L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

Cercando da tempo, e non avendo ancora trovato, L’istinto materno non esiste che ritengo scritto o riferito a Susan Sontag, ho trovato questo articolo, molto interessante, sul sito The Vision, pubblicato il 17 Giugno 2020 dc:

L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

di Jennifer Guerra

Quando dico di non volere figli, la maggior parte delle persone mi risponde che sono troppo giovane per saperlo e che fra una decina d’anni, quando raggiungerò i fatidici trenta, cambierò idea, perché prima o poi arriverà il fantomatico “Istinto Materno”.

Non ho mai provato il desiderio di essere madre, non ho mai provato tenerezza di fronte a un bambino, voglio fare mille cose nella vita tranne che svegliarmi alle tre di notte per accudire un neonato, non faccio corrispondere la mia idea di realizzazione personale alla procreazione.

Insomma, diventare madre non fa per me. Nemmeno quando ero bambina mi divertivo a giocare con i bambolotti, al contrario di molte mie coetanee che amavano imitare la mamma alle prese con pannolini e biberon. Spesso mi sono chiesta cosa ci sia in me che non vada, perché tante altre ragazze che conosco abbiano questo desiderio, e io no.

Evito il più possibile di parlare di questa cosa in pubblico, un po’ perché è capitato che i miei interlocutori mi prendessero come una sorta di mostro egoista, un po’ perché la mia unica reazione alla frase “Prima o poi l’istinto arriverà” è ormai una poderosa alzata di occhi al cielo. Questa è d’altronde la risposta che si sentono dare molte donne che esprimono la volontà di essere child free. “Prima o poi l’istinto arriverà”, come se fosse una grazia del cielo o Babbo Natale.

Il punto è che l’istinto materno non arriverà mai, perché proprio come il vecchietto con la barba bianca e l’abito rosso, non esiste.

Parlare di istinto materno o, meglio, della sua assenza in Italia è un tabù. In un Paese in cui la questione della natalità viene affrontata con una farsa imbarazzante come quella del Fertility Day, con tanto di opuscoli raffiguranti clessidre per ricordare che il tempo scorre e che il tuo utero ha una data di scadenza, o in cui si permette alle associazioni pro-vita di appendere enormi manifesti in cui si paragona l’aborto al femminicidio, qualsiasi discorso riguardante la complessità della maternità si perde in lotte ideologiche e moralismi.

Dopotutto, come afferma la sociologa Orna Donath nel suo saggio Regretting Motherhood: A Sociopolitical Analysis, non si può parlare di maternità senza ricollegarla all’amore nei confronti dei bambini, che nel contesto delle società contemporanee occidentali è considerato “sacro” ed è visto come “un test della morale femminile”.

Così, l’associazione tra l’amore e la maternità viene istituzionalizzata e una “buona donna”, capace cioè di sentimenti buoni, è anche automaticamente una “buona madre”. Ovviamente, chi non adora i bambini non può che essere “cattiva”.

L’amore nei confronti dei bambini sembra uno di quei valori assoluti e intoccabili, che dev’essere sempre manifesto e totalizzante. Chi non è capace di questo amore è spesso preso dal senso di colpa che deriva dalla sensazione di inadeguatezza, dall’incapacità di aderire alla norma sociale che vuole la donna sempre e solo una buona madre.

Il senso di colpa secondo Donath è una sorta di “condizione necessaria per la preservazione dell’ordine sociale”: se non vuoi figli perché ti vuoi concentrare sulla carriera o perché sei terrorizzata dal parto o perché non vuoi essere responsabile di un’altra creatura, almeno sentiti in colpa. Questo perché il mito della maternità è una forma di mantenimento dello status quo, atta a dividere il mondo in maniera piuttosto superficiale nelle due categorie: buone madri piene d’amore contro donne cattive piene di senso di colpa.

L’istinto materno è la carta jolly, che la gente di solito sfodera per controbattere alla decisione logica e razionale di una donna childfree. L’istinto è, nella credenza comune, qualcosa di naturale e innato a cui, volenti o nolenti, non ci si può opporre.

Molti studi, a partire dal saggio del 1979 Is there such a thing as “maternal instinct”? di David Cutts, hanno posto in dubbio che l’istinto materno – o meglio quell’insieme di credenze e luoghi comuni associati alla maternità che viene impropriamente definito “istinto materno” – esista.

Non esiste nemmeno una definizione moderna di questo fenomeno, che è assente nelle enciclopedie, ma che possiamo trovare ancora nell’edizione del 1971 del dizionario Larousse, in cui viene definito “una tendenza primordiale che crea, in ogni donna normale, un desiderio di maternità e, una volta soddisfatto questo desiderio, spinge la donna a badare alla protezione fisica e morale dei figli”.

Tralasciando l’inciso che parla di “donne normali” e che ancora perpetra quella divisione manichea di cui si parlava sopra, il desiderio di maternità non è affatto una tendenza primordiale.

