Benvenuta Shangai

20 Agosto 2022 dc, dal sito Noi non abbiamo patria 12 Aprile 2022 dc:

Benvenuta Shangai

Shanghai e la Guerra in Ucraina

Le scene da Shanghai di ventenni e trentenni che spontaneamente in molti quartieri violano il lockdown e rivendicano il cibo, rifornimenti alimentari e in taluni casi se lo vanno a prendere in massa, tutti rigorosamente con la mascherina al volto, qualche cosa ci trasmette per il futuro:

Benvenuta Shanghai nella lotta di classe all’epoca del coronavirus!

Nel frattempo ci induce ad un paio di riflessioni.

Uno, la propaganda e l’ideologia “orientalista” in salsa razzista si rafforzerà, anche a partire del conflitto in Ucraina, contro “gli orchi Russi”, contro i “dragoni Cinesi” da contenere con le armi del civile occidente.

Due, che non abbiamo mai capito nulla degli atteggiamenti delle forze impersonali del capitale nei confronti della pandemia.

Laddove la composizione organica del capitale è alta e a sfavore del capitale variabile, il fermo delle produzioni ha un impatto maggiore dei milioni di ore perse per malattia. È ovvio che la perdita delle ore di lavoro alla fine incide sulla produttività. Risultato, lockdown equilibrato, campagna vaccinale (quarta dose?) e green pass.

Laddove come in Cina il rapporto ancora non è così elevato, e l’accumulazione si trova nella sua curva più alta basata sulla estorsione del plusvalore assoluto attraverso l’utilizzo estensivo del capitale variabile, ossia l’uso estensivo di un numero eccezionalmente vasto di forza lavoro operaia, il lockdown rigido ristretto nel tempo per la Cina è l’equilibrio migliore per affrontare la crisi, ma fame per i proletari come in Occidente.

È la composizione organica e tecnica del capitale che determina le strategie anti covid dei diversi governi e nazioni presi in una competizione mondiale di mercato sempre più agguerrita, dove la subordinazione dei Paesi ricchi di materie prime e di quelli produttori delle stesse fonti primarie minerarie e agricole è fattore vitale per gli USA e la decadente Europa che non hanno più l’esclusivo appannaggio della rapina imperialista delle risorse naturali della terra.

Benvenuta sia la Cina nella contesa generale da ambo i lati: dal lato delle forze del capitale, perchè il loro emergere è possibile solo in virtù dello scricchiolio e della crisi generale di un sistema di sfruttamento mondiale che si trova prigioniero delle sue stesse contraddizioni, ma soprattutto dal lato dell’immenso mare proletario composto da cinesi e milioni di immigrati di tutta l’Asia, di cui le scene di Shanghai potrebbero segnare una svolta verso un preludio di un futuro anche nel breve periodo di lotte improvvise, spontanee e generalizzate.

Se questi sono i prodromi del tempo che sta per precipitare velocemente, la durata della attesa sul bordo del fiume giallo nel veder scorrere il cadavere del concorrente capitalista occidentale si accorcia per le forze del capitalismo cinese. Necessariamente tanto più se le scene di Shanghai si ripeteranno altrove nel dormiente Paese e subcontinente cinese determinando il presupposto che i margini di compensazione della crisi del capitalismo anche lì si stanno esaurendo.

Benvenute siano queste scene nonostante non conosciamo chi si batte contro i lockdown, quali convinzioni abbiano, quali le determinazioni del rapporto del capitale spinge a rompere il coprifuoco anti pandemico: se per “ripristinare” il libero mercato interrotto cui ceti medi produttivi e lavoratori si sono determinati, o per sperimentare una lotta proletaria che necessariamente deve confrontarsi con la schiavitù del mercato e dello scambio di valore tra le merci prodotte, che non consente più come prima la riproduzione delle condizioni della vita proletaria e in generale.

Come le persone sfruttate lì si dislocheranno a breve, se per difendere la “casa comune” cinese contro cui l’occidente già ora rivolge le sue attenzioni armate, oppure la lasceranno bruciare, non è dato sapere.

Tantomeno non è dato sapere come si dislocherà il proletariato europeo, occidentale e statunitense (anch’esso multirazziale e meticcio che insieme a quello black, bipoc e immigrato si è manifestato nella George Floyd Rebellion), se intenderà difendere la casa comune “culla della civiltà” democratica liberale occidentale minacciata dagli orchi dell’Oriente, oppure anche esso la lascerà scricchiolare e poi franare perchè anche in questa sacra culla la condizione della vita è sempre meno resiliente alla legge del modo di produzione del valore capitalistico.

Dal coprifuoco anti pandemico a quello della legge marziale di guerra, la cui sostanza medesima è la difesa della determinazione della “casa comune” capitalistica sul mercato mondiale come dominatori a difesa della propria contrastata supremazia, o come ascari asserviti ad esso, oppure come resistenti reazionari all’interno di una legge del valore capitalistico da non oltrepassare.

