Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

di Claudio Bezzi

Piccola polemichetta che mi era completamente sfuggita, proprio a me, che amo tanto queste cose così rivelatrici del mondo, di tutti noi…

Allora: il 1° maggio Roberto Saviano se ne esce con questo tweet:

Naturalmente i giornalacci di destra ci si sono buttati a corpo morto: “L’orrore della fatica. Ora Saviano elogia il fancazzismo”, titola Il giornale (3 maggio); “Saviano paladino dei fannulloni”, rilancia Libero (3 maggio). E va bene. Mi secca un po’ di più che nel trappolone della polemichina ci si sia infilato Pierluigi Battista sull’HuffPost del 5 maggio, perché mi dispiace sempre quando una persona che stimo per certi versi, inciampa su un verso differente. Battista – va chiarito – riprende ampiamente da una critica di Carlo Stagnaro sul Foglio del 3 maggio.

Cosa dice, in pratica, Stagnaro, rilanciato pari pari da Battista? Che – dati alla mano – la vita media degli italiani, ma anche delle nazioni più povere e disgraziate (viene citato il Ciad) è aumentata notevolmente nei decenni; la mortalità infantile è enormemente inferiore; ci potrebbe essere un’obiezione, diciamo così, “qualitativa”:

Saviano potrebbe obiettare: sì, viviamo più a lungo, ma è una vita più povera perché abbiamo meno risorse e meno tempo. Al contrario, il valore dei beni e servizi consumati ogni giorno dall’essere umano medio è cresciuto da 11,7 dollari nel 1990 a 18,2 nel 2019 (al netto dell’inflazione e a parità di potere d’acquisto). L’apporto calorico quotidiano è balzato da 2.181 chilocalorie nel 1961 a 2.947 oggi. Le persone denutrite sono scese dal 13,2 all’8,9 per cento del totale negli ultimi vent’anni (una tendenza che sembra essersi invertita nel periodo più recente, cosa che dovrebbe preoccupare molto). (Stagnaro, sostanzialmente identico in Battista)

Infine il lavoro, che sarebbe poi stato il tema di Saviano: rispetto a un secolo fa si lavora enormemente di meno, non c’è analfabetismo, si gode di tempo libero (sport, letture…).

Conclusione:

Insomma solo pregiudizi, cecità ideologica, odio per il progresso. Basterebbe informarsi un po’, vero Roberto Saviano? Ma informarsi è anche un po’ un orrore. (Battista)

Ecco, c’è del marcio in Danimarca. E mi dispiace davvero. Se di Carlo Stagnaro non mi importa un fico secco, perché non mi pare qualificato per assurgere a maître à penser (è un ingegnere esperto di economia energetica, area dem – QUI la bio), tant’è vero che scrive delle sciocchezze, come sto per argomentare, mi dispiace che Battista, che porta avanti tante giuste battaglie liberali con una sensibilità che appartiene anche a me, abbia scopiazzato l’altro per mettere subito l’etichetta di pregiudizialità e ideologicità a Saviano, un intellettuale che – ho scritto più volte qui su HR – non mi piace particolarmente, spesso non mi rappresenta, ma sì, è uno dei pochi in circolazione.

Il marcio danese riguarda l’uso mistificatorio dei dati; non a caso Stagnaro è un ingegnere, la forma mentis è quella: i dati, le cose, i fatti. E prendere l’età media della vita e la mortalità infantile viene facile, ma così facile! Peccato che non sia stato un argomento toccato da Saviano. Saviano, sia chiaro, si sbaglia di grosso quando dice “più lavoro” (le ore lavorative sono di molto diminuite), “meno tempo” (il tempo libero è specularmente aumentato) e “meno vita” (dove Saviano non intende – ovviamente – che si vive meno, ma che si vive male). E Breton a parte, che non c’azzecca nulla (il citazionismo è una deriva onanistica dei social media, Saviano può certamente farne a meno), le allusioni agli intellettuali che immaginavano un futuro liberato dal lavoro è solo una banale e mal compresa rimasticazione del giovane Marx. Roba buona per un tweet…

Quindi sì, Saviano non ha scritto un luminoso pensiero, ma l’astio col quale gli viene risposto è mortificante; non considero nemmeno i giornalacci di destra, ma il compitino di Stagnaro è falso, e l’invettiva di Battista fuori luogo.

