, un residuo di soli 5,8 miliardi di euro, e non c’è adeguata trasparenza nel sapere come quei titoli siano stati spalmati.

La Germania non è la sola, anche le altre banche europee sono esposte agli stessi rischi e viaggiano su una polveriera.

La Banca d’Italia ha avviato uno studio, pubblicato a dicembre 2017, ed ha evidenziato come le banche europee siano esposte complessivamente per 6.800 miliardi di euro di titoli tossici, ma ha anche evidenziato come tre quarti dei titoli illiquidi siano detenuti da Germania e Francia.
Stiamo parlando di una bomba finanziaria che se dovesse esplodere, travolgerebbe non solo l’Europa.

Dalla relazione di Banca d’Italia emerge un dato piuttosto curioso che si sintetizza in un passaggio cruciale: «le banche possedenti tali titoli sono incentivate ad utilizzare a proprio vantaggio la discrezionalità concessa per la loro contabilizzazione, allo scopo di alterare i risultati di bilancio».
In altri termini, le banche tedesche e francesi hanno ottenuto dalle autorità di vigilanza europee, l’autorizzazione a non avere bilanci troppo trasparenti rispetto alla tossicità dei titoli in loro possesso.
Siffatto enunciato merita di essere approfondito, quantomeno in relazione alle finalità.
È pacifico che queste evidenze sono potenzialmente idonee a provocare una nuova crisi finanziaria dalle dimensioni imprevedibili, ma risulta davvero difficile interpretarlo come un imparziale monito agli altri Paesi affinché correggano il tiro sulle pericolose discrezionalità applicate ai bilanci delle loro banche.
E’ invece assai probabile che Banca d’Italia si sia precostituita una carta da giocare se e quando le stesse autorità di vigilanza verranno a chiedere maggior rigore alla trasparenza bancaria italiana, la cui patrimonialità è indebolita dai crediti in sofferenza.

La vigilanza della BCE, infatti, se da un lato mostra accondiscendenza verso le partite truccate dei titoli tossici delle banche tedesche e francesi dall’altra, invece, inasprisce i controlli verso i crediti deteriorati, per intenderci quelli di coloro che non sono riusciti a pagare il mutuo o non sono stati in grado di restituire i prestiti, sia famiglie che imprese.

L’inasprimento dei controlli sui crediti deteriorati innesta una spirale negativa sull’economia reale, già in asfissia, dal momento che il credito bancario è la fonte di finanziamento primaria, non solo delle imprese ma anche delle famiglie.
Ormai è la politica monetaria a dettare la politica economica, e non il contrario, e la politica monetaria si è trasformata in monetarismo neoliberista, sicché la relazione della Banca d’Italia, in questo quadro, non sarà sufficiente ad arginare una eventuale, e molto probabile, nuova esplosione finanziaria.

Né potremmo auspicare soluzioni politiche di rilievo perché siamo sufficientemente consapevoli di essere governati da una compagine cialtrona.

(Carla Corsetti, Segretario nazionale di Democrazia Atea e Coordinamento nazionale di Potere al Popolo)

Banche venete. La realtà del capitalismo e del suo Stato

In e-mail l’1 Luglio 2017 dc:

Banche venete. La realtà del capitalismo e del suo Stato

28 Giugno 2017
banche_venete

Il caso delle banche venete è la perfetta radiografia della natura del capitalismo e dello Stato borghese, contro tutte le false apologie della cosiddetta democrazia e della Costituzione.

I fatti sono noti, e sicuramente brutali nella loro semplicità. Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono fallite. Trascinate al fallimento dalla crisi capitalistica del 2008, dall’espansione abnorme di crediti inesigibili, dal collasso dei valori azionari. Soluzione: il governo decreta la liquidazione coatta delle due banche, dividendo il loro patrimonio in due parti. Da un lato gli attivi superstiti, i crediti esigibili, depositi e obbligazioni di valore, i beni immobili, dall’altro tutta la spazzatura dei titoli tossici, crediti senza futuro, attività fallite. La parte sana viene acquistata al prezzo di 1 (uno) euro da Banca Intesa, che è, assieme a Unicredit, la principale banca italiana. La spazzatura tossica l’acquista invece il Tesoro, a carico dei contribuenti. Questi i fatti, di dominio pubblico e di per sé eloquenti: la collettività, già rapinata dalle banche, si accolla i costi del loro fallimento, a vantaggio di una banca che intasca gratis il bottino.

