Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

11 Marzo 2023 dc, da Hic Rhodus, articolo del 12 Dicembre 2022 dc:

Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

di Ottonieri

In questi giorni, gli appassionati di tecnologia (e non solo loro) sono eccitatissimi a causa di ChatGPT. Basta cercare un po’ per trovare decine di articoli online, e anche i maggiori media generalisti come il New York Times gli hanno dedicato numerosi articoli.

Di cosa si tratta? ChatGPT è un chatbot, ossia un sistema di intelligenza artificiale che utilizza il linguaggio naturale per comunicare con i suoi utenti, ed è in grado di sostenere conversazioni sensate in molte lingue, incluso l’italiano.

A differenza dei normali chatbot che ormai incontriamo sui portali di quasi tutte le aziende, ChatGPT ha sia un’eccellente competenza linguistica sia un “addestramento” basato su un’enorme quantità di dati, che per essere elaborati hanno richiesto grandi risorse di calcolo.

Non è un caso che i più sofisticati sistemi di intelligenza artificiale orientati all’uso del normale linguaggio umano siano realizzati dalle stesse grandi aziende multinazionali che forniscono servizi elaborativi su scala mondiale, come Google, Microsoft, Meta/Facebook, eccetera. OpenAI, la società che ha realizzato ChatGPT, a suo tempo era stata fondata da diversi investitori, tra cui Elon Musk, come una no-profit, ma nel corso del tempo ha intrapreso anche attività commerciali (Musk ne ha abbandonato il consiglio d’amministrazione alcuni anni fa, mentre tra i maggiori finanziatori oggi c’è Microsoft).

ChatGPT è insomma semplicemente l’ultimo e forse più perfezionato esempio di sistemi di intelligenza artificiale dotati di capacità “generaliste” e di una cultura enciclopedica anche se, come OpenAI tiene a precisare, non infallibile e non aggiornata agli ultimi mesi.

Per il momento, usarlo richiede solo una registrazione gratuita, e chiunque può fare una chiacchierata con “lui” visitando il sito https://chat.openai.com/. Io l’ho fatto, ed è certamente interessante, ma l’hanno fatto anche centinaia di migliaia di altre persone, che hanno chiesto a ChatGPT le cose più disparate, come si può leggere in decine di articoli e post che riportano quelle conversazioni, tanto che ChatGPT è diventato uno degli argomenti più discussi su Internet negli ultimi giorni.

Il tono ricorrente di questi commenti è la sorpresa. ChatGPT è in grado non solo di rispondere a domande complesse o di intrattenere conversazioni sugli argomenti più vari, ma può produrre “contenuti” apparentemente originali e molto diversi tra loro, come compiti e tesine per la scuola, software, brani musicali, e poesie, come il brano che segue e che gli ho chiesto personalmente di dedicare alla luna:

Luna, splendida e pallida,

che in cielo brilla di luce propria,

attraverso le nuvole e le tempeste,

sei sempre lì, a brillare serena.

Luna, sorgi al tramonto,

e con il tuo chiarore illumi la notte,

mentre la terra riposa.

Certo, non è un granché, e contiene anche un errore (l’italiano non è sicuramente la lingua che ChatGPT “conosce” meglio), ma non è il caso di essere troppo esigenti!

Oltre alla sorpresa, molti articoli su ChatGPT manifestano preoccupazione. Sembra che improvvisamente a tanti osservatori presumibilmente competenti sia venuto in mente che i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT, ossia “generalisti”, possano nel prossimo futuro sostituire o rendere inutile il lavoro di moltissime persone, in attività intellettuali, soprattutto quelle che comportano la raccolta e l’organizzazione di informazioni. Insegnanti, giornalisti, avvocati, copywriter… improvvisamente, sembra che sia accaduto chissà cosa.

La verità, purtroppo, è che ChatGPT è informatissimo, ma la maggioranza delle persone, anche quelle che dovrebbero essere informate per dovere professionale, no. Sorprendersi delle capacità di un chatbot, sia pure sofisticatissimo, e trarne previsioni più o meno pertinenti è segno che finora di quanto sta accadendo non si è capito nulla, e quindi non si ha nemmeno idea di quello che, inevitabilmente, accadrà.

Non a caso, su Hic Rhodus sia Claudio Bezzi che io, partendo dai rispettivi punti di vista e competenze, scriviamo da anni che l’impatto sociale dei sistemi di General Artificial Intelligence sarà enorme, e che è assolutamente indispensabile prenderne atto e avviare immediatamente iniziative politiche difficili e complesse, cosa che in realtà non sta affatto accadendo.

ChatGPT, per interessante che sia, non rappresenta che una tappa prevedibilissima di questo percorso rivoluzionario, e la sua esistenza non modifica in nulla le previsioni che è ragionevole fare, se non agli occhi di chi previsioni non ne sa fare. D’altronde, si può dire che chi oggi si sorprende e si allarma almeno dimostra di seguire la realtà, e infatti possiamo osservare che la nostra politica appare completamente ignara di questi temi.

Quindi, a beneficio dei molti che evidentemente non hanno seguito l’avanzata delle tecnologie di Intelligenza Artificiale, e neanche, molto più modestamente, quanto qui ne abbiamo scritto negli ultimi anni, ricapitoliamo quello che certamente accadrà, quello che probabilmente accadrà, e quello che dovrebbe assolutamente accadere ma probabilmente non accadrà.

Certamente, i sistemi di Intelligenza Artificiale diventeranno sempre più sofisticati e sempre più in grado di svolgere, come e presto molto meglio degli esseri umani, tutte le principali attività lavorative che comportino in qualsiasi forma l’acquisizione, l’interpretazione, l’elaborazione e l’impiego di dati e informazioni.