Perché Stagnaro dice il falso (probabilmente senza accorgersene)? Per la semplice ragione che cita i dati che gli convengono. Per spiegarmi rinvio, rapidamente, alle dannosissime classifiche sulle “città in cui si vive meglio”, che per esempio vengono stilate ogni anno dal Sole 24 ore. Queste classifiche prendono in considerazione i) pochi indicatori (sulle migliaia possibili e immaginabili), ii) di cui si hanno numeri e statistiche (ovvero una minimissima parte degli indicatori possibili, e forse anche importanti, ma dei quali non si possono compulsare statistiche perché non ce ne sono). Il risultato è che un ricercatore un pochino esperto e scaltro potrebbe dire, di qualunque città italiana, che è una delle migliori oppure una delle peggiori, a seconda dei dati che ha utilizzato (una spiegazione tecnica l’ho scritta QUI; una analoga su un’altra classifica politico-culturale QUI; una sulla libertà di stampa QUI. Tutte, nessuna esclusa, sono gravate da pesantissimi errori sistematici).

Ora: è indubbio che viviamo molto più a lungo, che mangiamo di più e meglio, che abbiamo tempo libero, siamo più istruiti, il reddito pro capite medio si è di moltissimo innalzato in tutto il mondo, eccetera. Questa è la parte facile dell’analisi. È anche vero che siamo tutti sovrappeso o obesi, dai 50 anni in su viviamo aiutati da un numero crescente di pasticche, la maggior parte della gente consuma il suo tempo libero guardando serie tv o giocando alla playstation, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è alle stelle, abbiamo paura della guerra, dei cambiamenti climatici, dei virus. C’è una generale estraneità sociale, se non un incattivimento, sconosciuti qualche decennio fa; siamo istruiti abbastanza per leggere il titolo di un giornale ma in pochi lo sono quanto occorre per capirlo; e per venire al lavoro – che avrebbe dovuto essere il tema di Saviano – io vedo enormi conquiste positive, che hanno avuto il loro culmine un paio di decenni fa, mentre mi pare che oggi sia diffuso il lavoro precario e di scarsa qualità, mentre la liberazione dal lavoro, vagheggiata dagli intellettuali citati da Saviano, si sta compiendo grazie a un’intelligenza artificiale che creerà scompensi inenarrabili (come ha scritto più volte, anche recentemente, Ottonieri).

Se ci fossero dei dati “oggettivi” sulla felicità, se fosse possibile misurarla veramente, e se avessimo una bella base storica di dati, non sono affatto convinto che la felicità umana sia apprezzabilmente aumentata nell’ultimo secolo, e a occhio e croce direi che è diminuita.

Allora, probabilmente Saviano aveva in mente un pensiero di questo genere, che ha male espresso affidandosi a una forma di comunicazione sbagliata. Male, molto male. Ma se uno Stagnaro qualunque ha trovato l’occasione per farci capire che è bravino e conosce i numerini, soddisfacendo in tal modo il proprio Ego, male, ma molto male, ha fatto Battista, che sulla scorta del precedente ha semplicemente compiuto quell’operazione ideologica (ma di senso opposto) che imputa a Saviano.

Ecco, questo è il male contemporaneo.

Usiamo i brandelli di informazione che abbiamo senza criticità, senza controllo, senza comprensione, come manganelli per colpire chi ha utilizzato altri brandelli di informazione. Capiamo come ci pare, entro i ristretti limiti delle nostre possibili comprensioni, quello che dicono e scrivono altre persone, nei modi utili e necessari per polemizzare, indignarci, accusare, sempre scivolando su argomenti limitrofi ma utili per la nostra differente perorazione (così hanno fatto anche Stagnaro e Battista), e quindi deviando il pensiero del lettore, che perde di vista il punto centrale.

Gli intellettuali sbagliano. Saviano, come già detto, non sempre mi entusiasma ma merita il mio rispetto; Battista mi piace molto in certe battaglie che propone, ma poi inevitabilmente anche lui scivola maldestramente. È normale che accade, perché costoro hanno bisogno di scrivere, pubblicare, apparire, autopromuoversi. Anche loro sono prodotti di un mercato, anche loro hanno contratti da rispettare, mica come Marx, divorato da bubboni ed emorroidi che gli impedivano di sedersi, sporco e ubriacone, mantenuto da Engels.