Secondo la sociologa Laura Kipnis, l’istinto materno è un costrutto sociale nato intorno all’epoca della Rivoluzione Industriale. Prima le donne avevano molti figli per motivi pratici ed economici: più figli equivalevano a più braccia per lavorare.

Il rapporto con loro era quanto di più diverso potesse esistere dalla classica famiglia felice. Spesso, nelle famiglie più abbienti, a poche ore dal parto i neonati venivano affidati alle balie e crescevano lontano dalle madri, che comunque tendevano a mantenere con loro un forte distacco emotivo.

Gli studiosi, in proposito, arrivano a parlare, in riferimento al XVIII secolo, di “mancanza di sentimento dell’infanzia”, una rassegnazione totale delle famiglie di fronte alla morte dei bambini, a causa dell’altissimo tasso di mortalità.

Con la svalutazione del valore economico dei figli, in conseguenza alla maggiore disponibilità di lavoro, e con la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili – uomini in fabbrica, donne in cucina – i figli cominciarono a diventare un peso e non più una risorsa, di cui si doveva occupare solo e unicamente chi restava in cucina, ovvero la madre.

Poiché smettere di procreare sembrava impossibile e assurdo, si optò per una “romanticizzazione” della maternità, di modo che le donne non fossero più obbligate a fare figli per necessità, ma per vocazione. Insomma, quando i figli non servivano più ad aumentare il patrimonio del nucleo famigliare, con il loro lavoro nelle famiglie più povere o con il matrimonio in quelle più ricche, l’affetto e l’amore della madre sembravano le uniche ragioni plausibili per la loro esistenza.

Ma se l’istinto materno non esiste, com’è che siamo in 7 miliardi su questo pianeta?

La risposta è molto semplice. La biologia ci ha insegnato che ogni essere vivente, vegetale o animale che sia, essere umano compreso, è spinto a trasmettere il proprio codice genetico. Questo tuttavia non riguarda esclusivamente gli individui femminili.

Da un punto di vista evolutivo, però, l’uomo si è differenziato dagli animali. Mark Elgar, professore di Biologia evolutiva all’Università di Melbourne, fa notare come il motore di tutto sia il desiderio sessuale e non un non meglio chiarito “istinto materno”. In una popolazione animale, una preferenza genetica che ripudi il sesso non può stabilirsi o mantenersi, perché gli individui sessualmente inattivi non possono conservarsi. Ma l’uomo, sfruttando le sue caratteristiche evolutive, ha trovato alcuni modi ingegnosi per continuare a fare sesso senza riprodursi. Tramite la contraccezione, gli uomini sono riusciti a scindere il sesso dalla riproduzione. Quindi, in termini di evoluzione biologica, una preferenza genetica per l’attività sessuale non può equivalere all’istinto materno. Se fosse il solo istinto di conservazione a guidarci, le persone childfree non sarebbero interessate al sesso. Non so voi, ma io lo sono abbastanza.

Non esiste nessun istinto materno, nel senso che non c’è nessuna “tendenza primordiale al desiderio di maternità”, come invece si sosteneva sul dizionario Larousse. Al massimo c’è un desiderio di riprodursi e un desiderio di trasmettere il proprio codice genetico, che però non riguarda solo le femmine, ma indistintamente tutti gli individui.

È comunque innegabile che moltissime persone, di fronte alla vista di un neonato, siano prese da sentimenti di tenerezza e di cura. Questo accade perché a entrare in gioco è un ormone di origine proteica, l’ossitocina, che promuove il legame tra adulto e cucciolo. Nel saggio Psicobiologia dello sviluppo, di Berardi e Pizzorusso, vengono illustrati alcuni esperimenti con i ratti che hanno dimostrato l’importanza di questo ormone: vedere un piccolo indifeso stimolerebbe la produzione di ossitocina nei topi adulti, anche nel caso in cui il cucciolo in questione non sia il proprio.

L’ossitocina è lo stesso ormone che viene prodotto durante il travaglio e che stimola la lattazione, ma viene prodotto anche dai maschi e più in generale ogni volta che si fa sesso. Questo, ovviamente, non significa che la presenza dell’ossitocina sia la prova dell’esistenza dell’istinto materno, come hanno titolato alcuni articoli riferendosi alla ricerca della NYU Skirball Institute of Biomolecular Medicine, che si è limitata a dimostrare quali aree del cervello sono coinvolte nel comportamento materno. L’ossitocina si attiva anche alla vista di un cucciolo di un’altra specie ed è il motivo per cui siamo tutti ossessionati dai gattini.

Insomma, ossitocina o no, l’istinto materno non è affatto qualcosa di innato: anche volendo ammettere che esista, non è detto che tutte le donne, senza eccezioni, lo debbano sentire. Più che un fatto biologico, è un costrutto sociale che ha origini storiche ben precise.