Certamente, si realizzeranno sempre nuovi sistemi di questo genere, e tra qualche mese ne sarà presentato qualcuno più potente e versatile di ChatGPT, ammesso che non esista già. Altrettanto certamente i più potenti e sofisticati di questi sistemi non saranno posseduti né dai singoli cittadini, né dalle aziende, neanche le più grandi, ma saranno centralizzati e offerti sotto forma di servizi “a consumo” da pochissimi colossi dell’economia digitale, il cui potere economico e politico crescerà ulteriormente.

Probabilmente, l’effetto netto di tutto ciò sull’occupazione sarà una pesante perdita di posti di lavoro, e un’ancora più pesante obsolescenza delle competenze di chi lavora oggi. Il mantra degli economisti che dicono che la perdita di posti tradizionali sarà compensata dalla creazione di “nuovi lavori” è probabilmente privo di fondamento, perché a essere sostituiti saranno anche coloro che oggi sviluppano o gestiscono sistemi informatici, che in prospettiva saranno tutti centralizzati e offerti sul cloud. E spariranno moltissimi posti di lavoro che consideriamo “intellettuali”, come abbiamo visto, e che non saranno compensati da nulla.

La conseguenza inevitabile, e quindi altrettanto probabile, sarà lo svuotamento del sistema fiscale e di welfare che oggi è basato pressoché integralmente sul lavoro. Le casse degli enti previdenziali non riceveranno contributi dai robot, e il gettito delle tasse sul reddito delle persone fisiche crollerà, perché ci ritroveremo in un mondo di “PIL senza lavoro”. L’intero apparato statale diventerà insostenibile, a meno che…

Improbabilmente, i politici, la classe dirigente, l’opinione pubblica del nostro e degli altri Paesi occidentali capiscano dove stiamo andando a parare e decidano un intervento coerente, coordinato e lungimirante per ridisegnare completamente il sistema fiscale e contributivo, affrontando ovviamente l’ostilità dei grandi service provider online, che, come Twitter, Meta/Facebook, Google e persino Amazon, non a caso si stanno liberando di personale “in eccesso” (altro che “nuovi posti di lavoro nella tecnologia”).

Lo scenario probabile che descrivevo prima, di alcuni colossi digitali che forniscono alle aziende di tutto il mondo servizi sostitutivi della manodopera umana, richiede una risposta improbabile, ossia leggi che sostituiscano l’attuale gettito fiscale e contributivo basato sul lavoro umano con altre fonti, ad esempio eliminando le tasse sul reddito e i contributi previdenziali e sostituendoli con una megatassa sulla produzione di valore aggiunto (ma io non sono un tecnico, e non vorrei dover essere io a pensare l’improbabile soluzione di cui sto parlando), finanziando anche una forma di reddito universale di cittadinanza per chi non lavorerà, e saranno molti.

Tutto questo è chiaro da anni, ma non abbiamo anni perché chi ci governa se ne renda conto e decida di occuparsene. Se su Hic Rhodus, che non è un think tank e che non è composto di addetti ai lavori, scriviamo da anni articoli con titoli come I robot ci manderanno tuttì in pensione? , di quasi sei anni fa, vuol dire che il problema è evidente.

Proprio per questo è sconfortante assistere, da un lato, alla “sorpresa” di giornalisti e osservatori professionali, e, dall’altro, alla totale cecità dei nostri politici, che anzi, negli stessi giorni, stanno lavorando su una manovra finanziaria e progettando provvedimenti che dimostrano una completa incomprensione della realtà. Quando leggiamo che il governo vuole togliere il reddito di cittadinanza a “chi può lavorare”, è chiaro che non stanno capendo proprio nulla. Possibile che nessuno tra questi giornalisti, esperti, politici, si informi su quello che succede? Evidentemente sì.

In conclusione, per quanto interessante e promettente, ChatGPT non è “sorprendente”, sarà presto superato da altri sistemi analoghi, che nell’arco di pochi anni saranno in grado, per esempio, di scrivere i contenuti di qualsiasi rivista online non solo come Hic Rhodus ma anche come quelle “professionali”, creare illustrazioni digitali migliori di quelle di artisti umani, ricercare precedenti legali, e mille altre attività intellettuali e anche “creative”.

Noi esseri umani possiamo far finta di niente e occuparci di “quota 103”, oppure cercare di progettare un mondo in cui il nostro benessere non dipenda più dalla possibilità di svolgere un lavoro, per la buona ragione che la maggioranza delle persone un lavoro non l’avrà. Sarebbe bello che i nostri governanti si preoccupassero di ragionare su questo, che creassero gruppi di studio, che a Roma e a Bruxelles mettessero la disoccupazione tecnologica al centro delle strategie sul welfare. O almeno, sarebbe bello che leggessero Hic Rhodus, sarebbe già un passo avanti! O, forse, dobbiamo sperare che ci leggano i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT?

Nell’inferno del saccheggio africano

In e-mail il 27 Febbraio 2021 dc (questa volta non mi sono limitato a correggere alcuni errori, ma ho sostituito Santa Sede con Vaticano!):

Nell’inferno del saccheggio africano

di Marco Castaldo

L’uccisione nella Repubblica Democratica del Congo dell’ambasciatore italiano e del carabiniere che gli faceva da scorta offre l’occasione per riflettere su quello che è un vero e proprio inferno causato dalle potenze coloniali in quel continente in una fase di crisi, come quella attuale, del moto-modo di produzione capitalistico, aggravata per di più dalla pandemia del Covid-19.

Ovviamente si sprecano da una parte le parole di riprovazione e di orrore nei confronti dei responsabili del fatto di sangue, mentre dalla parte opposta si sprecano gli elogi per le qualità delle due vittime cadute nell’imboscata in quel paese. E il popolo “beve”.

