Per togliere di mezzo qualsiasi equivoco, va chiarito che questo arsenale legislativo ha fatto tabula rasa, sul terreno urbanistico e sul terreno dell’edilizia residenziale pubblica, di tutti i principi giuridici progressisti elaborati nella fase di crescita dell’accumulazione del capitale, trainata dall’industria.
Nell’epoca del dominio del capitale parassitario svanisce la nozione di bene pubblico, che non viene più considerato nella sua funzione e destinazione materiale, bensì solo per la sua stima di valore in danaro, base per la sua vendita e trasformazione in proprietà privata, fonte di rendita e plusvalenza per il capitale parassitario che se ne può appropriare, col pretesto della riduzione del debito pubblico. Quindi, con questo pretesto, oggi di tutto si fa mercato.
Del pari il diritto all’abitazione, che pur non avendo rango costituzionale aveva ispirato il sistema dell’edilizia residenziale pubblica, non ha più ragione di esistere se non come diritto ad abitare una casa di cui si è proprietari o di pagare un affitto di mercato a chi (ente pubblico o privato locatore) ne è proprietario. In altri termini, nulla si può avere fuori dal mercato immobiliare e chi sta fuori dal mercato può crepare.
Giungiamo così alla conclusione che la lotta al dominio del blocco di potere parassitario- finanziario-immobiliare sulla metropoli ha senso ed è possibile solo se poggia sul proletariato e ne rappresenta gli interessi di classe, economici e politici, in modo autonomo dagli interessi della moderna piccola e media borghesia metropolitana, che in gran parte dipende dal capitale parassitario e dallo sviluppo delle sue iniziative favorevoli alla proprietà immobiliare.
Questa lotta non può limitarsi a rivendicazioni immediate e particolari, anche se sacrosante, quali la soddisfazione del bisogno abitativo; la riduzione dei canoni a livelli sopportabili per i salari; il mantenimento del patrimonio edilizio pubblico, la sua manutenzione e la costruzione di nuovi alloggi; la destinazione a scopi sociali di aree demaniali e il divieto della loro appropriazione privata, che costituirebbe una perdita definitiva per la cittadinanza e ne escluderebbe gran parte dal loro uso, riservato al solo consumo pagante e/o al censo di chi vi abita.
Ogni rivendicazione deve essere collegata alla condizione proletaria (aumento del salario, salario minimo garantito, riduzione dell’orario) e inserita nel quadro della lotta al potere, della denuncia della specifica azione e funzione dell’apparato dello Stato, della Regione e del Comune a favore del capitale parassitario, che richiedono la costituzione di una forte e ramificata organizzazione politica e rivoluzionaria, capace di riunire le mille spinte e comitati che agiscono e lottano nella metropoli finanziaria. (I.)
LA CASA POPOLARE: UN NUOVO AFFARE PER LA FILIERA DEL SETTORE IMMOBILIARE E PER LA FINANZA E UN SOGNO SEMPRE PIU’ IRREALIZZABILE PER I POVERI.
Il Consiglio regionale lombardo ha approvato nel luglio 2016 la nuova legge regionale (L.R.n.16/2016 – Disciplina regionale dei servizi abitativi) in tema di case popolari, apportando alcune modifiche nel maggio 2017.
Si tratta di un nuovo affare per la filiera legata al settore immobiliare e per la finanza parassitaria, per vendere ciò che resta del patrimonio pubblico e per contribuire a finanziare le imprese del settore, attraverso i fondi per la ristrutturazione degli alloggi, per garantire la proprietà immobiliare contro la morosità ed impedire la riduzione dei canoni nel settore privato ed infine per sottoporre ad un controllo asfissiante i poveri, per i quali la casa popolare resta una chimera.
MITO E REALTÀ DELL’EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA
Una interessata leggenda racconta che l’edilizia residenziale pubblica sia stata – e dovrebbe essere – un’attività diretta all’acquisizione, alla costruzione e al recupero di fabbricati da destinare ad abitazioni per i c.d. meno abbienti, al fine di realizzare il miglioramento delle condizioni di vita di questi ultimi, applicando il principio solidaristico nel quadro della c.d. giustizia distributiva.
Sfatiamo il mito e passiamo alla sostanza delle cose, con particolar attenzione a questo ultimo provvedimento legislativo.
Mai la borghesia italiana ha avuto alcun afflato solidaristico verso i ceti meno abbienti.
Mai si è sognata di costruire case popolari per venire incontro alle esigenze del proletariato.