Ma questa è solo la cornice del quadro. I dettagli sono ancor più illuminanti.

Ricordate gli appelli retorici delle istituzioni sulla “necessaria solidarietà nazionale” per “salvare le banche”, che sono “un patrimonio di tutti”? Bene. Le banche italiane hanno rifiutato di pagare la ricapitalizzazione delle banche venete, attraverso una cassa comune, caricando l’onere sullo Stato.

Ricordate l’infinita litania sul debito pubblico della “nazione”, sulla mancanza di risorse per servizi sanità e pensioni, sulla necessità obiettiva dei sacrifici per ridurre la spesa sociale? Bene. La crisi del debito pubblico scompare quando si tratta di salvare le banche. Per comprare la spazzatura dei titoli tossici delle banche venete il governo spende per l’immediato oltre cinque miliardi. Che si aggiungono a 12 miliardi di garanzie pubbliche sui titoli regalati a Banca Intesa, che ha preteso e ottenuto copertura totale per i “futuri rischi”. Che si aggiungono a 10 miliardi già messi a garanzia dei bond emessi dalle banche venete negli ultimi mesi, nel tentativo (vano) di rimetterle in pista. Il tutto finanziato dal decreto varato a Natale che caricava sul debito pubblico 20 miliardi per il salvataggio delle banche.

Dunque: le stesse banche italiane che hanno in pancia 400 miliardi di titoli pubblici, che ogni anno intascano 70-80 miliardi di soli interessi sul debito, beneficiano di altre decine di miliardi pubblici per galleggiare sul mercato capitalistico.

Grazie a questa operazione di socializzazione delle perdite, la principale banca italiana rilancia alla grande i propri profitti e dividendi, per di più gratis. Banca Intesa ottiene infatti in regalo: 26 miliardi di crediti in ottimo stato, 25 miliardi di raccolta dai depositi, 12 miliardi di obbligazioni, 23 miliardi di raccolta indiretta, oltre alla eliminazione delle due banche concorrenti fagocitate e alla conseguente conquista di un proprio monopolio nel Nord-Est.

Grazie a questo gigantesco regalo ottenuto dallo Stato, le quotazioni azionarie di Banca Intesa sono schizzate in cielo, con immenso gaudio dei grandi azionisti. Altro giro altro regalo, verrebbe da dire: lo Stato è solamente, come diceva Marx, il comitato d’affari del capitale, tanto più in tempo di crisi.

All’altro capo c’è naturalmente chi paga la festa.

Non solo la massa dei lavoratori e della popolazione povera cui si chiederà di pagare il conto del debito pubblico accresciuto, a partire dai milioni di lavoratori statali cui si nega il contratto perché ”mancano i soldi”. Ma anche 4000 lavoratori bancari in esubero per la chiusura di due terzi delle 900 filiali delle banche venete (il terzo rimanente va gratis ad Intesa). Ma anche decine di migliaia di piccoli risparmiatori, cui le banche avevano rifilato obbligazioni subordinate truffa in cambio di laute promesse, e persino qualche migliaio di piccoli azionisti.

Il capitalismo ha le sue leggi, che non hanno riguardo per nessuno. Neppure per quella piccola borghesia che spesso si nutre dei suoi miti.