Passano pochi giorni e tutto si dimentica, tutto riprende come prima. Eppure tutti quelli che devono sapere sanno, ma tutti fingono di non sapere. Tutti conoscono la verità, ovvero gli interessi da cui sono mosse determinate strutture statali e/o umanitarie, ma tutti mentono spudoratamente sapendo di mentire.

Eppure la verità è talmente evidente in certi ambienti che nel darne notizia – come nel caso del telegiornale delle 20 de La7, il suo direttore Mentana dice due cose in netto contrasto fra loro: «Diamo notizia del tremendo fatto di sangue avvenuto nel Congo, un paese poverissimo», per poi proseguire affermando, poche parole dopo: «una nazione ricchissima di materie prime di importanza strategica». Una realtà talmente forte che, come la tosse, non può essere contenuta e fuoriesce dalle labbra di un noto asservito al potere del capitale.

Due verità che vengono lasciate poi cadere nelle distratte cene degli italiani assopiti dai colori regioni attribuiti dal governo e dalle paure per la pandemia. Dalle parole di un altro noto giornalista e scrittore, come Domenico Quirico, vien fuori un quadro orrido nella sua descrizione delle varie tribù di disumani più simili alle bastie che al restante dell’umanità. Lui, “profondo” conoscitore dell’area subsahariana e dell’estremismo islamista, non perde occasione per sputare fango sui martoriati popoli africani schiavizzati da secoli dai popoli “civili” dell’Occidente sviluppato.

Eppure, nonostante le montagne di parole per imprigionarla, la verità emerge forte e potente quando sono costretti a dire: «Le guerre nel Kivu [regione del Congo che si affaccia sul lago Kivu] hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev: il coltan, l’oro, il tungsteno, il tantalio che resiste alla corrosione, o la cassiterite che serve per saldare e per leghe speciali».

A differenza degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in questi ultimi decenni è calato un silenzio tombale sulla rapina coloniale delle potenze occidentali in Africa e, quel che è peggio, è calato anche il silenzio nei confronti della Cina che in quel continente e in concorrenza con i Paesi occidentali sta facendo man bassa delle risorse minerarie di ogni tipo. E fa specie, lo diciamo senza veli, che a tale silenzio partecipano anche formazioni politiche che si autodefiniscono di sinistra e che guardano alla Cina come modello sociale centralizzato e possibile struttura sociale diversa dal capitalismo.

Non ci lasciamo impressionare neppure da incantatori di serpenti come certi padri missionari comboniani che si presentano con l’aspetto caritatevole, ma sono l’altra faccia della stessa medaglia del colonialismo capitalistico mondiale, che denuncia sì l’impotenza delle istituzioni internazionali come l’Onu o la stessa Fao, ma poi fungono da controllori della realtà.

Non ingannino perciò certe iperboliche espressioni come «Questo è il Congo di tutti i giorni! Un paradiso della natura, un inferno per gli uomini. Con una guerra civile da 20 anni, per prendersi le ricchezze minerarie. […] chi è il mandante di questo delitto? La gara per le commodities: il petrolio di Viruga e nei grandi laghi, il gas naturale a Kivu, il coltan per fare i telefonini, il cobalto in mano ai cinesi, il columbio, i diamanti, il rame, l’uranio, praticamente tutto … L’ordine è fregare al Congo tutte le materie prime. E far scappare la gente che ci abita sopra, pagando mercenari per ammazzare».

Una fredda e lucida analisi dove però manca l’agente fondamentale, ovvero il soggetto vero di tale devastazione. Il missionario che scrive per L’Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano, rimuove totalmente il ruolo centrale dell’Occidente, ovvero di un mercato capitalistico originato dal colonialismo e che si è via via esteso in tutto il mondo, al punto da ingolfarsi, producendo una crisi per la produzione di valore che mette a confronto il continente asiatico, con la Cina che fa da traino, e l’Occidente con il suo centro maggiore, gli Usa, in una crisi senza precedenti nella storia moderna.

Ora, il padre missionario comboniano dice che «l’ambasciatore Luca Attanasio è morto da santo, mentre andava ad aiutare».

Non è questo il punto in discussione – è bene ripeterlo all’infinito – non è la persona fisica, che abbia studiato alla Bocconi di Milano o meno. Per il materialista si tratta del ruolo che va ad assumere in determinati rapporti che obbediscono a determinate leggi. È questa la questione che non si vuole o non si riesce a capire neppure dai cosiddetti intellettuali di sinistra che brancolano nel buio della democrazia tradita senza riuscire ad afferrare il senso storico del moto di produzione capitalistico di questa fase.

Quando il padre comboniano parla della «gara per accaparrarsi le commodity» da parte di gruppi locali, omette di dire che si tratta di una guerra che viene scatenata dalle grandi compagnie occidentali o/e – come negli ultimi anni – dai grandi gruppi cinesi statali o privati. Si tratta di licenze per lo sfruttamento delle risorse minerarie che lasciano solo briciole ai gruppi locali che equivalgono a misere rendite, mentre la produzione di valore, che avviene attraverso la trasformazione delle materie prime in prodotti destinati al mercato, va solo a beneficiare le potenze straniere, e l’insieme delle nazioni africane ricche di ingenti risorse minerarie rimangono povere.

Si tratta di un meccanismo semplice che Tom Burgis descrive in modo didascalico nel suo libro La macchina del saccheggio (Francesco Brioschi Editore, 2020), quando scrive: «L’esportazione di petrolio, gas e minerali in forma grezza contribuisce a tenere gli Stati africani ricchi di risorse all’ultimo gradino dell’economia globale, eliminando ogni possibilità di industrializzazione».