Gli sfruttati dell’India, Bangladesh, Pakistan, Sud Africa e soprattutto di quelle nazioni Africane che sono altrettanto ricche di materie prime, in questa guerra in Ucraina e nella escalation che si prepara non vorrebbero entrarci. Come non lo vorrebbero i contadini nativi e poveri dell’America Latina ed il proletariato meticcio, attualmente tutti mal rappresentati dai loro governi agli ordini della legge del mercato, che all’ONU non si uniscono alla condanna della Russia, oppure lo fanno davvero malvolentieri.

Il minimo che possiamo fare, ma che è il massimo, è chiarire che non vi è pace per gli sfruttati proletari, i razzializzati e gli oppressi in generale nel riconoscere una strumentale causa e principio di “autodeterminazione delle nazionalità”, che non può che essere altro dall’uso strumentale dall’Occidente in cui viviamo per la Ucraina (e del Donbass incluso) sottomessa al dominio ed allo sfruttamento del mercato in agguerrita competizione, tantomeno quella per la sovranità di Taiwan, che insieme rappresentano la misura della difesa e della offensiva della “casa comune” del capitale occidentale che bisognerebbe qui contrastare.

Benvenuta Shanghai, che i venti della crisi possano spingere verso una determinazione di un nuovo mostro proletario meticcio e multirazziale contro le sirene dell’Orientalismo occidentale e di un impossibile mercato multipolare tutte a difesa della barbarie capitalista!

Il mito e il velo della democrazia sudafricana contro l’apartheid stanno crollando

Inserisco qui la traduzione “al volo” a me pervenuta dell’articolo The myth and the veil of South Africa anti apartheid democracy is cracking down, presente in iglese nel sito Noi non abbiamo patria. La data dell’articolo è 16 Luglio 2021 dc, io ho apportato ulteriori correzioni alla traduzione.

Il mito e il velo della democrazia sudafricana contro l’apartheid stanno crollando

Le proteste in Sudafrica sono iniziate quando l’ex presidente Jacob Zuma è stato condannato dalla Corte Suprema per corruzione e imprigionato in carcere il 29 giugno.

Zuma è stato il primo presidente Zulu del Sudafrica. Pochi giorni dopo, lunedì scorso, i sostenitori di Zuma hanno iniziato le proteste da Guateng e KwaZulu-Natal. Guateng e KwaZulu-Natal sono terre povere del ghetto di neri intorno alle città di Johannesburg e Durban.

Quella che inizialmente sembrava una protesta politica dei seguaci di Zuma, di una catena di persone, con interessi corporativi, della classe media emergente Zulu e dei proletari oppressi Zulu senza alcuna risorsa economica, presto e subito è diventata una rivolta di massa spontanea e ingovernabile dei sudafricani neri sfruttati e oppressi.

Un’insurrezione generale e massiccia si è diffusa nelle città di Durban e Johannesburg. Le forze di polizia sono state travolte dalla rivolta di massa e dai saccheggi dei poveri. Cyril Ramaphosa, l’attuale presidente del Sudafrica, che ha ottenuto la leadership del Paese dopo l’incriminazione di Zuma, ha ordinato il dispiegamento delle forze dell’esercito nelle città.

Ramaphosa è stato presidente dell’ANC (Nota mia: African National Congress-Congresso Nazionale Africano,  è il più importante partito politico sudafricano, fondato nell’epoca della lotta all’apartheid e rimasto ininterrottamente al governo del Paese dalla caduta di tale regime, avvenuta nel 1994, a oggi) fino al 2017. Era un leader sindacale ma negli ultimi dieci anni è diventato un uomo d’affari.

Zuma e Ramaphosa erano entrambi militanti dell’ANC contro l’apartheid. Ma rapidamente si sono allontanati dai reali bisogni dei proletari neri oppressi quando il regime dell’apartheid è finito.

Più di 80 persone sono state uccise durante disordini e saccheggi a colpi di arma da fuoco da parte della polizia e dell’esercito. Alcune milizie pagate sono coinvolte nella repressione nelle strade e agiscono come squadroni della morte nelle povere township (Nota mia: il significato di questo termine realtivo al suo uso in Sudafrica, tratto da Wikipedia il 19 Luglio 2021 dc, è “Nel Sudafrica dell’apartheid con township si designavano quelle aree urbane limitrofe ad aree metropolitane nelle quali abitavano esclusivamente cittadini non-bianchi (neri ed indiani). Un esempio molto famoso è il sobborgo nero di Johannesburg, Soweto, il cui nome stesso nasce dall’espressione “Township di sud-ovest” (SOuth WEst TOwnship). Oggi township ha assunto un significato più ampio come “parte di territorio” ed è usata anche, ad esempio, per definire i distretti industriali “industrial township“”) nere. I proprietari dei negozi sono armati.