Simone de Beauvoir, ne Il secondo sessopubblicato nel 1949, ha dimostrato come i pregiudizi sociali e biologici legati alle donne abbiano contribuito a relegarle in una posizione secondaria. Questo perché non basta la maternità a spiegare la condizione femminile, bisogna necessariamente sommare a essa il contesto socio-economico-patriarcale in cui è stata inserita nella Storia.

Oggi la donna è libera di decidere molti aspetti della sua vita e di esercitare i suoi diritti civili, ma la maternità sembra ancora un tasto dolente. Chi sceglie di essere madre, chi non può esserlo e chi sceglie di non riprodursi è parimenti vittima del mito dell’istinto materno.

Le madri devono continuamente competere fra loro per dimostrare chi sia la migliore, la più brava a perseguire quell’istinto inesistente. Chi non può avere figli è continuamente frustrata dal senso di colpa per non aver potuto realizzare quel desiderio. Chi non vuole assolutamente avere figli si sentirà continuamente in dovere di dare spiegazioni.

Il desiderio di fare un figlio certamente esiste ed è una sensazione profonda, vera e bellissima, ma non è un desiderio esclusivamente femminile e non è legato a chissà quale caratteristica biologica, tanto che sembra che sempre più spesso siano gli uomini a voler mettere al mondo un bambino. Nessuna di noi si deve sentire in colpa nei confronti dell’istinto materno. Con buona pace del dizionario Larousse, madri o non madri, siamo tutte donne normali.

L’hijab day è una sconfitta culturale. La libertà delle donne non passa per il velo.

14 Febbraio 2023 dc, dal sito MicroMega, 1 Febbraio 2023 dc:

L’hijab day è una sconfitta culturale. La libertà delle donne non passa per il velo.

di Giuliana Sgrena

Il relativismo culturale porta a difendere il simbolo dell’oppressione della donna. Se non sono riuscite le iraniane con un coraggio straordinario a smascherare il vero significato patriarcale del velo, sarà difficile convincere le femministe di casa nostra che la libertà non è nell’hijab.

Celebrare l’International hijab day mentre le donne iraniane – e non solo le donne – mettono a rischio la loro vita per eliminare il chador è una sconfitta culturale e politica di chi, in occidente, sostiene di difendere i diritti delle donne. Paradossalmente in occidente si difende il diritto di portare il velo mentre nei paesi musulmani le donne lottano per il diritto a non portarlo.

Il relativismo culturale porta a difendere il simbolo dell’oppressione della donna. L’hijab, infatti, non è una prescrizione del corano, non appartiene alla tradizione, ma è lo strumento per controllare la sessualità della donna. Infatti, secondo i fautori dell’integralismo islamico, il velo deve essere portato dalla prima mestruazione fino a quando la donna è feconda. Se lo può togliere in casa anche in presenza di uomini con i quali, se avesse un rapporto sessuale, sarebbe considerato incesto.

La donna deve coprirsi quelle parti del corpo – in alcuni casi completamente, come in Afghanistan con il burqa – che potrebbero indurre in tentazione il maschio, del quale deve preservare l’onore! E se l’onore della famiglia viene infranto è sempre la donna a dover pagare, spesso con la morte. L’hijab è il simbolo della discriminazione e dell’inferiorità della donna – peraltro teorizzato anche da (San) Paolo nella prima lettera ai corinzi – che deve abbassare gli occhi, non fare rumore, non alzare la voce. Certo questi comportamenti vengono ignorati nella campagna che sponsorizza il giorno internazionale dell’hijab che dovrebbe essere provato anche dalle non musulmane!

In questo caso, se a prevalere non dovesse essere l’esotismo di qualche ora, l’esperienza dovrebbe convincere le donne che il velo priva di quella sensazione di libertà rappresentata dal vento tra i capelli. Quella sensazione che aveva portato milioni di iraniane a aderire alla campagna lanciata da Masih Alinejad “My Stealthy Freedom” (la mia libertà clandestina o furtiva) postando sui social una loro foto senza velo, una campagna contro il velo che ha portato all’esplosione di una vera rivoluzione dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini nel settembre dello scorso anno.

Una rivendicazione femminista che ha provocato la nascita di un movimento che oggi riassume tutti i problemi sociali ed economici della società iraniana a partire dalla discriminazione delle donne. Una rivolta che unisce classi, generazioni ed etnie diverse e diventa una vera rivoluzione con l’obiettivo di porre fine al regime teocratico degli ayatollah. Una rivoluzione che se avrà il successo che auspichiamo avrà effetti su tutti i paesi musulmani interessati dalla reislamizzazione iniziata proprio con la vittoria di Khomeini in Iran nel 1979. La solidarietà con le donne iraniane in occidente, tuttavia, non sembra aver scalfito la convinzione che la “libertà” stia nel portare il velo, una scelta molto più facile da sostenere per chi non è obbligata a portarlo.