Sicché certe domande sono oziose: «Non è chiaro che cosa cercassero i killer. Soldi? Un’azione terroristica? O magari un’arma di ricatto sugli investimenti energetici, anche italiani, nel nord di Kivu?». È un modo per sviare dalla questione di fondo, ovvero per imbrigliare il lettore in vie di fuga e non affrontare la questione delle questioni: la presenza degli italiani nel Congo come nel resto dell’Africa per curare gli interessi del “nostro” capitalismo nazionale, cioè delle nostre imprese e delle nostre banche. Sic et simpliciter.

Che ruolo può assolvere anche il più buono, il più bravo, il più coraggioso, il più generoso, il più onesto degli uomini in simili meccanismi se non quello della piccola rondella d’ingranaggio funzionale agli interessi di società che sovrastano in modo impersonale la persona e l’individuo? È questo il punto teorico e politico che racchiude il senso del capitalismo neocoloniale, in modo particolare in questa fase. Divide et impera è la legge che regola i rapporti tra i Paesi capitalisticamente più forti nei confronti del continente africano, dove vengono letteralmente comprati e armati gruppi etnici per contrapporli ad altri gruppi e alimentare una guerra continua per avere buon gioco nella rapina coloniale.

Sul fatto specifico accaduto nelle foreste di Goma in Congo non ci interessa avventurarci in ipotesi investigative, non è nostro mestiere. Registriamo il fatto come riflesso di una accelerazione della crisi generale del modo di produzione capitalistico in quella zona, sia all’interno delle potenze occidentali, sia fra queste e quelle asiatiche, la Cina in modo particolare, sia come milizie sparse di ribelli locali in concorrenza fra loro per accaparrarsi le “commodities”. Dunque ha ragione Burgis sul punto cruciale d’analisi che espone nel suo libro quando scrive: «Esteriormente sono rivali, eppure tutti sfruttano la ricchezza naturale la cui maledizione danneggia le vite di centinaia di milioni di africani».

Due parole chiare sull’Onu.

Da più parti (negli ambienti dell’establishment) ci si lamenta del fallimento dell’Onu, incapace cioè di mettere ordine in un’area immensa come il continente africano. Ci vuole una bella faccia tosta a sostenere una tesi tanto assurda quanto stupida, perché l’Onu può mettere ordine, e lo ha messo, quando col suo consenso sono partiti gli eserciti comandati da generali di potenze imperialiste, come nel 1991 in Iraq contro Saddam Hussein che aveva osato sfidare l’impero del male, come gesto di autodifesa delle proprie risorse petrolifere, occupando il Kuwait, oppure nei Balcani contro il ribelle “dittatore” Milosevic e per ridurre a miti consigli il popolo serbo.

Ora, illudersi che una istituzione, costituita dagli imperialisti per tenere sotto scacco l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, possa fare da tappo alle esplosive contraddizioni che tale accumulazione sprigiona, può rappresentare solo la foglia di fico sulle tragedie causate dalla rapina coloniale.

E le stesse organizzazioni cosiddette umanitarie, laiche o religiose che siano, si possono ammantare di pacifismo, ma al dunque, quando si tratta di precisare e definire i ruoli, non fanno sconti.

Si vuole un esempio?

Bene. L’organizzazione Nigrizia, di padre Zanotelli, in un documento del 2003 scriveva: «L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di tutti i diritti umani per tutti e per un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli Stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possono far sentire la loro voce. Quale istituzione può perseguire i molteplici e conplessi obiettivi dello “human development” e della “human security” se non l’Onu messa in condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione se non gli Stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?»

Ecco la vera ragione, espressa a chiare lettere, della costituzione di una istituzione sorta allo scopo di garantire l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, ad opera dei più potenti. Non a caso venne tenuta fuori da quel consesso la Cina di Mao, la nazione più popolosa al mondo, mentre vi veniva accolta Taiwan. Ecco spiegata la ragione per cui si bombardò l’Iraq, per lesa maestà, perché si era annesso il Kuwait e perché da oltre 70 anni si tollera che lo Stato di Israele criminalizzi il popolo palestinese, dopo averlo espropriato delle proprie terre.

Signori, siamo seri, ma veramente vorreste farci credere che il vero volto degli occidentali sia la faccia sorridente del povero Luca Attanasio circondato dai bambini neri e sorridenti con il lecca lecca in mano, oppure le suorine che insegnano l’italiano ai bambini nelle comunità missionarie? Quella è la maschera del rapinatore dietro cui si nasconde il brigante. Come si fa a mantenere le Missioni religiose? Come si finanziano? Chi le deve finanziare? Oppure: come si mantengono le cosiddette organizzazioni non governative, le Ong? Come si tiene una nave in mare con l’equipaggio, il carburante e la manutenzione, pronta per “soccorrere” in mare i poveri disperati, i naufraghi fatti arrivare nel mare nostrum per essere buttati sul mercato del lavoro in competizione con i lavoratori autocton, per abbassarne il costo e reggere la concorrenza delle merci prodotte?

Come si tiene in vita una Comunità, tipo S. Egidio, presente in più parti del mondo? Col solo volontariato? Ma allora veramente si dà da bere al popolo “sovrano” che la befana vien di notte a portare i doni calandosi dai comignoli delle case. Suvvia, d’accordo che bisogna costruire le notizie, ma c’è un limite a tutto.

Sicché il tutto, tradotto, ci dice che nel Congo, come nel resto dell’Africa, è in atto un saccheggio da parte delle potenze economiche maggiori e che questo produce delle reazioni uguali e contrarie da parte di gruppi sociali che si difendono come possono.