La situazione è ancora ingovernabile. La gente ruba generi alimentari, articoli elettronici, TV e radio, scarpe, jeans e vestiti di ogni genere, materassi per i letti, acqua potabile. Agenzie bancarie e altre attività sono vandalizzate e bruciate dalla rabbia del proletariato.

La gente dice che gli altri stanno saccheggiando ed anche lui/lei lo fa, perché altrimenti non rimane nulla a disposizione. Quindi tutti quelli che non hanno nulla generano una reazione a catena generale.  

La protesta politica tra le diverse ali dell’ANC in conflitto tra loro è stata travolta da una lotta economica di massa di proletari che hanno poche cose o niente per garantire un minimo di sicurezza alle loro vite.

Gli anni della lotta contro l’apartheid sono lontani per il nuovo giovane proletariato e la lotta anti-apartheid è più lontana dalle loro necessità di risolvere la povertà, l’oppressione, mentre le condizioni di vita si degradano sempre più ogni anno e ogni giorno.

L’insurrezione di massa prende di mira anche le comunità indiane che vivono in Sudafrica. La cittadinanza indiana in Sud Africa è nata dal colonialismo inglese, che ha imposto l’immigrazione degli indiani all’inizio del XX secolo per lavorare alla costruzione della rete ferroviaria della Corona Britannica in Sud Africa. A causa della fine dell’apartheid, questa comunità indiana di cittadini sud africani, come altre di colore, ha avuto la possibilità per la propria classe media di emergere grazie alla media imprenditoria commerciale e produttiva. Non a caso, le accuse di corruzione a Zuma includono molti commerci non legali con imprenditori indiani, uomini d’affari che hanno investito in Sud Africa direttamente dall’India, e la mistificazione della propaganda sugli episodi di xenofobia durante le rivolte nasconde la vera verità dei disordini generali: le proprietà private vengono attaccate.

La profonda crisi generale capitalista si sta approfondendo in tutto il mondo e sta rimuovendo il velo di falsa emancipazione democratica e progressista delle masse nere oppresse razziali sfruttate, che rappresenterebbe la vittoria del sistema anti-apartheid, mostrando la vera natura di ciò che è lo sfruttamento di classe e dell’oppressione del capitalismo ancora in corso.

Come in Palestina l’ANP mostra il suo collaborazionismo con Israele e con l’oppressione capitalistica dell’imperialismo, altre leadership e altri Stati progressisti o rivoluzionari del passato stanno mostrando la loro essenza antiproletaria.

Il mito della democrazia anti-apartheid e dello Stato antirazzista in Sudafrica sta crollando, sotto il colpo della crisi generale del capitalismo.

La fine dell’apartheid in Sudafrica non significa la fine dello sfruttamento di classe e del razzismo. Ha dato solo la possibilità ad alcune classi medie di emergere, rafforzando l’oppressione di classe e razziale della maggioranza delle masse proletarie.

Riflessioni a briglia sciolta

In e-mail il 14 Luglio 2019 dc:

Riflessioni a briglia sciolta

di Lucio Garofalo

Riconosco di essere una persona caratterialmente scettica e diffidente, persino malpensante. Ideologicamente sono un ateo marxista. Sono stato ripetutamente  disilluso dalla vita, amareggiato da esperienze negative, tradito dal comportamento spregiudicato di numerosi pseudo compagni e dai falsi partiti politici di “sinistra”.

Francamente sono molto arrabbiato contro i falsi moralisti e i falsi compagni, i parolai e i “pifferai magici” della sinistra borghese, affetta dal morbo del “cretinismo parlamentare”. L’esperienza storica ha dimostrato che costoro aspirano solo ad adagiare il proprio deretano sopra un comodo ed ambito scranno all’interno delle istituzioni borghesi per ricavarne potere, gloria, ricchezza, privilegi e immunità personali, fregandosene delle sofferenze e dei bisogni della gente, delle istanze dei loro elettori.

La mia posizione di critica netta e intransigente mi ha procurato problemi di solitudine politica, condannandomi ad una sorta di ostracismo e di esilio morale, di isolamento nel territorio dove abito. Ma tant’è. Credo di essere sufficientemente forte e vaccinato verso tale situazione, abbastanza immune rispetto alla violenza morale ed esistenziale esercitata dai conformismi di massa, compresi quelli imposti dalla “sinistra”, essendo abituato al ruolo, senza dubbio scomodo, di bastian contrario, di ribelle anticonformista e di “cane sciolto”, per cui la condizione di marginalità non mi turba affatto.

Ultimamente ho cercato di uscire dall’isolamento politico provando ad infrangere il clima di chiusura ed ostilità creato nei miei confronti dai vari “forchettoni”, “rossi”, “bianchi” o “neri” che siano. I quali dettano legge soprattutto in alcune realtà di provincia come l’Irpinia. Una terra costretta ad un livello di sudditanza semifeudale, le cui popolazioni sono soggette a ricatti e condizionamenti perpetui e ad un mostruoso giogo clientelare. Non dobbiamo dimenticare che il territorio dove abito rappresenta da lustri un feudo incontrastato di Ciriaco De Mita e dei suoi galoppini. L’Irpinia è da sempre una roccaforte elettorale e clientelare della peggiore Democrazia cristiana.