E allora, ancora una volta, ci dobbiamo chiedere chi siano oggi gli intellettuali. Ma forse è ora di cambiare domanda e chiedersi dove siano i lettori intelligenti.

Contro il lavoro

La prefazione a Contro il lavoro, pubblicato nel 2011 dc da Elèuthera, di Andrea Staid, da me inserito il 29 Giugno 2021 dc. Lo stesso testo è stato da me inserito nella pagina Manifesto contro il lavoro

Contro il lavoro

In fondo, […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.
Friedrich Nietzsche, “Aurora”, 1881

Quando conosci una persona, «che lavoro fai?» è solitamente la seconda domanda dopo «come ti chiami?». Ognuno di noi ha un lavoro, però è difficile spiegare cosa sia.

È un qualcosa che si dovrebbe avere voglia di fare, ma per la maggior parte dei lavoratori questa voglia non c’è.

Avere un lavoro significa fare sempre la stessa identica cosa, fare una cosa uguale o simile tutti i giorni, per decine di anni. E la si fa per ottenere un salario, non perché se ne abbia realmente voglia o la si consideri particolarmente utile. La facciamo perché abbiamo bisogno di reddito.

Dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro, si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti, ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario.

Il lavoro impedisce l’invenzione e la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse e di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.

La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti, la sfacciata richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine deciso da altri non è sempre stata così interiorizzata come lo è oggi.

Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini, letteralmente a forza di torture, al servizio incondizionato dell’idolo «lavoro».

La maggior parte degli uomini non si è dedicata spontaneamente a una produzione destinata a mercati anonimi, e dunque a una più generale economia monetaria. Lo ha fatto solo perché vi è stata costretta dall’avidità degli Stati assolutistici, che hanno monetizzato le tasse aumentandole contemporaneamente in maniera esorbitante.

Non per se stessa la maggior parte degli uomini ha dovuto «guadagnare soldi», ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia.

Così, e non diversamente, si è affermato nel mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale e quindi del lavoro. Con la formazione degli Stati moderni, gli amministratori del capitalismo finanziario hanno cominciato a trasformare gli esseri umani nella materia prima di una macchina sociale necessaria per convertire il lavoro in denaro. Il modus vivendi tradizionale delle popolazioni è stato così distrutto: non perché queste popolazioni si siano spontaneamente e autonomamente «sviluppate» in tal senso, come ci vogliono far credere, ma perché sono diventate il materiale umano che serve a far funzionare la macchina della valorizzazione ormai messa in moto.

I contadini sono stati scacciati con la forza delle armi dai loro campi per far posto alle greggi per i lanifici. Antichi diritti, come quello di cacciare, pescare e raccogliere legna nei boschi, o quello dei terreni comuni, sono stati aboliti.

Ma anche questa trasformazione graduale dei propri sudditi nella materia prima dell’idolo «lavoro», creatore di denaro, non è bastata agli Stati assolutistici, che hanno esteso le loro pretese anche ad altri continenti.

La colonizzazione interna dell’Europa è andata di pari passo con quella esterna, inizialmente nelle due Americhe e in alcune regioni dell’Africa.
Spedizioni di rapina, distruzione e sterminio, fino ad allora senza precedenti, si scagliano con violenza sui nuovi mondi appena «scoperti», tanto più che le vittime locali non sono neppure considerate come esseri umani.

Per le potenze europee, divoratrici di uomini, le culture soggiogate, in questi albori della società del lavoro, sono infatti composte da selvaggi e cannibali. E così si sentono legittimate a sterminarli o a renderli schiavi a milioni.

La vera e propria schiavitù dell’economia coloniale, basata sulle piantagioni e sullo sfruttamento delle materie prime, che supera nelle sue dimensioni perfino l’utilizzazione di schiavi nell’antichità, appartiene ai crimini sui quali è fondato il sistema produttore di merci.
Qui, per la prima volta, è praticato in grande stile «l’annientamento per mezzo del lavoro». Ed è questa la seconda fondazione della società del lavoro.