Sono questi i criminali? Si, ma in sedicesimo rispetto a chi, lontani migliaia di chilometri dalle loro terre, le ha invase prima ed ha continuato a rapinarle poi con i mezzi della finanza e della corruzione.

Sicché i veri responsabili dell’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, del povero carabiniere Iacovacci e di Mustafa Milambo stanno a Roma, a Milano, a Torino, a Parigi, a Berlino, ad Anversa, a Bruxelles, a Londra, a New York, a Pechino, a Shangai e così via, ed è fuorviante cercarli nelle foreste del Kivu.

Gli italiani sono ricchi?

In e-mail il 20 Maggio 2019 dc:

Gli italiani sono ricchi?

Certooo! Affaristi, faccendieri e, soprattutto, evasori fiscali.

Riflettendo sul Rapporto Bankitalia-Istat

«L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. […] Si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro».

Salvatore Morelli, Rapporto sulla diseguaglianza economica in Italia, a cura di Oxfam, 2017 (https://www.lenius.it/disuguaglianza-nel-mondo/).

Il 10 maggio, i media (chi più chi meno) hanno suonato la grancassa sulla ricchezza degli italiani. A onor del vero, la notizia era un po’ stantia, risale al novembre scorso. È uno studio di Bankitalia, basato su dati Istat (vedi: https://www.repubblica.it/economia /2018/11/07/news/bankitalia_la_ricchezza_degli_italiani_vale_10_mila_miliardi_cresce_la_finanza-2110371 57/).

Probabilmente, la riesumazione di questa notizia è nata dall’esigenza di buttar acqua sul fuoco attizzato dalle polemiche elettorali, i cui riflessi sullo spread potrebbero ricadere non solo sul governo ma sul sistema-Italia, nel suo complesso. Non per nulla, la questione è stata subito messa in sordina. Per la cronaca, l’articolo più approfondito è: Davide Colombo, Il tesoretto delle famiglie italiane: una ricchezza di 9.743 miliardi, «Il Sole24 Ore», 10 maggio 2019.

Qualche ragionamento, invece, getterebbe un po’ di luce sul comportamento politico degli «italiani» (calderone in cui si confondono borghesi&proletari). Con scelte politiche anomale, rispetto a quelle di altri Paesi dell’Unione europea, dove, sebbene un po’ ammaccati, resistono gli storici partiti: centro democristiano e sinistra socialista che, in Italia, sopravvivono in quel pateracchio politico che è il Partito democratico, un connubio di ex democristi (Renzi) ed ex piccisti (Zingaretti), con qualche outsider (Gentiloni). Mentre emergono forze politiche, dette populiste e sovraniste, che, in altri Paesi (con poche eccezioni, come l’Ungheria), hanno un peso assai più ridotto.

Un ceto medio pletorico: anomalia Made in Italy

Certamente, alle radici dell’anomalia italiana ci sono i mutamenti economici e sociali che, in questo ventennio, hanno investito il Bel Paese, e che la crisi (2008) ha poi accentuato, riplasmando i vecchi assetti politici. Ma fino a un certo punto la composizione sociale italiana è mutata. Essa mantiene la sua peculiare caratteristica: un ceto medio pletorico, impegnato in attività autonome.

Allevato nella bambagia della Prima repubblica democristian-piccista, con l’ausilio di qualche sinistro/sinistro (piccolo è bello!), il cetomedioautonomo ha trovato una felice sponda nella Seconda repubblica berlusconiana (con metastasi leghista) che ne sposò l’evoluzione immobilar-finanziaria (speculativa).

Ed è questo ceto che connota politicamente l’andazzo italiano. Un forte ceto medio potrebbe essere indice di stabilità sociale se anche le altre classi (quelle fondamentali) – proletariato (lavoratori dipendenti e pensionati) e borghesia (industriali, banchieri, manager…) –, vivessero una situazione tendenzialmente equilibrata, in cui si riducessero le diseguaglianze, in termini di distribuzione della «ricchezza». Così non è. E da tempo.

L’indice di Gini, che misura la sperequazione, a livello europeo colloca l’Italia alla ventesima posizione su 28 (con un coefficiente pari a 0,331 (vedi dettagli in: https://www.lenius.it/disuguaglianza-nel-mondo/).

In poche parole, in Italia c’è una forte sperequazione sociale: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In soldoni, il 40% più ricco della popolazione italiana detiene l’85% della ricchezza e il restante 60% più povero deve arrangiarsi col 15%. I 14 miliardari più ricchi d’Italia posseggono quanto il 30% più povero della popolazione.

Con la crisi, il fenomeno si è generalizzato e accentuato. E, in Italia, assume particolari implicazioni sociali e politiche.

Lo scarica barile

La costante polarizzazione della ricchezza in poche mani si ripercuote su tutti gli strati sociali: con in alto la borghesia e in basso il proletariato. Chi sta in mezzo, ovvero il cetomedioautonomo, per scansarne le conseguenze, si rivale su chi sta in basso, ovvero sul proletariato, provocando, non sempre inconsciamente, l’aumento dell’estorsione di plusvalore e la riduzione dei servizi sociali.

In questa rivalsa, il cetomedioautonomo è favorito dalla sua consistenza, grazie alla quale gioca un pesante ruolo politico, con la parola d’ordine: meno tasse. Ovvero, niente tasse, visto che già ne pagan pochine … Pochine ma fastidiose. Per loro.

Entriamo nel merito del problema e cerchiamo di capire come si collocano i vari strati sociali nella ripartizione della ricchezza. Leggiamo che cosa afferma il Rapporto sulla ricchezza di Bankitalia-Istat.

