La prefazione a Contro il lavoro, pubblicato nel 2011 dc da Elèuthera, di Andrea Staid, da me inserito il 29 Giugno 2021 dc. Lo stesso testo è stato da me inserito nella pagina Manifesto contro il lavoro
Contro il lavoro
In fondo, […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.
Friedrich Nietzsche, “Aurora”, 1881
Quando conosci una persona, «che lavoro fai?» è solitamente la seconda domanda dopo «come ti chiami?». Ognuno di noi ha un lavoro, però è difficile spiegare cosa sia.
È un qualcosa che si dovrebbe avere voglia di fare, ma per la maggior parte dei lavoratori questa voglia non c’è.
Avere un lavoro significa fare sempre la stessa identica cosa, fare una cosa uguale o simile tutti i giorni, per decine di anni. E la si fa per ottenere un salario, non perché se ne abbia realmente voglia o la si consideri particolarmente utile. La facciamo perché abbiamo bisogno di reddito.
Dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro, si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti, ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario.
Il lavoro impedisce l’invenzione e la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse e di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti, la sfacciata richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine deciso da altri non è sempre stata così interiorizzata come lo è oggi.
Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini, letteralmente a forza di torture, al servizio incondizionato dell’idolo «lavoro».
La maggior parte degli uomini non si è dedicata spontaneamente a una produzione destinata a mercati anonimi, e dunque a una più generale economia monetaria. Lo ha fatto solo perché vi è stata costretta dall’avidità degli Stati assolutistici, che hanno monetizzato le tasse aumentandole contemporaneamente in maniera esorbitante.
Non per se stessa la maggior parte degli uomini ha dovuto «guadagnare soldi», ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia.
Così, e non diversamente, si è affermato nel mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale e quindi del lavoro. Con la formazione degli Stati moderni, gli amministratori del capitalismo finanziario hanno cominciato a trasformare gli esseri umani nella materia prima di una macchina sociale necessaria per convertire il lavoro in denaro. Il modus vivendi tradizionale delle popolazioni è stato così distrutto: non perché queste popolazioni si siano spontaneamente e autonomamente «sviluppate» in tal senso, come ci vogliono far credere, ma perché sono diventate il materiale umano che serve a far funzionare la macchina della valorizzazione ormai messa in moto.
I contadini sono stati scacciati con la forza delle armi dai loro campi per far posto alle greggi per i lanifici. Antichi diritti, come quello di cacciare, pescare e raccogliere legna nei boschi, o quello dei terreni comuni, sono stati aboliti.
Ma anche questa trasformazione graduale dei propri sudditi nella materia prima dell’idolo «lavoro», creatore di denaro, non è bastata agli Stati assolutistici, che hanno esteso le loro pretese anche ad altri continenti.
La colonizzazione interna dell’Europa è andata di pari passo con quella esterna, inizialmente nelle due Americhe e in alcune regioni dell’Africa.
Spedizioni di rapina, distruzione e sterminio, fino ad allora senza precedenti, si scagliano con violenza sui nuovi mondi appena «scoperti», tanto più che le vittime locali non sono neppure considerate come esseri umani.
Per le potenze europee, divoratrici di uomini, le culture soggiogate, in questi albori della società del lavoro, sono infatti composte da selvaggi e cannibali. E così si sentono legittimate a sterminarli o a renderli schiavi a milioni.
La vera e propria schiavitù dell’economia coloniale, basata sulle piantagioni e sullo sfruttamento delle materie prime, che supera nelle sue dimensioni perfino l’utilizzazione di schiavi nell’antichità, appartiene ai crimini sui quali è fondato il sistema produttore di merci.
Qui, per la prima volta, è praticato in grande stile «l’annientamento per mezzo del lavoro». Ed è questa la seconda fondazione della società del lavoro.