L’uomo bianco, già segnato dall’autodisciplina, può ora sfogare l’odio per se stesso e il suo complesso di inferiorità sui «selvaggi»

Le società contro il lavoro

Chi sono questi «selvaggi» e soprattutto come gestiscono l’economia nelle loro società? È interessante indagare, con l’aiuto di ricerche etnografiche, cosa sia il lavoro nelle «culture altre», in quelle società che in alcune aree geografiche del globo resistono ancora oggi alla civilizzazione occidentale.

Non sono società immobili, ma culture in transito che attraverso l’incontro e lo scontro con la società occidentale hanno adattato, modificato, ibridato i loro modi diversi di organizzarsi in comunità.

Queste società, lungi dall’esprimere esclusivamente fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti. Sono gli incontri fra differenti culture, le migrazioni e le trasformazioni storiche a modellare performance culturali che, al pari delle società, non sono mai prodotti immutabili, anzi si collocano in cantieri sempre aperti e in transiti mai completamente compiuti.

Mi sembra qui opportuno sfatare il mito che nelle «società primitive» vige un’economia di sussistenza che a fatica riesce ad assicurare un minimo per la sopravvivenza della società.

Troppo spesso nei testi accademici si parla di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine, la sopravvivenza del gruppo. Ci viene così proposta l’immagine del «selvaggio» come di un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall’angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere.

A partire dai lavori sul campo che studiano gli aborigeni australiani della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Sahlins, nel suo L’economia dell’età della pietra, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che, lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi supposti selvaggi dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, e spesso non più di tre-quattro ore.

Una produzione oltretutto interrotta da frequenti riposi e che non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo, tanto che l’apporto dei bambini e dei giovani a questa attività economica è quasi nullo.

Gli studi etnologici sugli attuali cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di 3-5 ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di banca notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di 21-35 ore.

Un interessante raffronto è anche proposto da recenti studi sui costi lavorativi tra gli agricoltori di tipo neolitico. Gli Hanunoo, per esempio, donne e uomini, dedicano in media 1.200 ore annue alla coltura itinerante, cioè a dire una media di 3 ore e 20 minuti al giorno.

È un vero e proprio mito quello del selvaggio condannato a un’esistenza quasi animale. Dall’analisi di Sahlins, l’economia dei primitivi non solo non risulta come un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza.

È la nostra società contemporanea quella delle carestie e della povertà diffusa su larga scala. Da un terzo a metà dell’umanità, si dice, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. Questa è l’epoca della fame senza precedenti.

Oggigiorno, nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione. Secondo Pierre Clastres la società primitiva è una struttura che funziona sempre al di sotto delle proprie possibilità e che potrebbe, se lo volesse, produrre rapidamente un surplus. Se questo non accade, è perché le società primitive non lo vogliono.

Aborigeni australiani e Boscimani, raggiunto l’obiettivo alimentare che si erano proposti, cessano di cacciare e raccogliere, poiché sanno che le riserve alimentari sono inglobate in permanenza nella natura.

Sempre Sahlins demistifica, nel suo testo, quel pensiero che assume il produttivismo contemporaneo come la misura di tutte le cose.

Nelle società primitive, il processo lavorativo è sensibile a interferenze di vario tipo e può interrompersi a beneficio di altre attività, serie come il rituale o frivole come il riposo.

La tradizionale giornata lavorativa è spesso breve: se si protrae, subisce frequenti interruzioni. Abbiamo qui la dimostrazione che, se l’uomo primitivo è alieno dallo spirito imprenditoriale e dalle logiche del lavoro salariato, è perché la categoria profitto non lo interessa: se non reinveste, non è perché non concepisce questo atto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che persegue. Nelle comunità nomadi ma anche in quelle sedentarie, dagli amerindiani alle tribù della Melanesia, si cerca di produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni, adottando una tipologia di lavoro ostile alla formazione di un surplus, il che impedisce che una parte della produzione ricada all’esterno dell’ambito territoriale controllato direttamente dal gruppo produttore.