Il velo accompagnato dalla “modest fashion”, che ha alimentato il business della moda negli ultimi anni, che di modesto ha solo il nome. Il velo, infatti, è stato sdoganato in occidente non solo dalle campagne pubblicitarie come quella del Consiglio europeo dallo slogan “La libertà è nell’hijab”, fortunatamente bloccata dalla Francia, ma anche sulle passerelle di moda. Ormai l’hijab è entrato nelle “capsule collection” di tutti i maggiori stilisti a cominciare dalla “Ramadan collection” di Dkny e l’”Abaya line” di Dolce e Gabbana. Un giro di affari di parecchi miliardi forse persino più difficile da intaccare dell’International hijab day.

Tuttavia, se non sono riuscite le iraniane con un coraggio straordinario, motivate dal fatto che se non riescono ad abbattere la repubblica islamica non potranno mai affermare i loro diritti, sarà difficile convincere le femministe di casa nostra che la libertà non è nell’hijab. Ma sono sempre di più la ragazze in Italia che non accettano l’imposizione del velo da parte dei genitori immigrati da paesi musulmani, queste ragazze devono essere protette e devono poter scegliere il loro futuro, dobbiamo garantire loro una scelta di libertà.

Le donne in rivolta contro il velo nella Giornata Internazionale dell’Hijab

14 Febbraio 2023 dc, pubblico un po’ in ritardo dal sito di MicroMega, 31 Gennaio 2023 dc:

Le donne in rivolta contro il velo nella Giornata Internazionale dell’Hijab

Traduciamo il comunicato stampa congiunto delle associazioni One Law for All, FEMEN e del Concilio degli ex musulmani della Gran Bretagna che annuncia una protesta globale contro l’hijab e i regimi islamisti in Iran, Afghanistan e in tutto il mondo. Perché l’hijab verrà anche rivendicato come diritto da alcune, ma è un imposizione religiosa e patriarcale per tantissime altre.

1 febbraio 2023: Londra aderisce al Global Body Riot (rivolta globale del corpo) per sostenere la rivoluzione delle donne in Iran

14.00, Trafalgar Square

Il 1° febbraio, Giornata internazionale dell’Hijab, le donne si raduneranno in una rivolta globale del corpo in difesa della rivoluzione delle donne in Iran e del motto “donna, vita e libertà”. Parteciperanno nelle strade e sui social media, con o senza reggiseno, per sfidare le leggi che impongono l’hijab, le stesse che hanno ucciso Mahsa Jina Amini il 16 settembre e che continuano a opprimere innumerevoli donne e ragazze in Iran, Afghanistan e in tutto il mondo.

A Londra, le donne si mobiliteranno alle 14.00 a Trafalgar Square.

Le donne che non potranno partecipare alle proteste in strada potranno postare foto sui loro account social, anche dall’Iran.

Lo slogan “rivolta del corpo” è tratto dai graffiti scritti sui muri in Iran. È ispirato anche alle foto che sono state condivise dalle donne iraniane, in cui mostrano il loro reggiseno a viso coperto e con slogan come “Tu sei il pervertito, io sono una donna libera”.

L’hashtag #BodyRiot è già stato soppresso da Instagram e Facebook, che continuano ad aiutare gli islamisti a mantenere le limitazioni e a suscitare vergogna per il corpo nelle donne e nelle bambine.

Sebbene le donne adulte abbiano il “diritto” di indossare l’hijab, su scala sociale di massa l’hijab è tutto fuorché un diritto e una scelta, in particolare perché è una prescrizione religiosa che le donne con retroterra musulmano devono seguire. È spesso imposto con forza brutale, violenza, minacce, ostracismo e intimidazione anche nelle nazioni non teocratiche.

Inoltre è importante notare che la Giornata internazionale dell’hijab è parte di un progetto islamico atto a normalizzare le restrizioni sull’autonomia corporale delle donne e non ha nulla a che vedere con la libera scelta personale.

Il 1° febbraio ci scateneremo contro l’hijab come strumento di restrizione e controllo del corpo delle donne. Rimaniamo in solidarietà con le tante donne e ragazze iraniane che si tolgono e bruciano i loro hijab. Celebreremo il corpo in rivolta contro le norme religiose e patriarcali.

La Rivolta del Corpo è sollecitata da One Law for All, FEMEN e il Concilio degli ex musulmani della Gran Bretagna.

#BodyRiot for #WomanLifeFreedom. On #1Feb #HijabDay we call for #NoHijabDay #UnapologeticBodyRiot #UnapologeticBody.

Comunicato stampa originale.

Il diritto all’aborto è un diritto di tutti

04 Ottobre 2022 dc, da Hic Rhodus, 26 Giugno 2022 dc:

Il diritto all’aborto è un diritto di tutti

di Ottonieri

La notizia la conosciamo tutti (ed è molto ben riportata in questo articolo del Post): la Corte Suprema degli USA ha deliberato che l’aborto non può più essere considerato un diritto costituzionale, capovolgendo le precedenti sentenze chiamate Roe contro Wade e Planned Parenthood contro Casey, che riconoscevano l’aborto come implicitamente compreso nei diritti previsti dal Quattordicesimo Emendamento della Costituzione, che tra l’altro recita «Nessuno Stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi Stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge».