L’uomo bianco, già segnato dall’autodisciplina, può ora sfogare l’odio per se stesso e il suo complesso di inferiorità sui «selvaggi»
Le società contro il lavoro
Chi sono questi «selvaggi» e soprattutto come gestiscono l’economia nelle loro società? È interessante indagare, con l’aiuto di ricerche etnografiche, cosa sia il lavoro nelle «culture altre», in quelle società che in alcune aree geografiche del globo resistono ancora oggi alla civilizzazione occidentale.
Non sono società immobili, ma culture in transito che attraverso l’incontro e lo scontro con la società occidentale hanno adattato, modificato, ibridato i loro modi diversi di organizzarsi in comunità.
Queste società, lungi dall’esprimere esclusivamente fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti. Sono gli incontri fra differenti culture, le migrazioni e le trasformazioni storiche a modellare performance culturali che, al pari delle società, non sono mai prodotti immutabili, anzi si collocano in cantieri sempre aperti e in transiti mai completamente compiuti.
Mi sembra qui opportuno sfatare il mito che nelle «società primitive» vige un’economia di sussistenza che a fatica riesce ad assicurare un minimo per la sopravvivenza della società.
Troppo spesso nei testi accademici si parla di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine, la sopravvivenza del gruppo. Ci viene così proposta l’immagine del «selvaggio» come di un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall’angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere.
A partire dai lavori sul campo che studiano gli aborigeni australiani della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Sahlins, nel suo L’economia dell’età della pietra, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che, lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi supposti selvaggi dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, e spesso non più di tre-quattro ore.
Una produzione oltretutto interrotta da frequenti riposi e che non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo, tanto che l’apporto dei bambini e dei giovani a questa attività economica è quasi nullo.
Gli studi etnologici sugli attuali cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di 3-5 ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di banca notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di 21-35 ore.
Un interessante raffronto è anche proposto da recenti studi sui costi lavorativi tra gli agricoltori di tipo neolitico. Gli Hanunoo, per esempio, donne e uomini, dedicano in media 1.200 ore annue alla coltura itinerante, cioè a dire una media di 3 ore e 20 minuti al giorno.
È un vero e proprio mito quello del selvaggio condannato a un’esistenza quasi animale. Dall’analisi di Sahlins, l’economia dei primitivi non solo non risulta come un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza.
È la nostra società contemporanea quella delle carestie e della povertà diffusa su larga scala. Da un terzo a metà dell’umanità, si dice, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. Questa è l’epoca della fame senza precedenti.
Oggigiorno, nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione. Secondo Pierre Clastres la società primitiva è una struttura che funziona sempre al di sotto delle proprie possibilità e che potrebbe, se lo volesse, produrre rapidamente un surplus. Se questo non accade, è perché le società primitive non lo vogliono.
Aborigeni australiani e Boscimani, raggiunto l’obiettivo alimentare che si erano proposti, cessano di cacciare e raccogliere, poiché sanno che le riserve alimentari sono inglobate in permanenza nella natura.
Sempre Sahlins demistifica, nel suo testo, quel pensiero che assume il produttivismo contemporaneo come la misura di tutte le cose.
Nelle società primitive, il processo lavorativo è sensibile a interferenze di vario tipo e può interrompersi a beneficio di altre attività, serie come il rituale o frivole come il riposo.
La tradizionale giornata lavorativa è spesso breve: se si protrae, subisce frequenti interruzioni. Abbiamo qui la dimostrazione che, se l’uomo primitivo è alieno dallo spirito imprenditoriale e dalle logiche del lavoro salariato, è perché la categoria profitto non lo interessa: se non reinveste, non è perché non concepisce questo atto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che persegue. Nelle comunità nomadi ma anche in quelle sedentarie, dagli amerindiani alle tribù della Melanesia, si cerca di produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni, adottando una tipologia di lavoro ostile alla formazione di un surplus, il che impedisce che una parte della produzione ricada all’esterno dell’ambito territoriale controllato direttamente dal gruppo produttore.