Diversamente da noi, in queste società non si vive per produrre ma si produce per vivere. Il modo di produzione domestico delle società primitive è infatti produzione per il consumo, e nel suo svolgersi si pone un costante freno all’accumulo di surplus, cercando di mantenere il complesso degli immobilizzi a un livello relativamente basso.

Se la produzione è esattamente commisurata ai bisogni immediati della famiglia, la legge che governa il sistema contiene un principio anti-surplus adeguato a una produzione di sussistenza non legata a una retribuzione.

Superata la produzione necessaria, si tende all’arresto del lavoro-produzione. Il dato, etnograficamente documentato da diversi studi antropologici, che le economie primitive sono sotto-produttive, che solo una parte della collettività lavora, oltretutto per breve tempo e a bassa intensità, si impone come una conferma del fatto che le società primitive sono società dell’abbondanza.

Clastres, nel suo Archeologia della violenza, afferma che le società primitive sono società contro l’economia: la socialità primitiva assegna alla produzione un compito preciso, impedendole di andare oltre. Là dove così non è, l’economia si sottrae al controllo della società, e la disgrega introducendo la separazione tra ricchi e poveri: l’alienazione degli uni dagli altri.

Stiamo dunque parlando di società senza economia, o meglio di società contro l’economia. In queste società, non solo le forze produttive non si sviluppano autonomamente, ma nel modo stesso di produrre è deliberatamente affermata una volontà di sotto-produzione.

È ormai chiaro che nelle società primitive non potrebbe emergere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l’attività di produzione coincide del tutto con quella di riproduzione dell’individuo e della specie: il tempo di lavoro è quindi immediatamente tempo di vita.

Il numero di persone presenti su un territorio è regolato da un equilibrio naturale, perciò esse dispongono di tutto quello che serve in base ai bisogni di quel tipo di società.

Siamo noi occidentali, immersi nel capitalismo, a non riuscire a concepire la preistoria umana come un’era di abbondanza.

E confrontando il nostro modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, ci fa comodo immaginarli abbrutiti dalle privazioni, costretti alla spasmodica ricerca di cibo per sopravvivere.

Ovviamente l’uomo primitivo non ha la nostra percezione del tempo. D’altronde, alcune decine di millenni più tardi, anche gli uomini delle società pre-classiche, già arrivate a un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non hanno una concezione del tempo che divida nettamente vita e lavoro.

Per loro, parole come «lavoro» nell’accezione moderna o «tempo libero» non hanno alcun senso. Solo più tardi, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coinciderà con la quotidiana attività di chi svolge funzioni manuali.

Tant’è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo così significa semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.
Esistono molti esempi etnograficamente interessanti per capire il lavoro nelle culture altre.

Per esempio, i Tikopia delle isole melanesiane hanno una concezione del lavoro molto diversa dalla nostra:[…] seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono di casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi, penetrando all’interno, comincia a risalire il sentiero. […] Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta e tre ragazze più grandi. […] Il lavoro è semplicissimo: Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro, lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita…

Il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare Betel […].

L’intera atmosfera è di lavoro inframmezzato a svago a volontà.

Un altro interessante esempio di gestione del lavoro ce lo danno i Kapauku della Nuova Guinea: avendo i Kapauku una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni.

Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando.
Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, mentre le altre si prendono il loro giorno di riposo.

L’ultima testimonianza su cui vorrei soffermarmi è l’economia degli Irochesi (conosciuti anche come Haudeno-saunee), tradizionalmente concentrata sulla produzione collettiva e su elementi misti di orticoltura, caccia e raccolta.

Anche qui il lavoro è totalmente slegato dal surplus o da una paga. Le tribù della Confederazione irochese, presenti insieme ad altri popoli nella regione che ora include lo Stato di New York e la regione dei Grandi laghi, non conoscono il concetto di proprietà privata, e il lavoro è una sfera variegata di mansioni, svolte da tutta la comunità, che non occupa mai troppe ore al giorno. Gli Irochesi sono un popolo prevalentemente dedito al-l’agricoltura, e in particolare si occupano della raccolta delle «tre sorelle» comunemente coltivate dai nativi americani: mais, fagioli e zucca.