Tuttavia, non mi lascio mai sopraffare dallo sconforto o, peggio, dalla depressione, né da rancori e risentimenti, ma reagisco sempre con rabbia e indignazione, riscoprendo “prodigiosamente” una spinta motivazionale che mi restituisce un fervido entusiasmo e una volontà combattiva, un desiderio tenace ed impetuoso di lotta e di riscatto. Forse perché sono uno spirito libero e ribelle, consapevole della lezione della storia. La quale insegna che è addirittura possibile, quindi concepibile, la realizzazione dell’utopia.

Si pensi che fino al XVIII secolo, ovvero il “secolo dei lumi”, la schiavitù del lavoro, la servitù della gleba e la tirannia aristocratico-feudale erano viste quali elementi ineluttabili e immodificabili, al limite come fenomeni conseguenti a leggi naturali, come una realtà che era sempre esistita e sarebbe durata in eterno, e non come dati storici transeunti, soggetti a trasformazioni rivoluzionarie determinate dalle forze produttive e sociali in movimento e in lotta sia per necessità oggettive che per volontà soggettive.

Eppure, alla fine del 1700 la rivoluzione francese e il radicalismo giacobino, mobilitando le masse popolari e contadine, spazzarono via il feudalesimo e l’assolutismo monarchico con tutti i suoi assurdi privilegi aristocratici, il servaggio, l’oscurantismo religioso e tutte le anticaglie medioevali. Parimenti, fino ad Abramo Lincoln nessuno avrebbe mai immaginato che la schiavitù, ritenuta per secoli come una situazione naturale e ineluttabile, una condizione ineliminabile e permanente dell’umanità, potesse un giorno essere abolita, almeno giuridicamente, sebbene non ancora soppressa sul piano materiale. E lo stesso si potrebbe dire per un fenomeno quale il cannibalismo, un’abitudine alimentare millenaria dei popoli primitivi, che oggi farebbe inorridire chiunque. E così per altre pratiche consuetudinarie, usanze e costumi del genere umano.

Pertanto, perché ritenere già persa in partenza la lotta politica a tutela dei lavoratori, in difesa dei salari più bassi e più deboli, una battaglia che si attesta oltretutto su posizioni difensiviste di salvaguardia e di retroguardia? Nel senso che non si aspira a fare la rivoluzione, a prendere il potere conquistando il “Palazzo d’Inverno”, ma si tratta di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica promuovendo una presa di coscienza sulle tematiche che investono direttamente la vita quotidiana e la condizione dei lavoratori.

Non vorrei allontanarmi dal tema in questione. Ricordo che una delle radici ideologiche dell’opportunismo risiede precisamente nell’elettoralismo borghese. Personalmente sostengo con estrema durezza la critica contro l’opportunismo in quanto costituisce il male storico del movimento comunista internazionale. Non c’è bisogno di scomodare Lenin o Rosa Luxemburg per dimostrare la validità di tale tesi, basta guardarsi attorno.

L’interesse e il calcolo opportunistico, l’autoritarismo e il verticismo burocratico, l’arrivismo, l’ambizione e il carrierismo individuale, le invidie e i personalismi eccessivi, questi ed altri atteggiamenti piccolo-borghesi, purtroppo assai diffusi in determinati settori della cosiddetta “sinistra radicale” (e non solo negli ambienti della sinistra borghese e riformista), costituiscono un male ben peggiore dell’isolamento personale.

La principale preoccupazione per un’autentica forza antagonista e di classe, di ispirazione comunista e anticapitalista, non può essere la “questione elettorale”. Non credo che la priorità politica di una soggettività comunista, specie in un momento di crisi epocale del sistema sociale vigente, una crisi segnata da crescenti disordini e conflitti (si pensi al caso emblematico della Grecia) che minano le basi stesse dell’assetto capitalistico globale, possa essere il tema della rappresentanza elettorale.

L’esperienza storica dovrebbe insegnarci che il pericolo per un’autentica sinistra comunista e di classe è costituito da ciò che si chiamava polemicamente la “febbre elettoralistica”, cioè la frenetica ricerca del successo elettorale, la conquista a tutti i costi del potere o di una quota di rappresentanza nell’attuale ordinamento statale borghese. E’ esattamente questa impostazione burocratica ed elettoralistica che rischia di aprire la strada all’affermazione di tendenze opportunistiche e individualistiche piccolo-borghesi, all’emergere di atteggiamenti di corruzione e di sfrenate ambizioni di carriera. Come, d’altronde, dovrebbe insegnarci l’esperienza storica del PRC.