1)   La finanza, contribuisce per il 41% (pari a 4.374 miliardi) alla ricchezza dei soliti «italiani».

Risparmiatori e speculatori

L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e risparmiatori. O meglio piccoli risparmiatori (circa il 60% degli italiani). Nonostante la crisi, anzi proprio per la crisi, molti proletari (per lo più pensionati del bel tempo che fu) scelgono di tirar la cinghia e risparmiare, per far fronte a un futuro incerto e precario: figli precari, salute precaria … E questo risparmio forzoso avviene a dispetto della crescente pressione dei promotori finanziari, a caccia di quattrini, da gettare nella fornace speculativa. Nonostante le recenti vicende del Monte dei Paschi di Siena, della Popolare di Vicenza ecc. ecc. consigliano: prudenza!

Comunque sia, in questi ultimi anni, la possibilità di incrementare i risparmi riguarda solo un terzo delle famiglie «italiane». Di trippa per gatti non ce n’è molta.

Ma ai capitalisti, questi risparmi fanno gola, per loro sono quattrini immobilizzati, che prendono polvere, sfuggendo investimenti, perlopiù speculativi (vedi: Samuele Maccolini, I risparmi degli italiani? Sintomo di paura nel futuro, Rapporto Censis/Conad, https: //www.linkiesta.it/it/article/2018/12/28/risparmio-italiani-conad-censis/40550/).

Capovolgendo la frittata, possiamo dire che questi risparmi, benché forzosi, creano una netta divisione di classe, tra rentier borghesi e piccoli risparmiatori proletari.

I risparmi che si mutano in investimento finanziario riguardano quasi esclusivamente, se non in toto, la borghesia e il ceto medio.

Passiamo all’aspetto cruciale, la casa, entriamo in un terreno ancor più minato! Che però è al centro delle implicazioni politiche.

2)   Le abitazioni, con un valore di 5.246 miliardi di euro, rappresentano quasi la metà della ricchezza complessiva (il 49%). Se poi aggiungiamo terreni e attività cosiddette reali si toccano i 6.295 miliardi, pari al 59%.

Casa dolce casa… Ma quanto ci costi!

Croce e delizia degli italiani! La casa molti italiani furono costretti ad acquistarla quando, con la definitiva soppressione del blocco del canone di locazione (1978), le case in affitto sparirono e, al tempo stesso, l’edilizia pubblica declinava. Una vera pacchia per vecchi e nuovi proprietari di immobili. A evitare eccessive tensioni sociali, provvidero gli ultimi riflessi del boom economico e del Welfare State.

– Sulla casa vedi: Il problema della casa in Italia: politiche, problemi, lotte, in https://centrostudiudine.word press.com/2016/11/26/il-problema-della-casa-in-italia-politiche-problemi-lotte/.

E così, oggi, il 73% degli italiani possiede una casa, alcuni due o più. Fenomeno, quest’ultimo, unico in Europa. Per quale motivo? Almeno dagli anni Settanta molti emigrati dal Sud al Nord Italia o lavoratori confluiti dalla campagna alla città possedevano o avevano acquistato (a volte costruito) una casa nelle località d’origine. Nessun lusso! Anzi, la casa sarebbe diventata una croce prima per far fronte ai mutui, poi per le tasse e per le necessità di manutenzione, infine per adempiere alle normative in materia di sicurezza.

Per inciso, a cavallo degli anni Settanta/Ottanta, l’onere per l’acquisto della casa (il mutuo ma non solo) contribuì a smorzare le lotte operaie, allora in corso, contro le ristrutturazioni industriali.

La casa sembra una ricchezza, in realtà è una pesante palla di piombo al piede, per moltissimi italiani, in primis per i proletari (Vedi: Roberta Cucca, Luca Gaeta, Ritornare all’affitto: evidenze analitiche e politiche pubbliche (2015), abstract disponibile in http: //www.for-rent.polimi.it/wp-content/uploads/2016/01/ Cucca_Gaeta_paper2015.pdf).

Questa è una situazione che spinge molti proletari ad allearsi coi borghesi, in un fronte comune anti tasse. Da cui il successo elettorale della Lega, per esempio.

Ma, in questo fronte, i proletari che la loro abitazione la abitano si trovano in compagnia di borghesi, piccoli e grandi, che con le loro abitazioni fanno affari, affittandole o vendendole al miglior offerente, speculando ed evadendo il fisco. E, con la fregola turistica che pervade oggi l’Italia, questo è un bel business (Airbnb ecc. ecc.) che coinvolge del tutto marginalmente i proletari.

Chi evade il fisco e chi ne paga il conto

Nel fronte anti tasse, i proletari sono la massa di manovra di una battaglia destinata a esiti catastrofici per tutti gli strati sociali coinvolti, che verranno travolti dallo scoppio della prossima bolla immobiliare. A tutto vantaggio del Capitale, senza aggettivi e senza nazione.

Ma fino a quando?

Già oggi il fronte anti tasse mostra tutta la sua precarietà, e non certo a vantaggio di chi ha sostenuto e sostiene tasse, sacrifici e lacrime (PD & Co.).

I proletari che ancora sbarcano il lunario, grazie alla casa e grazie ai risparmi, vivono in un’isola felice, circondata, però, dal mare sempre più tempestoso dei senza risorse, dei senza tetto, dei senza salute, dei senza risparmi, dei senza lavoro…

Prima di farsi trascinare nella lotta di tutti contro tutti, è bene darsi una mossa, rifiutando alleanze contro natura e deleghe canagliesche.

Dino Erba, Milano, 20 maggio 2019.