Nel secolo scorso l’edilizia popolare ha avuto la stessa dinamica di altri ambiti economici. Dinamica contraddistinta dai conflitti interni alla classe dominante, e dagli appetiti delle varie frazioni capitaliste, nonché dalle lotte del proletariato. Sviluppo e contrazione delle costruzioni pubbliche si sono alternate quali conseguenze del processo di industrializzazione e di concentrazione operaia e proletaria nelle città (a partire dalla legge Luzzatti del 1903), dell’avvento del fascismo (con la contraddittoria politica sull’urbanesimo, l’abrogazione del blocco dei fitti ed il divieto agli allora IACP di produrre direttamente cementi e materiali vari, con la volontà di agevolare le imprese edili), della seconda guerra mondiale (a seguito delle distruzioni di parte del patrimonio pubblico e conseguente ricostruzione – legge Tupini e quasi contestuale Piano Fanfani, nel 1949), dell’ondata migratoria interna e della congiunturale politica di finanziamento dell’edilizia pubblica da parte dello Stato (che tra il 1952 ed il 1954, ha destinato a tale scopo il 25% della spesa pubblica); della fine del c.d. miracolo economico e della crisi del 1975; sino alla complessiva finanziarizzazione dell’economia italiana dagli anni ‘90 in avanti.
In questa cornice il proletariato e le classi popolari si sono mossi per contrastare e combattere l’afflato solidaristico della classe dominante, che si è manifestato, nel corso del tempo, con l’emigrazione forzata, l’eliminazione del blocco dei fitti, l’affitto di veri e propri tuguri, la costruzione di quartieri dormitorio e di case minime al minor costo possibile e con materiali il più scadenti possibile (il razionalismo urbanistico), l’aumento dei fitti, gli sfratti e gli sgomberi.
Una serie di lotte sono state via via organizzate per ottenere abitazioni dignitose, contro il caro canone e per l’occupazione collettiva degli alloggi pubblici irragionevolmente lasciati vuoti. Vale la pena di rammentare, in proposito, la lotta contro l’aumento dei canoni, condotta tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ‘70, che vide la partecipazione di centinaia di nuclei familiari impegnati in manifestazioni per l’autoriduzione dei fitti, che portò gli allora IACP e le Giunte Comunali a fare marcia indietro, e le lotte per ottenere la sanatoria delle occupazioni c.d. abusive, che portò a regolarizzare le situazioni abitative.
In questo quadro l’edilizia popolare ha sempre avuto quale convitato di pietra – direttamente o indirettamente – il capitale finanziario (banche e assicurazioni), che sin dai primi anni del secolo scorso consentì ai Comuni di ottenere finanziamenti per costruire case popolari, mantenendo, sempre, una condizione di supremazia sui Comuni e, poi, sugli IACP, così determinando il processo di sviluppo e/o contrazione dell’edilizia popolare.
A ciò si aggiunga che l’intervento dello Stato è sempre stato caratterizzato da un lato da un finanziamento estremamente ridotto dell’edilizia pubblica – a parte il suddetto periodo del dopoguerra, finalizzato principalmente ad incrementare l’occupazione lavorativa – e, dall’altro, dal tentativo di subordinare le gestioni locali a strumenti di intervento centralistico (INA CASA e, poi, GESCAL), col precipuo scopo di garantire la rendita immobiliare e favorire la greppia industriale legata al cemento e quella finanziaria.
Giusto perchè non tutto trapassi impunemente nel dimenticatoio, è opportuno rammentare, in proposito, che lo Stato ha sempre – sin dal 1923 – concesso l’esenzione dall’imposta sui fabbricati e dalle imposte locali a privati e società che avessero costruito case popolari, nonché contributi e fondi vari ed ancora va rammentato l’intervento dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA).
L’INA, attraverso il settore specificamente costituito in proposito nel quadro del Piano Fanfani, Gestione INA-casa, ha gestito per anni la distribuzione dei fondi per la realizzazione delle case popolari, intervenendo persino sulle modalità di definizione delle caratteristiche degli alloggi, con l’obiettivo di costruirne il maggior numero con il minor costo, spesso in deroga alle previsioni dei P.R.G., provvedendo all’acquisto dei terreni, spesso collocati in posizione periferica, contribuendo, in tal modo, al finanziamento diretto ed indiretto della rendita attraverso la valorizzazione fondiaria dei terreni privati, al finanziamento della filiera legata alle costruzioni immobiliari (imprenditori del cemento ed articolazioni varie), alla cementificazione territoriale ed alla realizzazione di quelli che sono diventati veri e propri quartieri dormitorio destinati al proletariato urbanizzato.
Ed allorché il patrimonio INA-Casa venne posto in liquidazione (1963, inizio GESCAL), lo Stato favorì la cessione degli alloggi in proprietà.
In un quindicennio il giro di investimenti raggiunse quasi 900 miliardi di lire. Altro che principio solidaristico e giustizia distributiva.
VENIAMO AD OGGI
Certe premesse vanno rammentate, perchè consentono di comprendere meglio l’attualità.