In passato la base elettorale del PRC e delle altre formazioni della “sinistra radicale” era costituita da un mini-blocco sociale composto in gran parte da operai e giovani lavoratori precari, eco-pacifisti, attivisti no-global, ecc. I quali hanno giustamente reso pan per focaccia, sfruttando l’unica arma a propria disposizione, vale a dire l’arma del voto, per espellerli dalle istituzioni parlamentari a cui si erano tanto affezionati, infliggendo loro la punizione che meritavano e che gli ha arrecato dolore e frustrazione, procurandogli una logorante astinenza dall’esercizio del potere: “il potere logora chi non ce l’ha”, come afferma un vecchio ed astuto volpone democristiano che ha maturato una lunga esperienza ai massimi vertici del potere politico in Italia. Fare clic per cancellare la replica.

Pertanto, bisogna prendere atto della verità storica a 360 gradi. Negli ultimi anni il PRC era diventato un vero e proprio “covo” di opportunisti e forchettoni, burocrati e funzionari di partito ambiziosi ed arrivisti. Dunque, solo dopo aver fatto chiarezza fino in fondo e dopo aver svolto un’igienica e necessaria opera di autocritica, solo a quel punto ritengo che si possa avviare in maniera legittima e credibile un processo di ricomposizione di un’autentica e moderna sinistra anticapitalista e di classe in Italia.

Per quanto concerne la questione dell’isolamento, a me pare che questo costituisca un problema della politica in generale. Tutti i partiti politici soffrono il distacco e la disaffezione della gente, ma in fondo è sempre stato così, almeno in Italia. Il popolo italiano è storicamente un popolo ignorante e qualunquista, privo di senso civico e di moralità pubblica. Lo stesso Pier Paolo Pasolini scriveva nel lontano 1973: “La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”. Più chiaro di così.

In fondo, anche Guicciardini lo aveva compreso diversi secoli fa: il popolo italiano bada solo al proprio “particulare”, persegue solo i propri affari personali senza capire che i propri interessi possono coincidere e identificarsi con quelli altrui. Ma anche ai più grandi marxisti rivoluzionari è capitato talvolta di essere isolati. Rosa Luxemburg, ad esempio, è sempre stata un’esponente isolata e minoritaria all’interno del movimento operaio e socialdemocratico internazionale, e lo stesso Lenin, prima di prendere il potere in Russia, ha sofferto una condizione di marginalità e di solitudine politica.

Il bilancio di Tsipras

In e-mail l’11 Luglio 2019 dc:

Il bilancio di Tsipras

In Grecia le elezioni politiche, come già le precedenti europee, confermano la legge fisica della lotta di classe. Come disse l’avvocato Agnelli: occorrono a volte governi di sinistra per fare le politiche di destra. Salvo aggiungere che per questa stessa ragione è la destra che poi ritorna in sella.

Il partito Nuova Democrazia, la tradizionale destra greca, era un partito con le ossa rotte prima dell’esperienza Tsipras, travolto assieme al PASOK dal crollo di credibilità dei vecchi partiti di governo.

Il crollo dell’economia greca, il lungo calvario dei memorandum e l’esperienza della crudele austerità dettata dalla troika avevano sospinto dopo il 2008 una potente radicalizzazione del movimento operaio e popolare nel segno del rigetto delle politiche dominanti. L’ascesa elettorale di Syriza dal 4% del 2009 al 36% del 2015 fu semplicemente la registrazione distorta di questa ribellione di massa.

Il trionfo dell’oxi contro la troika, con il ripudio del suo ricatto, ne rappresentò il naturale prolungamento. Se la destra oggi è tornata al governo della Grecia è perché quella enorme domanda di svolta è stata clamorosamente tradita. Un tradimento che ha trascinato con sé il riflusso della mobilitazione e della coscienza, a tutto vantaggio della reazione.

I sostenitori italiani di Tsipras, più o meno critici, per ultimo Salvatore Prinzi (Potere al Popolo), dicono che sì, forse Tsipras “ha sbagliato”, ma dopotutto non aveva alternative.

Se avesse rotto con la UE «avrebbe fatto la fine di un Allende o peggio di un Masaniello», del resto il popolo non era così radicale come sembrava, ecc. ecc. Non potendo riverire Tsipras nel momento della sua disfatta (come fecero invece nel momento della sua ascesa, seminando illusioni a piene mani), gli intellettuali riformisti assolvono retrospettivamente la sua politica come obbligata, scaricando sulle masse la responsabilità dell’accaduto. In altri termini, il popolo ha in definitiva il governo che si merita; dedichiamoci quindi al piccolo cabotaggio del mutualismo («C’è da togliere illusioni, proponendo allo stesso tempo cose concrete, fattibili»), senza troppi grilli per la testa.

La verità è ben diversa.

Dopo sei anni di straordinaria mobilitazione di massa, che aveva distrutto il vecchio sistema politico greco e portato Syriza al governo, l’alternativa c’era. Ma poteva porsi solo sul terreno di una rottura anticapitalista: solo sul terreno di misure che rompessero le compatibilità di sistema (cancellazione del debito pubblico, nazionalizzazione delle banche, esproprio degli armatori); solo sul terreno della costruzione di strutture di autorganizzazione di massa che supportassero queste misure e concentrassero nelle proprie mani il potere.