L’attuale Corte Suprema, nella sua delibera, afferma che (la traduzione è mia) «La Costituzione non fa alcun esplicito riferimento al diritto di ottenere un aborto […] La Corte ritiene che il diritto a ottenere un aborto non sia profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della Nazione […] Guidata dalla storia e dalla tradizione che tracciano le componenti essenziali del concetto nazionale di libertà ordinata, la Corte considera che il Quattordicesimo Emendamento chiaramente non protegge il diritto all’aborto». In sostanza, secondo la Corte, il concetto di libertà protetto dal Quattordicesimo Emendamento non include l’aborto, come invece lo si era inteso nel caso Casey, in cui la Corte aveva inteso quel concetto come libertà di compiere «scelte intime e personali, centrali per la dignità e l’autonomia della persona». Per l’attuale Corte Suprema, se la Costituzione proteggesse un concetto troppo ampio di libertà, questo potrebbe finire per includere cose come l’uso di droghe illegali o la prostituzione (Dio non voglia!). Di conseguenza, la Corte conclude che «La Costituzione non impedisce ai cittadini di ciascuno Stato di regolare o proibire l’aborto. Le sentenze Roe contro Wade e Planned Parenthood contro Casey si arrogavano questo diritto. La Corte le cancella e restituisce questa autorità al popolo e ai suoi rappresentanti eletti».

Questa delibera è stata votata dai giudici Samuel Alito (nominato da George W. Bush), Clarence Thomas (nominato da George Bush), Neil Gorsuch (nominato da Donald Trump), Amy Barrett (nominata da Donald Trump) e Brett Kavanaugh (nominato da Donald Trump), mentre il giudice John Roberts, presidente della Corte a suo tempo nominato da George W. Bush, ha espresso un separato parere intermedio. I giudici nominati da Bill Clinton e Barack Obama hanno votato contro.

Quali effetti ha questa decisione? Almeno dal punto di vista di un europeo, un caos. Ogni Stato degli USA può ora avere una diversa normativa, e ci sono diversi Stati che avevano in realtà già approvato leggi restrittive dell’aborto che erano state bloccate perché incostituzionali secondo la precedente interpretazione. Queste leggi saranno quindi “sbloccate”, mentre in altri casi si tornerà alla legislazione precedente, e in altri ancora invece resteranno in vigore leggi favorevoli all’aborto già approvate e ovviamente ancora valide. Questa situazione è efficacemente rappresentata nella figura qui sotto, tratta da un utile articolo di Politico.com:

Situazione normativa sull’aborto dopo la delibera della Corte Suprema. Fonte: http://www.politico.com

Ebbene, cosa dobbiamo pensare di questa sentenza? Chiaramente, una lettura “semplice”, e certamente non errata, è che essa sia la naturale conseguenza delle forzature messe in atto da Trump per assicurarsi una maggioranza Repubblicana e dichiaratamente conservatrice nella Corte Suprema.

C’era effettivamente da aspettarsi che alla prima occasione questa maggioranza che è difficile non chiamare retriva ribaltasse la questione più controversa e simbolica su cui la Corte si sia mai espressa. Questa, c’è poco da fare, è una sentenza politica. E, purtroppo, l’oscurantismo politico di questa maggioranza della Corte non si fermerà facilmente qui, a meno che una reazione popolare violenta non sconsigli i giudici dall’attaccare anche altri diritti. Il giudice Clarence Thomas ha scritto, in una sua opinione individuale, che la Corte in futuro «dovrebbe riconsiderare» altre sentenze precedenti a favore di diritti alla contraccezione, alle relazioni e ai matrimoni omosessuali.

A una sentenza politica è certamente necessario opporre una reazione politica, e questo accadrà in USA. Lo stesso Presidente Biden ha commentato la decisione della Corte definendola «crudele» verso le donne e invitando l’elettorato democratico a una mobilitazione. Eppure, è evidente che un’analoga mobilitazione non mancherà neanche tra le file più conservatrici del Partito Repubblicano, galvanizzate dalla vittoria in una battaglia multidecennale. La divisione politica su un diritto è già di per sé una sconfitta di chi considera questo diritto universale.

Ci si deve quindi porre una questione più complessa: come mai in una società come quella USA, in cui il movimento MeToo ha imperversato colpendo senza prove e senza processi personalità e celebrità, in cui la political correctness detta legge fino al punto da far dichiarare a Tom Hanks «non credo che oggi la gente accetterebbe l’inautenticità di un eterosessuale che recita la parte di un omosessuale», come mai, dunque, è possibile che venga colpito un diritto così essenziale per la causa femminile, e che questo avvenga tra il giubilo di una parte rilevante della popolazione? Davvero, nel profondo, gli americani sono in buona parte bigotti e sciovinisti, e quelle che noi vediamo sono solo manifestazioni parziali e superficiali di una parte “progressista” che ha potere ma che non rappresenta tutti?