La nuova legge regionale lombarda in materia di edilizia pubblica è solo l’ultimo tassello di una serie di interventi statali (vedi, di recente, il Piano Casa statale del 2014) e regionali, ma contiene alcuni elementi di novità. In realtà si può affermare che questa legge segna un punto di non ritorno nella dinamica di smantellamento definitivo dell’edilizia residenziale pubblica, decretandone persino la fine nominalistica.
La nuova legge, infatti, non indica più neppure i termini edilizia residenziale pubblica, che – dopo oltre un quarantennio – letteralmente spariscono e vengono sostituiti da nuovi termini: servizi abitativi pubblici e servizi abitativi sociali. La modifica non è semplicemente semantica, risponde alla realtà ed alle nuove esigenze, in parte ormai affermate ed in parte ancora da imporre. Ma la fine delle case popolari è un fatto assodato, come meglio si capirà al termine dell’esame della legge, suggellata anche da una delle disposizioni transitorie e finali.
Vediamo, dunque, l’impianto della normativa, con riferimento specifico agli elementi più caratteristici relativi alla logica affaristica e di controllo dei poveri che la impregna.
L’incipit, ovviamente, è come da leggenda. Il fine della disciplina introdotta sarebbe quello “di soddisfare il fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonché di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio” (art.1 c.1); il nuovo sistema dei servizi abitativi dovrebbe assolvere “a una funzione di interesse generale e di salvaguardia della coesione sociale” (idem, c.2).
Passiamo oltre. Non senza sottolineare come il passaggio semantico sia significativo: il fabbisogno abitativo viene soddisfatto attraverso servizi. E i servizi – come è noto – debbono essere pagati.
La legge procede sin da subito ad evidenziare il lato affaristico che la contraddistingue, indicando i soggetti che provvederanno ad erogare e gestire i servizi abitativi al fianco delle Aler e dei Comuni: i c.d. “operatori accreditati, quali soggetti del terzo settore, cooperative ed altri operatori anche a partecipazione pubblica” (artt. 1 e 4). Insomma anche soggetti privati entrano nel business. Ma, in fondo, non è che la presa d’atto di quanto già avvenuto: cooperative varie ed MM Casa, società del Comune di Milano – tanto per indicarne alcuni – ne fanno già parte.
A questo punto, occorre comprendere cosa diavolo siano questi novelli servizi abitativi, tra i quali, peraltro, viene immediatamente in evidenza il tratto di sostegno alla rendita immobiliare. L’articolo 1 distingue infatti: a – i servizi abitativi pubblici che sono destinati a soddisfare il bisogno abitativo dei nuclei familiari in stato di disagio economico, familiare ed abitativo (traduzione: genericamente i poveri); b – i servizi abitativi sociali che sono destinati a soddisfare il bisogno abitativo dei nuclei familiari aventi una capacità economica che non consente né di sostenere un canone di locazione o un mutuo sul mercato abitativo privato né di accedere ad un servizio abitativo pubblico (traduzione: quelli che possono pagare un canone vicino anche se non eguale a quello di mercato); c – le azioni per sostenere l’accesso ed il mantenimento dell’abitazione che riguardano il mercato abitativo privato e i servizi abitativi sociali (…) e le azioni volte a favorire la proprietà dell’alloggio (…) (traduzione: garanzia pubblica del versamento del canone a favore dei proprietari privati e degli operatori accreditati che gestiscono gli alloggi non destinati ai poveri, garanzia alle banche ed alle finanziarie erogatrici di mutui per l’acquisto di immobili).
L’inizio, quindi, è promettente, ma lo sviluppo non è da meno.
L’art. 3 dopo aver elencato le funzioni dei comuni, tipiche di questo ambito, introduce una novità. Stabilisce infatti che i comuni possono attivare servizi di agenzie per l’abitare riguardanti l’orientamento dei cittadini in merito alle opportunità di reperire alloggi in locazione a prezzi inferiori a quelli di libero mercato, lo svolgimento di azioni di sostegno alla locazione e di attività di garanzia nei confronti dei proprietari nei casi di morosità incolpevole.
Queste agenzie per l’abitare – visto lo scopo – non pare che si differenzino molto dalle normali agenzie immobiliari18.
La legge, poi, stabilisce che: ”Al fine di incrementare l’offerta di servizi abitativi pubblici e sociali, l’apporto di unità abitative di proprietà da parte degli operatori accreditati, costituisce titolo preferenziale nelle procedure di evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi abitativi pubblici e sociali” (art. 4). In sostanza, gli operatori accreditati19 che dispongono di alloggi vuoti e vogliono evitare i problemi delle possibili morosità o degli sfratti, possono metterli a disposizione dei servizi abitativi. In tal modo non solo godranno di maggiori titoli per entrare nel business (accreditamento) bensì otterranno la garanzia del versamento del canone e, occorrendo, disporranno di procedure più snelle e rapide per gli eventuali sfratti.
Il settore immobiliare ringrazia sentitamente.