Le classi dominanti greche ed europee avrebbero reagito?

Naturalmente. O qualcuno pensa che “il potere del popolo” possa realizzarsi senza resistenze dei capitalisti? Ma la linea di scontro sarebbe stata chiara non solo in Grecia ma su scala continentale. La rottura della Grecia col capitale finanziario che l’affamava avrebbe potuto diventare un fattore di mobilitazione internazionale del movimento operaio, di sviluppo della sua coscienza e di possibile contagio, anche a beneficio dei rapporti di forza nella Grecia stessa. Vittoria assicurata? Solo gli imbecilli possono pensarlo. Ma certo quella era l’unica via possibile per vincere.

Tsipras ha perseguito la via esattamente opposta: la via sicura per condannare alla sconfitta la domanda di svolta che aveva raccolto.

La leggenda per cui Tsipras avrebbe voluto il cambiamento ma i rapporti di forza l’hanno impedito è una falsificazione dei fatti. Syriza rappresentava nella sua nascita ed evoluzione un classico soggetto riformista. Ben prima del 2015 Tsipras s’era attivato su scala internazionale alla ricerca di una legittimazione presso gli ambienti dominanti, negli USA e in Europa. Il governo di Syriza con ANEL (un partito reazionario di destra) fu sin dall’inizio, nella sua stessa composizione, un segnale di collaborazione con gli imperialismi europei e con le classi dominanti greche, a partire dagli armatori.

Da subito Tsipras ha accettato il piano inclinato del negoziato coi creditori della troika, gli affamatori dei lavoratori greci a cui questi si erano ribellati. La capitolazione clamorosa del luglio 2015 fu dunque il destino annunciato di una intera politica. I quattro anni successivi hanno solamente misurato l’enormità del suo prezzo, in termini economici e politici.

Per quattro anni il governo Tsipras ha pagato le cambiali al capitale finanziario mettendole sul conto della popolazione povera di Grecia, proprio come i governi precedenti. “Abbiamo restituito una Grecia coi conti in ordine”, “abbiamo riportato la Grecia in Borsa”, dichiara oggi Tsipras in occasione del passaggio di consegne.

Ha ragione.

Pensioni tagliate, salari falcidiati, aumento delle imposte indirette, privatizzazioni su larga scala (porti, areoporti, servizi idrici inclusi): i conti sono stati risanati nell’unico modo che il capitalismo conosce. I titoli pubblici greci sono tornati appetibili per i creditori grazie all’umiliazione del debitore.

Insomma, un vero banchetto per i capitalisti a spese dei lavoratori e dei disoccupati.

E non si tratta di misure una tantum. Tsipras ha assicurato al capitale finanziario la continuità di avanzi primari del 3,5% per gli anni a venire come pegno della propria credibilità, ciò significa la continuità strutturale dei tagli alla spesa sociale per rassicurare le banche. Del resto le pubbliche lodi dei governi europei al ritrovato “realismo” di Tsipras si sono sprecati in questi anni. E non solo per ragioni economiche. Il governo Tsipras è stato per molti aspetti la soluzione politica migliore per gli imperialismi dell’Unione Europea. Infatti solo un governo come quello di Syriza poteva imporre alla classe lavoratrice la continuità dei memorandum in modo relativamente pacifico, contenendo e disperdendo le resistenze sociali. Laddove aveva fallito la vecchia socialdemocrazia del PASOK è invece riuscita la nuova socialdemocrazia di Syriza.

Questo è il vero e unico successo di Tsipras.

Torneremo sulla vicenda greca per approfondirla. Ma certo l’esperienza del governo Tsipras è la documentazione viva del fallimento del riformismo come strumento di emancipazione, sullo sfondo della grande crisi del capitalismo. Razionalizzare questo fallimento è la prima necessaria condizione per costruire una prospettiva alternativa: classista, anticapitalista, rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

Gli italiani sono ricchi?

In e-mail il 20 Maggio 2019 dc:

Gli italiani sono ricchi?

Certooo! Affaristi, faccendieri e, soprattutto, evasori fiscali.

Riflettendo sul Rapporto Bankitalia-Istat

«L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. […] Si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro».

Salvatore Morelli, Rapporto sulla diseguaglianza economica in Italia, a cura di Oxfam, 2017 (https://www.lenius.it/disuguaglianza-nel-mondo/).

Il 10 maggio, i media (chi più chi meno) hanno suonato la grancassa sulla ricchezza degli italiani. A onor del vero, la notizia era un po’ stantia, risale al novembre scorso. È uno studio di Bankitalia, basato su dati Istat (vedi: https://www.repubblica.it/economia /2018/11/07/news/bankitalia_la_ricchezza_degli_italiani_vale_10_mila_miliardi_cresce_la_finanza-2110371 57/).