Forse sì. Ma io credo che il problema sia anche un altro.

Noi di Hic Rhodus abbiamo già parlato di aborto, non relativamente agli Stati Uniti, ma a come, in Italia, sia un diritto subdolamente contrastato e nei fatti ampiamente negato a causa di una legge sull’obiezione di coscienza che andrebbe cancellata oggi. Il peso insopportabile dell’influenza vaticana su questo Paese non è certo una novità, eppure gli pseudo-movimenti “pro-vita” in Italia non hanno il rilievo e la visibilità che hanno in USA, dove oltretutto la maggioranza degli attivisti antiabortisti è di sesso femminile. L’ipocrisia della cosiddetta “obiezione di coscienza” da noi è un efficace mezzo contro quello che l’ampia maggioranza della popolazione considera un diritto fondamentale.

L’aborto non è, e non deve essere visto come, un diritto delle donne. L’aborto è uno dei casi in cui si attua il diritto fondamentale di tutti noi a disporre liberamente di noi stessi. Quando si tratta di una scelta fondamentale per la propria vita come diventare un genitore, e di un impegno personale che per tanti mesi trasforma radicalmente e condiziona il proprio corpo, la libertà personale è l’unica fonte legittima di decisione. Far riconoscere questo diritto non è una battaglia femminista, ma liberale, e la sua accettazione è parte del mio diritto a essere libero, chiunque io sia. Questo è ciò che accomuna, e deve accomunare, il riconoscimento del diritto all’aborto, al matrimonio omosessuale, all’eutanasia: non come diritto delle donne, degli omosessuali, dei malati, ma come parte integrante di un unico diritto, di tutti.

Anche per questo, abbiamo preso più volte posizione contro, invece, la pretesa di stampo politically correct di imporre “diritti speciali” per ciascuna categoria, quel tipo di pretesa che sta dietro la dichiarazione di Tom Hanks che ho citato prima. Diritti “speciali” non ne esistono, e la loro rivendicazione in nome dell’inclusività crea esattamente l’opposto, nicchie “esclusive” di ricerca di rendite di posizione, vincenti o perdenti a seconda dei rapporti di forza. E la frammentazione della nozione di “diritto” è antitetica alla rivendicazione dei diritti “veri”, che come tali sono uguali per tutti e si declinano nelle diverse condizioni in cui ciascuno di noi si trova.

Il diritto all’aborto non è una questione di parte, o di genere. È un principio sul quale tutti abbiamo motivo di concordare e che tutti abbiamo ragione di difendere, indipendentemente dalla politica e anche dalla religione. Averlo sottratto a questa universalità e declassato a questione politica, da regolare “democraticamente”, è il misfatto fondamentale commesso dalla Corte Suprema.

La mobilitazione che oggi è necessaria, non solo in USA, a causa di questa sentenza sarà vincente solo se saprà recuperare questa dimensione universale dell’ aborto come parte dei diritti umani.

Emmanuelle

Questo articolo è presente anche nella pagina Appunti

Articolo scritto tra l’autunno 1975 dc e la primavera 1976 dc e proposto a Quotidiano dei Lavoratori (quotidiano di Democrazia Proletaria). L’allora direttore, Silverio Corvisieri, lo rifiutò quasi inorridito. E sapevo perché. Lo si capisce leggendo l’articolo…

Emmanuelle

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di Arnaldo Demetrio

Di fronte al successo che negli ultimi anni ha riportato il libro Emmanuelle, e gli altri che lo hanno seguito, e il film omonimo che è uscito recentemente, e che ha riportato un successo senza precedenti, è necessario, a mio parere, vedere di fare il punto su questo fenomeno niente affatto trascurabile, naturalmente filtrato attraverso una critica impostata in senso materialistico.

Quando, molti anni fa (prima del ‘68), Emmanuelle Arsan scrisse il romanzo, provocò un vero e proprio terremoto letterario: il libro narrava le esperienze erotiche e “filosofiche” della moglie di un diplomatico inglese in Thailandia (dietro la protagonista si celava chiaramente il nome di Emmanuelle Arsan, che peraltro è uno pseudonimo).

In quel libro la scrittrice, oltre a uno stile letterario veramente impeccabile e accurato nel descrivere le vicissitudini erotiche della protagonista, aveva anche l’ardire, per quei tempi, di tentare di costruire una “filosofia erotica” o, meglio, “filosofia nuda” (come la rubrica che la stessa autrice curava sul mensile Playmen) che considerasse l’erotismo e il conseguimento del piacere come scopo essenziale dell’uomo e anche come l’unico modo completamente valido per la liberazione dell’uomo stesso. Con quali implicazioni filosofiche, morali e religiose si può ben facilmente immaginare.