Diversamente da noi, in queste società non si vive per produrre ma si produce per vivere. Il modo di produzione domestico delle società primitive è infatti produzione per il consumo, e nel suo svolgersi si pone un costante freno all’accumulo di surplus, cercando di mantenere il complesso degli immobilizzi a un livello relativamente basso.
Se la produzione è esattamente commisurata ai bisogni immediati della famiglia, la legge che governa il sistema contiene un principio anti-surplus adeguato a una produzione di sussistenza non legata a una retribuzione.
Superata la produzione necessaria, si tende all’arresto del lavoro-produzione. Il dato, etnograficamente documentato da diversi studi antropologici, che le economie primitive sono sotto-produttive, che solo una parte della collettività lavora, oltretutto per breve tempo e a bassa intensità, si impone come una conferma del fatto che le società primitive sono società dell’abbondanza.
Clastres, nel suo Archeologia della violenza, afferma che le società primitive sono società contro l’economia: la socialità primitiva assegna alla produzione un compito preciso, impedendole di andare oltre. Là dove così non è, l’economia si sottrae al controllo della società, e la disgrega introducendo la separazione tra ricchi e poveri: l’alienazione degli uni dagli altri.
Stiamo dunque parlando di società senza economia, o meglio di società contro l’economia. In queste società, non solo le forze produttive non si sviluppano autonomamente, ma nel modo stesso di produrre è deliberatamente affermata una volontà di sotto-produzione.
È ormai chiaro che nelle società primitive non potrebbe emergere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l’attività di produzione coincide del tutto con quella di riproduzione dell’individuo e della specie: il tempo di lavoro è quindi immediatamente tempo di vita.
Il numero di persone presenti su un territorio è regolato da un equilibrio naturale, perciò esse dispongono di tutto quello che serve in base ai bisogni di quel tipo di società.
Siamo noi occidentali, immersi nel capitalismo, a non riuscire a concepire la preistoria umana come un’era di abbondanza.
E confrontando il nostro modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, ci fa comodo immaginarli abbrutiti dalle privazioni, costretti alla spasmodica ricerca di cibo per sopravvivere.
Ovviamente l’uomo primitivo non ha la nostra percezione del tempo. D’altronde, alcune decine di millenni più tardi, anche gli uomini delle società pre-classiche, già arrivate a un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non hanno una concezione del tempo che divida nettamente vita e lavoro.
Per loro, parole come «lavoro» nell’accezione moderna o «tempo libero» non hanno alcun senso. Solo più tardi, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coinciderà con la quotidiana attività di chi svolge funzioni manuali.
Tant’è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo così significa semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.
Esistono molti esempi etnograficamente interessanti per capire il lavoro nelle culture altre.
Per esempio, i Tikopia delle isole melanesiane hanno una concezione del lavoro molto diversa dalla nostra:[…] seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono di casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi, penetrando all’interno, comincia a risalire il sentiero. […] Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta e tre ragazze più grandi. […] Il lavoro è semplicissimo: Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro, lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita…
Il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare Betel […].
L’intera atmosfera è di lavoro inframmezzato a svago a volontà.
Un altro interessante esempio di gestione del lavoro ce lo danno i Kapauku della Nuova Guinea: avendo i Kapauku una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni.
Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando.
Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, mentre le altre si prendono il loro giorno di riposo.
L’ultima testimonianza su cui vorrei soffermarmi è l’economia degli Irochesi (conosciuti anche come Haudeno-saunee), tradizionalmente concentrata sulla produzione collettiva e su elementi misti di orticoltura, caccia e raccolta.