Probabilmente, la riesumazione di questa notizia è nata dall’esigenza di buttar acqua sul fuoco attizzato dalle polemiche elettorali, i cui riflessi sullo spread potrebbero ricadere non solo sul governo ma sul sistema-Italia, nel suo complesso. Non per nulla, la questione è stata subito messa in sordina. Per la cronaca, l’articolo più approfondito è: Davide Colombo, Il tesoretto delle famiglie italiane: una ricchezza di 9.743 miliardi, «Il Sole24 Ore», 10 maggio 2019.

Qualche ragionamento, invece, getterebbe un po’ di luce sul comportamento politico degli «italiani» (calderone in cui si confondono borghesi&proletari). Con scelte politiche anomale, rispetto a quelle di altri Paesi dell’Unione europea, dove, sebbene un po’ ammaccati, resistono gli storici partiti: centro democristiano e sinistra socialista che, in Italia, sopravvivono in quel pateracchio politico che è il Partito democratico, un connubio di ex democristi (Renzi) ed ex piccisti (Zingaretti), con qualche outsider (Gentiloni). Mentre emergono forze politiche, dette populiste e sovraniste, che, in altri Paesi (con poche eccezioni, come l’Ungheria), hanno un peso assai più ridotto.

Un ceto medio pletorico: anomalia Made in Italy

Certamente, alle radici dell’anomalia italiana ci sono i mutamenti economici e sociali che, in questo ventennio, hanno investito il Bel Paese, e che la crisi (2008) ha poi accentuato, riplasmando i vecchi assetti politici. Ma fino a un certo punto la composizione sociale italiana è mutata. Essa mantiene la sua peculiare caratteristica: un ceto medio pletorico, impegnato in attività autonome.

Allevato nella bambagia della Prima repubblica democristian-piccista, con l’ausilio di qualche sinistro/sinistro (piccolo è bello!), il cetomedioautonomo ha trovato una felice sponda nella Seconda repubblica berlusconiana (con metastasi leghista) che ne sposò l’evoluzione immobilar-finanziaria (speculativa).

Ed è questo ceto che connota politicamente l’andazzo italiano. Un forte ceto medio potrebbe essere indice di stabilità sociale se anche le altre classi (quelle fondamentali) – proletariato (lavoratori dipendenti e pensionati) e borghesia (industriali, banchieri, manager…) –, vivessero una situazione tendenzialmente equilibrata, in cui si riducessero le diseguaglianze, in termini di distribuzione della «ricchezza». Così non è. E da tempo.

L’indice di Gini, che misura la sperequazione, a livello europeo colloca l’Italia alla ventesima posizione su 28 (con un coefficiente pari a 0,331 (vedi dettagli in: https://www.lenius.it/disuguaglianza-nel-mondo/).

In poche parole, in Italia c’è una forte sperequazione sociale: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In soldoni, il 40% più ricco della popolazione italiana detiene l’85% della ricchezza e il restante 60% più povero deve arrangiarsi col 15%. I 14 miliardari più ricchi d’Italia posseggono quanto il 30% più povero della popolazione.

Con la crisi, il fenomeno si è generalizzato e accentuato. E, in Italia, assume particolari implicazioni sociali e politiche.

Lo scarica barile

La costante polarizzazione della ricchezza in poche mani si ripercuote su tutti gli strati sociali: con in alto la borghesia e in basso il proletariato. Chi sta in mezzo, ovvero il cetomedioautonomo, per scansarne le conseguenze, si rivale su chi sta in basso, ovvero sul proletariato, provocando, non sempre inconsciamente, l’aumento dell’estorsione di plusvalore e la riduzione dei servizi sociali.

In questa rivalsa, il cetomedioautonomo è favorito dalla sua consistenza, grazie alla quale gioca un pesante ruolo politico, con la parola d’ordine: meno tasse. Ovvero, niente tasse, visto che già ne pagan pochine … Pochine ma fastidiose. Per loro.

Entriamo nel merito del problema e cerchiamo di capire come si collocano i vari strati sociali nella ripartizione della ricchezza. Leggiamo che cosa afferma il Rapporto sulla ricchezza di Bankitalia-Istat.

1)   La finanza, contribuisce per il 41% (pari a 4.374 miliardi) alla ricchezza dei soliti «italiani».

Risparmiatori e speculatori

L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e risparmiatori. O meglio piccoli risparmiatori (circa il 60% degli italiani). Nonostante la crisi, anzi proprio per la crisi, molti proletari (per lo più pensionati del bel tempo che fu) scelgono di tirar la cinghia e risparmiare, per far fronte a un futuro incerto e precario: figli precari, salute precaria … E questo risparmio forzoso avviene a dispetto della crescente pressione dei promotori finanziari, a caccia di quattrini, da gettare nella fornace speculativa. Nonostante le recenti vicende del Monte dei Paschi di Siena, della Popolare di Vicenza ecc. ecc. consigliano: prudenza!