Il romanzo suscitò molto scalpore, e ad esso seguì, per mano della Arsan, L’Antivergine e Il Terzo libro: opere in cui si continuava a esporre gli stessi concetti, ma in modo più avanzato e perfezionato.

Come succede sempre nel mondo capitalista in fatto di consumi di massa, questi libri crearono una moda e, con la scusa che il nome della Arsan non fosse apparso sulle sue opere, autori ignoti pensarono bene di continuare il filone. Con il beneplacito della società dei consumi uscì almeno una decina di altre brutte copie di Emmanuelle, quasi tutti intitolati Emmanuelle 2, Emmanuelle 3 e così via, e chiaramente, pur imitando lo stile letterario specialmente nella descrizione delle scene erotiche, non potevano essere paragonate minimamente, come stile e tematica di fondo, agli originali della scrittrice anglo-asiatica.

La scrittrice acquistò molta fama in tutto il mondo ma non concesse mai interviste e non rivelò mai il suo vero nome: da anni collabora stabilmente al mensile Playmen in cui vengono pubblicate due pagine di Filosofia nuda, e una pagina di corrispondenza. Ultimamente, per evitare ulteriori equivoci, la scrittrice ha denunciato la casa editrice che aveva pubblicato i falsi e ha specificato ufficialmente il numero e i titoli delle sue opere.

Il discorso sugli intenti e sulla particolare filosofia e concezione del mondo della Arsan sarebbe lungo e, tutto sommato, abbastanza riducibile: praticamente si può dire che l’Arsan, per natura e per collocazione sociale profondamente borghese, fa del piacere fisico dell’uomo un fattore con grande influenza su tutto il resto, e in ciò non ci sarebbe nulla da dire, Epicuro Freud e Reich possono insegnarci molte cose: la differenza sostanziale sta nel fatto che l’erotismo e il piacere diventano qui il mezzo più importante, per non dire l’unico, per il conseguimento della felicità, e con questo la liberazione dell’umanità da tutte prevenzioni, tradizioni, superstizioni e tabù che tutti i filosofi marxisti, dallo stesso Marx in poi, hanno analizzato e che noi marxisti rivoluzionari faremmo derivare senza dubbio dal sistema capitalistico e borghese, e di cui vedremmo l’eliminazione solamente attraverso l’avvento del socialismo.

Ma la Arsan non la pensa così: lei colloca tutto il suo discorso in un ambiente raffinato e ultraborghese, e la liberazione la vede, come già detto, solo come sessuale, morale e religiosa.

Come se ciò non bastasse, i cineasti statunitensi hanno offerto un’altra occasione alla scrittrice per rincarare la dose e per puntualizzare meglio questi concetti: l’uscita sugli schermi di tutto il mondo del film Emmanuelle, che chi ha potuto vedere nell’edizione integrale (cioè non italiana, ovviamente) non può non riconoscere i pregi nella sceneggiatura, svia però e snatura profondamente il significato dell’opera da cui è tratto, con una conclusione profondamente reazionaria e razzista.

Per reazione a questo vero e proprio oltraggio alla sua produzione, Emmanuelle Arsan ha scritto un libro fortemente polemico, in titolato Il mio “Emmanuelle”, il loro Papa, il mio Eros, in cui attacca pesantemente la speculazione attuata col film.

Questo libro costituisce senza dubbio la summa di tutta la sua concezione della vita e del piacere, e un’occasione forse irripetibile per ontologizzare il suo pensiero.

La Arsan esordisce dicendo che l’Emmanuelle del film non la riconosce: il marito che gli sceneggiatori hanno dato alla mia Emmanuelle lei di certo non lo avrebbe sposato. Mario, misterioso iniziatore ai complessi riti dell’amore, è diventato un vecchio semi-paralitico, logorroico e travagliato dall’impotenza: la mia eroina ne avrebbe sicuramente riso; Emmanuelle, inoltre, io l’ho sempre immaginata con i capelli lunghi, e i movimenti improvvisi della sua nuca servivano a calare un momentaneo sipario d’ombra sulla bellezza dei seni spesso nudi, nel film persino i capelli sono diventati inopinatamente cortissimi. La scrittrice si domanda costernata perché abbiamo apportato tali cambiamenti al suo romanzo.

La Arsan risponde a questa sua domanda in maniera molto dura: perché mai il regista e lo sceneggiatore del film avrebbero dovuto corrispondere pienamente al suo libro se, in quel libro, non ci si rispecchiavano affatto? Basta leggere le loro dichiarazioni, guardare il loro comportamento nella vita, con la famiglia.