Anche qui il lavoro è totalmente slegato dal surplus o da una paga. Le tribù della Confederazione irochese, presenti insieme ad altri popoli nella regione che ora include lo Stato di New York e la regione dei Grandi laghi, non conoscono il concetto di proprietà privata, e il lavoro è una sfera variegata di mansioni, svolte da tutta la comunità, che non occupa mai troppe ore al giorno. Gli Irochesi sono un popolo prevalentemente dedito al-l’agricoltura, e in particolare si occupano della raccolta delle «tre sorelle» comunemente coltivate dai nativi americani: mais, fagioli e zucca.
Nel corso del tempo, gli Irochesi hanno sviluppato un sistema economico molto diverso da quello ora dominante nel mondo occidentale e caratterizzato da elementi quali la proprietà comune dei terreni, la divisione del lavoro in base al sesso e un commercio basato principalmente sull’economia del dono.
Marcel Mauss, antropologo e sociologo, ha scritto tra le sue varie opere un Saggio sul dono in cui mette in luce che l’invenzione dell’uomo come Homo oeconomicus è in realtà molto recente.
Scrivendo di alcune culture da lui studiate attraverso ricerche etnografiche su culture organizzate socialmente sull’esercizio del dono, Mauss sintetizza il funzionamento di un’economia del dono con tre obblighi: dare, ricevere, restituire.
Questi tre obblighi creano un circolo, in quanto il dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. In tutte le società, sostiene Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo, di instaurare un indebitamento reciproco.
Si crea così un legame, un senso di solidarietà, e alla fine ognuno sa di ricevere più di quello che dà. Nella società irochese, la divisione del lavoro riflette la divisione dualistica tipica della sua cultura: gli dèi gemelli Sapling (est) e Flint (ovest) rappresentano l’idea dualistica di due metà complementari. Tale dualismo è poi applicato all’ambito lavorativo, in cui ognuno dei due sessi acquisisce un ruolo chiaramente definito che completa i compiti dell’altro.
Le donne svolgono il lavoro agricolo, mentre gli uomini espletano tutte le mansioni collegate alla foresta, compresa la fabbricazione di qualsiasi oggetto in legno. Gli uomini sono responsabili della caccia, del commercio e del combattimento, mentre le donne si occupano della raccolta del cibo e dei lavori domestici.
Questa produzione combinata ha reso la fame e le carestie eventi estremamente rari tra gli Irochesi, tanto che i primi europei hanno spesso invidiato il loro successo nella produzione alimentare.
Il sistema lavorativo irochese corrisponde peraltro al loro sistema di proprietà terriera. Infatti, così come condividono la proprietà della terra, gli Irochesi condividono anche il lavoro.
Le donne, per esempio, svolgono i compiti più difficili in gruppi estesi, aiutandosi a vicenda nel lavorare la terra.
Similmente, anche le mansioni maschili, come la caccia o la pesca, sono improntate alla cooperazione.
Il contatto con gli europei, agli inizi del XVII secolo, ha un profondo impatto sull’economia irochese o, meglio, l’espansione degli insediamenti europei sconvolge irreversibilmente l’equilibrio dell’economia irochese.
E già nel XIX secolo gli Irochesi sono ormai confinati in riserve che impongono un radicale adeguamento del loro sistema economico tradizionale. Si trovano, cioè, costretti ad accettare il concetto di lavoro capitalista delle società occidentali.
Questi esempi etnografici di società primitive e culture altre che non hanno vissuto la contraddizione di lavorare per produrre un surplus inutile o moneta sono esperienze interessanti, da non mitizzare, da cui possiamo prendere spunto per criticare l’assurda logica del lavoro salariato che ci annienta quotidianamente.
In un mondo dove tutti, dalla televisione alla radio passando per libri e giornali, non fanno altro che parlare di crisi economica, sovrapproduzione, sottosviluppo, licenziamenti, lavoro precario, flessibilità, questo libro di Philippe Godard è un’ottima riflessione che non solo ci aiuta a liberarci dal concetto di lavoro come fatica e obbligo, ma che rende oltretutto evidente come i lavoratori non potranno mai abolire i rapporti di classe senza abolire il lavoro.
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