Comunque sia, in questi ultimi anni, la possibilità di incrementare i risparmi riguarda solo un terzo delle famiglie «italiane». Di trippa per gatti non ce n’è molta.

Ma ai capitalisti, questi risparmi fanno gola, per loro sono quattrini immobilizzati, che prendono polvere, sfuggendo investimenti, perlopiù speculativi (vedi: Samuele Maccolini, I risparmi degli italiani? Sintomo di paura nel futuro, Rapporto Censis/Conad, https: //www.linkiesta.it/it/article/2018/12/28/risparmio-italiani-conad-censis/40550/).

Capovolgendo la frittata, possiamo dire che questi risparmi, benché forzosi, creano una netta divisione di classe, tra rentier borghesi e piccoli risparmiatori proletari.

I risparmi che si mutano in investimento finanziario riguardano quasi esclusivamente, se non in toto, la borghesia e il ceto medio.

Passiamo all’aspetto cruciale, la casa, entriamo in un terreno ancor più minato! Che però è al centro delle implicazioni politiche.

2)   Le abitazioni, con un valore di 5.246 miliardi di euro, rappresentano quasi la metà della ricchezza complessiva (il 49%). Se poi aggiungiamo terreni e attività cosiddette reali si toccano i 6.295 miliardi, pari al 59%.

Casa dolce casa… Ma quanto ci costi!

Croce e delizia degli italiani! La casa molti italiani furono costretti ad acquistarla quando, con la definitiva soppressione del blocco del canone di locazione (1978), le case in affitto sparirono e, al tempo stesso, l’edilizia pubblica declinava. Una vera pacchia per vecchi e nuovi proprietari di immobili. A evitare eccessive tensioni sociali, provvidero gli ultimi riflessi del boom economico e del Welfare State.

– Sulla casa vedi: Il problema della casa in Italia: politiche, problemi, lotte, in https://centrostudiudine.word press.com/2016/11/26/il-problema-della-casa-in-italia-politiche-problemi-lotte/.

E così, oggi, il 73% degli italiani possiede una casa, alcuni due o più. Fenomeno, quest’ultimo, unico in Europa. Per quale motivo? Almeno dagli anni Settanta molti emigrati dal Sud al Nord Italia o lavoratori confluiti dalla campagna alla città possedevano o avevano acquistato (a volte costruito) una casa nelle località d’origine. Nessun lusso! Anzi, la casa sarebbe diventata una croce prima per far fronte ai mutui, poi per le tasse e per le necessità di manutenzione, infine per adempiere alle normative in materia di sicurezza.

Per inciso, a cavallo degli anni Settanta/Ottanta, l’onere per l’acquisto della casa (il mutuo ma non solo) contribuì a smorzare le lotte operaie, allora in corso, contro le ristrutturazioni industriali.

La casa sembra una ricchezza, in realtà è una pesante palla di piombo al piede, per moltissimi italiani, in primis per i proletari (Vedi: Roberta Cucca, Luca Gaeta, Ritornare all’affitto: evidenze analitiche e politiche pubbliche (2015), abstract disponibile in http: //www.for-rent.polimi.it/wp-content/uploads/2016/01/ Cucca_Gaeta_paper2015.pdf).

Questa è una situazione che spinge molti proletari ad allearsi coi borghesi, in un fronte comune anti tasse. Da cui il successo elettorale della Lega, per esempio.

Ma, in questo fronte, i proletari che la loro abitazione la abitano si trovano in compagnia di borghesi, piccoli e grandi, che con le loro abitazioni fanno affari, affittandole o vendendole al miglior offerente, speculando ed evadendo il fisco. E, con la fregola turistica che pervade oggi l’Italia, questo è un bel business (Airbnb ecc. ecc.) che coinvolge del tutto marginalmente i proletari.

Chi evade il fisco e chi ne paga il conto

Nel fronte anti tasse, i proletari sono la massa di manovra di una battaglia destinata a esiti catastrofici per tutti gli strati sociali coinvolti, che verranno travolti dallo scoppio della prossima bolla immobiliare. A tutto vantaggio del Capitale, senza aggettivi e senza nazione.

Ma fino a quando?

Già oggi il fronte anti tasse mostra tutta la sua precarietà, e non certo a vantaggio di chi ha sostenuto e sostiene tasse, sacrifici e lacrime (PD & Co.).

I proletari che ancora sbarcano il lunario, grazie alla casa e grazie ai risparmi, vivono in un’isola felice, circondata, però, dal mare sempre più tempestoso dei senza risorse, dei senza tetto, dei senza salute, dei senza risparmi, dei senza lavoro…

Prima di farsi trascinare nella lotta di tutti contro tutti, è bene darsi una mossa, rifiutando alleanze contro natura e deleghe canagliesche.

Dino Erba, Milano, 20 maggio 2019.