Meno alberghi, più case

In e-mail il 14 maggio 2019 dc:

Meno alberghi, più case

Nell’agosto 2018 i quotidiani locali tentavano, entusiasticamente, di sdoganare l’ennesimo delirante progetto della “Giunta dei Felici”, progetto banalmente definito “Prè-visioni”. Titolo azzeccato perchè, ancora più banalmente, tutto il pateracchio è fondato sulle visioni fobiche ed alienate del genio del Politecnico Universitario, un vero terremoto di professoressa, tale Morbiducci, alla quale i caruggi, così come li abbiamo sempre abitati, proprio non piacciono. Troppe stradine e poca luce “nei quartieri dove il sole non dà i suoi raggi”.

Perciò la sismica professoressa suggerisce alle brillanti menti della Giunta di radere al suolo un paio di palazzi in via Prè per sostituirli col … nulla, un nulla giustificato da alcuni spiazzi arredati con panchine e tavoli colorati, pomposamente definiti “piazzette universitarie” (forse sponsorizzate dall’Ikea University?) e tanta luminosissima segnaletica per i turisti da convogliare a Palazzo Reale.

Poi, via i caratteristici negozietti popolari e multietnici, poichè anche questo alla prof non piace: facciamo largo al pret-a- porter prefabbricato (ad esempio le Prè-viste nuove lavanderie, per affrontare torme di studenti fuori sede che correranno a frequentare un’università in totale decadenza, o le Prè-viste eno-birrerie ideali per sbronzare e spennare studenti e turisti). Infine, al posto del mercato rionale, vuoi mettere un fantascensore per Palazzo Reale, con annesso bar pasticceria per ricchi?

Che figata! Plaude la Giunta Felice. E le e i residenti? Che si prè-vede per chi, in questo storico quartiere, vive e lavora? Chi se ne frega, si arrangino: infatti, nessuna menzione, nessun dubbio, nessuna soluzione o proposta per la viva realtà di via Prè fa capolino nel progetto: solo tanta, tantissima luce. Da affittare. E tanti turisti da spennare, e tanti studenti e tanta manodopera da sfruttare e affitti da aumentare e immobili su cui speculare.

Fortunatamente la presunzione e l’incompetenza di giunta e professoressa sono state bloccate da quegli stessi vincoli burocratici di solito largamente usati dagli speculatori dell’industria del turismo, degli immobili e del terziario istituzionalizzato. L’U.n.e.s.c.o., minacciando di ritirare i fondi destinati alla tutela di edifici da… abbattere, ha costretto la gang dei felici alla ritirata strategica.

Ciò non impedisce al piano di coatta gentrificazione del centro storico di andare avanti, a suon di campagne per il decoro o per la sicurezza. Capitali ed intrallazzatori sono ben tutelati dalle leggi e dalla burocrazia che aggrediscono i salari e le condizioni di lavoro.

L’aumento degli affitti e la polverizzazione dei contratti di lavoro (quando ci sono) continua a costringere singoli/e e nuclei familiari a lasciare il posto all’imprenditore col portafoglio gonfio che vuole la seconda casa per l’estate. Se ti opponi, assistenti sociali, polizia e carabinieri, truppe di militari grassottelli e sudaticci sono pronti ad intervenire per dare una mano… all’agenzia immobiliare.

Ma se lo zelo dimostrato dalle forze della repressione nell’esecuzione degli sgomberi, se la violenza dei loro interventi a senso unico contro il “povero”, lo straniero, l’escluso non ci sorprendono e se nemmeno ci sorprende che la nuova borghesia illuminata (dal luccichio dell’oro) gorgheggi estasiata ad ogni scoreggia di leggina liberticida, ciò che riesce più difficile spiegare è il motivo di quella sorta di “sindrome di Stoccolma” che spinge alcuni sfruttati a schierarsi dalla parte degli sfruttatori. Forse, quando costoro fanno i cani da guardia dei padroni e gridano “all’abusivo” mentre altri tentano una soluzione pratica e diretta al problema della casa occupandone una, essi credono di difendere la loro stessa, spesso risibile, proprietà o magari ritengono di operare per la giustizia. Però, nei fatti, l’unica giustizia che difendono è quella dei padroni, che godono quando si rompe quel fronte di solidarietà tra oppressi che, nella storia, ha rappresentato una valida difesa da ingiustizie, soprusi ed abusi funzionali ai potenti, ma spesso resi operativi dai lacchè.

Per la cupidigia dei soliti noti, immobiliari pubbliche e private, armatori, catene alberghiere ecc, la conquista degli “ostici” quartieri di Prè, Maddalena e Caricamento rappresenterebbe l’atto finale della guerra contro il proletariato urbano iniziata cinquant’anni fa con la distruzione della zona di via Madre di Dio (che ha comportato, tra l’altro, lo sradicamento coatto di gran parte della popolazione originale dei caruggi, deportata verso periferie di cui nessuno si preoccupa), per la trasformazione completa del centro storico da quartiere vivo a immenso, lucente e spettacolare outlet senza saldi, da consumare piuttosto che da vivere. Una città-vetrina da sfruttare fino al midollo, progettata e costruita a misura di sfruttatore, dove chiunque stia fuori dal business viene considerato/a alla stregua di un pericolo o di un fastidio.

Sta a noi, sfruttate e sfruttati, escluse ed esclusi, capire la parte della barricata da occupare per difendere la qualità e il valore delle nostre vite e di ogni nostro giorno.

SOLIDARIETÀ CON CHI RESISTE, A GENOVA, TORINO E DAPPERTUTTO ALL’ASSALTO DEI PADRONI E DEGLI SPECULATORI

Spazio di documentazione “IL GRIMALDELLO”, via della Maddalena 81r.