Nel corso del tempo, gli Irochesi hanno sviluppato un sistema economico molto diverso da quello ora dominante nel mondo occidentale e caratterizzato da elementi quali la proprietà comune dei terreni, la divisione del lavoro in base al sesso e un commercio basato principalmente sull’economia del dono.

Marcel Mauss, antropologo e sociologo, ha scritto tra le sue varie opere un Saggio sul dono in cui mette in luce che l’invenzione dell’uomo come Homo oeconomicus è in realtà molto recente.

Scrivendo di alcune culture da lui studiate attraverso ricerche etnografiche su culture organizzate socialmente sull’esercizio del dono, Mauss sintetizza il funzionamento di un’economia del dono con tre obblighi: dare, ricevere, restituire.

Questi tre obblighi creano un circolo, in quanto il dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. In tutte le società, sostiene Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo, di instaurare un indebitamento reciproco.

Si crea così un legame, un senso di solidarietà, e alla fine ognuno sa di ricevere più di quello che dà. Nella società irochese, la divisione del lavoro riflette la divisione dualistica tipica della sua cultura: gli dèi gemelli Sapling (est) e Flint (ovest) rappresentano l’idea dualistica di due metà complementari. Tale dualismo è poi applicato all’ambito lavorativo, in cui ognuno dei due sessi acquisisce un ruolo chiaramente definito che completa i compiti dell’altro.

Le donne svolgono il lavoro agricolo, mentre gli uomini espletano tutte le mansioni collegate alla foresta, compresa la fabbricazione di qualsiasi oggetto in legno. Gli uomini sono responsabili della caccia, del commercio e del combattimento, mentre le donne si occupano della raccolta del cibo e dei lavori domestici.

Questa produzione combinata ha reso la fame e le carestie eventi estremamente rari tra gli Irochesi, tanto che i primi europei hanno spesso invidiato il loro successo nella produzione alimentare.

Il sistema lavorativo irochese corrisponde peraltro al loro sistema di proprietà terriera. Infatti, così come condividono la proprietà della terra, gli Irochesi condividono anche il lavoro.

Le donne, per esempio, svolgono i compiti più difficili in gruppi estesi, aiutandosi a vicenda nel lavorare la terra.

Similmente, anche le mansioni maschili, come la caccia o la pesca, sono improntate alla cooperazione.

Il contatto con gli europei, agli inizi del XVII secolo, ha un profondo impatto sull’economia irochese o, meglio, l’espansione degli insediamenti europei sconvolge irreversibilmente l’equilibrio dell’economia irochese.

E già nel XIX secolo gli Irochesi sono ormai confinati in riserve che impongono un radicale adeguamento del loro sistema economico tradizionale. Si trovano, cioè, costretti ad accettare il concetto di lavoro capitalista delle società occidentali.

Questi esempi etnografici di società primitive e culture altre che non hanno vissuto la contraddizione di lavorare per produrre un surplus inutile o moneta sono esperienze interessanti, da non mitizzare, da cui possiamo prendere spunto per criticare l’assurda logica del lavoro salariato che ci annienta quotidianamente.

In un mondo dove tutti, dalla televisione alla radio passando per libri e giornali, non fanno altro che parlare di crisi economica, sovrapproduzione, sottosviluppo, licenziamenti, lavoro precario, flessibilità, questo libro di Philippe Godard è un’ottima riflessione che non solo ci aiuta a liberarci dal concetto di lavoro come fatica e obbligo, ma che rende oltretutto evidente come i lavoratori non potranno mai abolire i rapporti di classe senza abolire il lavoro.

Lettera a Gad Lerner

In e-mail il 12 Maggio 2017 dc: era ora che qualcuno le cantasse chiare, anche se troppo educatamente, a quel venduto e traditore di giornalista “di sinistra”

Lettera a Gad Lerner

Carissimo Gad Lerner abbiamo visto la sua trasmissione “Operai” di domenica 7 maggio 2017, su Rai Play.

Sa, noi operai alla Fiat Melfi, oggi FCA, lavoriamo il sabato e la domenica notte, per cui il reportage in diretta non l’abbiamo potuto vedere e come noi anche tanti altri operai che lavorano nelle tante fabbriche dell’indotto.