La sola alternativa a questa rapina senza fine è la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo per i grandi azionisti e sotto il controllo dei lavoratori, con la loro concentrazione in un’unica banca pubblica. È l’unica soluzione che può abolire il parassitismo del capitale finanziario e liberare immense risorse per i servizi pubblici e le protezioni sociali. È l’unica soluzione che può trasformare la banca da strumento di rapina in mezzo di sostegno alle necessità dei lavoratori. È l’unica soluzione che può proteggere lo stesso piccolo risparmio.

Ma la nazionalizzazione delle banche non sarà mai realizzata da un governo borghese, fosse pure “di sinistra”, come mostra l’asservimento di Tsipras alla troika e ai suoi banchieri. Può essere realizzata solamente da un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e sulla loro forza, in una prospettiva anticapitalista e socialista.

Come dimostrò un secolo fa la Rivoluzione d’Ottobre, l’unica che ha realizzato con mezzi rivoluzionari la nazionalizzazione delle banche.

Costruire nella classe lavoratrice, e innanzitutto nella sua avanguardia, la coscienza di questa necessità è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

Grecia: sciopero generale contro Tsipras

Comunicato del PCL Partico Comunista dei Lavoratori 12 Novembre 2015 dc:

Grecia: sciopero generale contro Tsipras

Sciopero generale in Grecia 12 Novembre 2015 dc

12 novembre. Milioni di lavoratori e lavoratrici in Grecia sono oggi in sciopero generale contro le politiche del governo Tsipras. Lo sciopero è stato indetto congiuntamente dai sindacati del settore pubblico e privato.

A due mesi dalla vittoria elettorale di Tsipras il governo Syriza-Anel sta fedelmente applicando le politiche di lacrime e sangue concordate con la troika. Taglio ai sussidi per le pensioni minime, colpi alla contrattazione collettiva, aumento dell’Iva sui beni di prima necessità, tagli drastici alla spesa sanitaria e aumento dei tickets per le cure, sviluppo delle privatizzazioni nei trasporti e servizi. Una valanga che nuovamente si abbatte sulle condizioni sociali di una popolazione povera già saccheggiata da anni e anni di memorandum.

Il governo Syriza-Anel sta continuando la politica dei suoi predecessori. Se possibile in termini ancor più pesanti, a fronte di una crisi sociale ulteriormente aggravata.

Emerge in tutto il suo cinismo il vero volto della politica di Tsipras. Altro che stella dell’opposizione alla troika, come continuano a presentarlo i Vendola e i Ferrero di casa nostra!

Dopo la clamorosa capitolazione alla troika in luglio, Tsipras ha scelto di andare subito al voto prima che le masse popolari potessero sperimentare le conseguenze sociali dell’accordo stipulato. In questo modo Tsipras ha potuto incassare un voto di fiducia alla propria persona e alla propria popolarità da parte di masse stremate da anni di lotta e sfiduciate nella propria forza.

Ma la ruota gira. Gli inganni hanno le gambe corte. A soli due mesi dalle elezioni politiche grandi masse iniziano a capire e vedere con i propri occhi, e a sperimentare sulla propria pelle, la continuità della dittatura del capitale finanziario europeo, di cui il governo Syriza-Anel è leale esecutore.

Lo sciopero generale di oggi può segnare l’apertura di una fase nuova. Quella della ricostruzione di una opposizione di massa alle politiche di austerità, alla troika che le comanda, al governo che le gestisce.

Si conferma una volta di più che il “riformismo” non solo è una truffa ma è una maschera dell’austerità. Solo una rottura anticapitalista (abolizione del debito pubblico, nazionalizzazione delle banche, esproprio dei grandi gruppi capitalistici a partire dagli armatori) può avviare una vera svolta sociale in Grecia. Solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e sulla loro forza, può realizzare questa rottura.

I nostri compagni del Partito Operaio Rivoluzionario greco (EEK) sono oggi in piazza con i lavoratori in sciopero sulla base di questo programma anticapitalista. Il PCL è al fianco dei lavoratori greci in lotta contro Tsipras, in piena solidarietà con i compagni di EEK.

La vostra lotta è la nostra lotta!

Partito Comunista dei Lavoratori