FRONTEDEGRADO

Per la fine del PD in Umbria stappiamo le bottiglie…

Inoltrato in e-mail il 28 Aprile 2019 dc:

Per la fine del PD in Umbria stappiamo le bottiglie…i vuoti li teniamo per quelli che vengono dopo!!!

Ci fa sempre decisamente schifo la lettura politica attraverso le
inchieste giudiziarie, inchieste nelle quali spesso sono i nostri nomi e
le nostre conversazioni a venire spiate ed esposte al pubblico ludibrio
da sbirri e giornalisti. Inchieste i cui mandanti sono stati proprio
quei politici oggi sotto attacco.

Eppure quello che sta succedendo in Umbria solo accidentalmente nasce da
 un’inchiesta, ma è un fatto di portata storica: la fine di un regimetto
 durato ottanta anni di governo incontrastato su questa cosiddetta
 regione da parte della stessa famiglia politica.


Certo, pure un ragazzino che vende due grammi di fumo lo sa che certe
 cose al telefono non si dicono! I nostri governanti invece, spassosamente, parlavano al telefono di Logge massoniche e servizi
 segreti, di posti di prestigio negli ospedali e di affari da fare con la 
Legacoop.

Ma non è questo che ci interessa. Queste cose il PD qui da noi le ha 
sempre fatte.

Il punto è che fino a qualche anno fa in galera ci finiva
 chi le denunciava certe storie.

Che la Procura di Perugia sia 
improvvisamente rinsavita? Che i giudici siano diventati improvvisamente 
buoni?

Ma nemmeno per sogno!

Quello che è davvero storico è il mutamento
 dello spirito del tempo. Un’ipotesi politica, incontrastata fino a questo
 momento, volge al tramonto.
 Il dominio di questo clan politico-familiare si reggeva su un
 compromesso storico alla norcina: il compromesso fra i contadini e gli
 operai di queste terre – da ammansire e tenere buoni – con i poteri 
forti di Perugia (la Curia, l’Università, la Massoneria) e la grande
 industria post-fascista (le Acciaierie in primis, ma anche la storica
 industria del cioccolato di proprietà dell’ex potestà di Perugia).

L’imperativo di questa fase quasi secolare di compromesso e pace
 sociale, in pieno stile umbro, non poteva che essere eminentemente 
culinario: far mangiare tutti!!!


Ricordate il “ma anche…” con cui Walter Veltroni fece il manifesto 
ideologico per la nascita del PD, imitato magistralmente da Maurizio
 Crozza? Immodestamente, la cosa non ci fa un gran piacere, potremmo dire
 che il “ma anche…” nasce in Umbria: far mangiare i padroni ma anche gli
operai; governare con i Verdi ma anche con i cacciatori; avere 
università, città d’arte, parchi e fiumi, ma anche la grande industria 
(ma anche dei fantastici reparti di oncologia… con i primari, che sono
 sì luminari della medicina, ma anche amici dei politici).


Il popolino che oggi grida allo scandalo e si appresta a votare Lega non 
è immune da responsabilità: sono gli stessi villani che, prima, votavano
 socialista perché ambivano alla redistribuzione delle terre, poi, la
 generazione successiva, continuava a votare le giunte di centro-sinistra 
perché, devastando il territorio, rendevano le loro terre edificabili.

Quello che è davvero finito è quel mondo.

Sembra che i grandi processi
 storici abbiano raggiunto anche queste terre distanti dai confini e non
 bagnate da alcun mare. Oggi il capitalismo non è più in grado di far
 mangiare i padroni ma anche gli operai. Oggi devono mangiare solo i
 padroni. Oggi lo Stato sta messo male e non può più permettersi
 assunzioni clientelari. La magistratura, sempre al soldo dei padroni, è
 a servizio di questo mutamento dei tempi.

Questo spiega l’incredibile
 operazione giudiziaria che colpisce un fenomeno che fino a ieri era 
tollerato come forma di cultura locale.

Siamo certamente entusiasti che questi buffoni finiscano nella 
pattumiera della storia. È una vita che aspettiamo questo momento. 
Quelli che arriveranno dopo, però, non saranno meglio.
 Morta la generazione di politici di professione, una burocrazia di cui 
la Lorenzetti fu in un certo senso la matriarca, oggi entriamo in una
 fase nella quale i padroni prendono direttamente nelle loro mani il
 governo del territorio. Lo vediamo a Spoleto, dove abbiamo nella giunta
 leghista al potere direttamente imprenditori, feudatari, commercianti.

Il progetto che vogliono realizzare è già evidente: la plastificazione
 dell’Umbria, la sua prostituzione turistica, la trasformazione dei 
borghi e delle montagne.

Una piccola Toscana ancora incontaminata, in 
cui l’Umbria non esiste più ma esiste un suo surrogato in cartolina.
 Un processo nel quale i nuovi governanti si candidano ad essere porta
bandiera, se è vero che Salvini, volato a Perugia come un avvoltoio 
all’indomani dell’inchiesta, ha fatto sapere che la sua candidata in
 Umbria sarà la sindaca di Montefalco, Donatella Tesei.

Il “modello 
Montefalco” è il modello di un’Umbria fighetta e folcloristica, con 
l’hipster che viene da Firenze o da Roma a sorseggiare il calice di vino 
a prezzi da mutuo nello scorcio medievale. Mentre intorno cresce la 
miseria e lo sfruttamento delle persone e della natura.

Questo nuovo corso (che ha già preso piede a Perugia, Terni e Spoleto) 
avrà quanto meno il vantaggio di rendere le cose chiare: fine di ogni
 compromesso, fine del potere mediatore e onnicomprensivo del PD, scontro
 diretto, immediato, antagonista con i padroni al potere.

Oggi come ieri, noi saremo qui a combatterli.

Gli anarchici di Spoleto