Il regista ha dichiarato apertamente che era profondamente avverso ai film erotici e che questa era la più triste esperienza della sua vita; il produttore ha detto che, per lui, farsi filmare in quel modo era profondamente disonorevole; la protagonista Sylvia Kristel, inoltre, per girare il film in Thailandia si è fatta accompagnare dal marito, ha affermato sfrontatamente di essere monogama e pudica, che non ama partecipare oggi a spettacoli erotici ed afferma, dulcis in fundo, che è favorevole alla censura della pornografia. Che cosa ci si può aspettare da gente simile, si chiede Emmanuelle Arsan. Ella dice, infine, che il grande successo del film è quindi in un certo senso ingiusto, perché si tratta di un’opera non sincera.

Tutto l’ultimo libro è profondamente segnato da questa specie di moralismo dell’eros: l’erotismo come pensiero e come azione, arte, missione, militanza, in cui non sono ammessi debolezze, compromessi e tentennamenti. Con sottigliezza da inquisitore si indaga senza pietà e si demoliscono eretici, deviazionisti e speculatori anche dove alcuni farebbero fatica a vederne: se si abbraccia la religione dell’eros, si afferma in pratica, bisogna essere coerenti fino in fondo, agire come si pensa, vestirsi come si agisce o, meglio, svestirsi come si vive e come si scrive. Io come vivo scrivo, afferma coraggiosamente la scrittrice: il mondo è pieno, ci dimostra, di molti falsi apostoli dell’erotismo, della moda, della politica, dappertutto. Ci sono donne che si comportano apparentemente con indipendenza e spregiudicatezza e poi seguono come ipocrite pecore i dettami della moda, rinunciando al valore provocatorio della nudità mostrata, limitandola ai ridicoli campi di nudismo, manifestazioni emblematiche di compromesso e autocensura: il nudo, infatti, ha il valore di provocazione in un mondo vestito, ha certo più valore in una chiesa che in una spiaggia recintata (di questo sembrano una conferma le manifestazioni di nudismo ultrarapido di questa estate, un po’ in tutto il mondo).

Altro fenomeno indicatore della doppia morale con cui molta gente si trastulla è l’amore: lo si fa al chiuso di stanze, lontano dallo sguardo e dai desideri degli altri; esclusione dal mondo diventa auto-esclusione, dice la Arsan. L’amore è come un’arte e come tale si realizza liberamente, dev’essere fatto con la gente e tra la gente.

Dopo il maggio del ‘68, afferma ancora, le istituzioni del potere, che sui tabù e le paure fondano il loro predominio e la loro sopravvivenza, sembrano riguadagnare terreno: qual’è la soluzione, quando anche coloro che affermano di voler cambiare le cose mostrano di essere coinvolti nella cupa logica dei divieti e delle costrizioni e guardano con sospetto l’arma del piacere, dell’amore, che più di ogni altra ci può condurre alla liberazione (e questa è l’affermazione più contestabile della Arsan)?

Afferma che l’erotismo introduce l’emozione dell’arte nell’amore, e quest’arte diventa civilizzatrice e anticipatrice: un’azione di moralismo controcorrente, come lei stessa la chiama, ed un ruolo che né il politico, né il moralista, né il sociologo e il filosofo sono in grado di svolgere, il loro compito non essendo quello di annunciare il sogno, che appartiene invece all’arte erotica, e cui è alla ricerca.

Nel volume, otre a tre nuovi racconti molto esemplificativi e in linea con il resto dell’opera, è di nuovo pubblicato il pamphlet contro l’enciclica anti pillola di Paolo VI del 1968: in esso la Arsan dice che la Chiesa concepisce l’amore come fedeltà e come strumento destinato esclusivamente alla riproduzione secondo natura. Da una parte il matrimonio, in cui la donna finisce praticamente per prostituirsi in cambio di una sorta di assicurazione a vita, e dall’altra un’opposizione medievale alle tecniche e ai mezzi meccanici inventati dall’uomo per evitare nascite e provare un piacere completo, se non altro. Gli organi sessuali destinati soltanto alla procreazione, si domanda indignata l’autrice di Emmanuelle, sarebbe come volere condannare la parola perché la bocca è fatta soprattutto per mangiare!

Sinceramente ci sarebbe molto da dire su tutto ciò, anche se personalmente non posso fare altro che condividerle: si può dire, come conclusione, che sarebbe certamente auspicabile che il messaggio della Arsan venisse sfrondato da tutta la paccottiglia tipicamente borghese e venisse invece valorizzato da tutto il patrimonio etico, politico, sociale, filosofico e rivoluzionario di cui sono capaci soltanto il marxismo e il materialismo dialettico anche se, ovviamente, bisogna stabilire delle priorità. La priorità attuale è, senza ombra di dubbio, il rovesciamento del sistema borghese e l’instaurazione di uno Stato socialista e autenticamente proletario.

La rivoluzione ideologica, filosofica e sessuale si può iniziare a costruirla adesso ma non si deve fare di ciò, come spesso è accaduto, un elemento deviante da quelli che sono i compiti attuali, e irrimandabili, del movimento operaio e popolare.