Dopo la lettura di alcuni brani di Marx, facendo riferimento anche al tempo trascorso e al riposo della buonanima di quella vecchia talpa di Karl presso il cimitero Highgate a Londra, lei ha detto che “gli operai non se la passano molto bene”. Se avesse detto il contrario lì, proprio dove è sepolto Marx, lo avrebbe fatto sicuramente rivoltare nella tomba. Noi per primi sappiamo che “non ce la passiamo bene” e sappiamo che pochissimi non operai in questa società comprendono cosa questo concretamente significhi.

Vogliamo dire qualcosa affrontando solo la questione che riguarda la Fiat. Troppo lunga sarebbe la lettera per affrontare tutte le questioni, compresa quella dei tanti lavoratori sfruttati nella logistica.

Lei ha detto che l’operaio in alcuni ambienti non può essere considerato un uomo sfruttato, come è stato in passato ma un “uomo nuovo”, che oggi “ha a che fare con padroni magari gentili”. Sembra proprio che lo dica riferendosi agli ambienti Fiat.

Guardi, ci creda, magari bastasse la sua trasmissione a farci sentire “uomini nuovi”! Noi non ci sentiamo affatto “uomini nuovi”, molti di noi operai a 50 anni sono già consumati, affetti da malattie professionali.

Per avere la sensazione di avere “a che fare con padroni magari gentili”, come lei ha detto nella trasmissione, noi operai, che veniamo bastonati con provvedimenti disciplinari, repressione e licenziamenti, sappiamo bene cosa dovremmo fare: piegare la testa, produrre senza dire niente e magari farci consumare anche prima senza opporre nessuna resistenza a difesa della nostra salute.

Lei parla di padroni, molte volte sono “spesso invisibili”, in verità si fanno vedere rare volte, tanto cosa importa, c’è chi lavora per loro. Quando si fanno vedere è un teatrino, arrivano in fabbrica e tutto deve essere tirato a lucido. La fabbrica deve luccicare. Una presa per i fondelli. Sembra la visita a una caserma.

Questo “padrone invisibile”, quando non viene, manda gli amministratori delegati. Viene il voltastomaco, noi sgobbiamo e loro prendono un sacco di soldi.

Esiste una piramide di responsabili, dal direttore di fabbrica, ai Repo, ai Gestori Operativi, fino all’ultimo capetto che ne fa le veci, compresi i vigilanti, che nella sua trasmissione non si sono visti, e che fanno rispettare la legge del padrone e che come sentinelle o meglio secondini fanno sì che tutto proceda come stabilito. Noi siamo sotto e manteniamo col nostro lavoro tutti quanti!

E come lei ha detto dobbiamo “cambiare natura”, forse al padrone non basta neanche più avere lo schiavo, vuole il “servo”.

La mattina si chiama col telefono o con un sms “il servo” e dopo un’ora questi deve essere in fabbrica. E se non serve, scusi il gioco di parole, può rimanere a casa. Tanto adesso basta una telefonata. Appena la produzione si riduce viene buttato sul lastrico e licenziato. In tante fabbriche dell’indotto è già così. Contratti interinali, contratti a un mese, a quindici giorni, a una settimana, tutto a scadenza come lo yogurt, è tutto così precario.

Con le continue e rinnovate organizzazioni di lavoro, i pezzi saranno anche più comodi metterli e montarli, come ha fatto credere il padrone a lei, ma la produzione è aumentata, i tempi sono sempre più ridotti, e incollati alla linea bisogna rimanere.

Anche le pause hanno ridotto. Se lavori senza lamentarti per i tempi sempre più esigui, magari prendendo antinfiammatori e antidolorifici a 50 anni, in quel caso tutta la piramide di controllo non avrà da ridire e non sarà solo il padrone ad apparire gentile.

Hanno reso le postazioni di lavoro più comode, a detta loro ma, a fronte di operazioni semplificate, ci hanno aumentato a dismisura i ritmi e nessuno che non sia operaio può immaginare cosa significhi ripetere in continuazione, migliaia di volte in un giorno, sempre le stesse semplici operazioni, senza avere neanche la possibilità di andare in bagno al di fuori delle pause ridotte che ci sono concesse. Anche la mensa è stata messa a fine turno. Lavoriamo praticamente ininterrottamente senza avere il tempo di riposarci.

La fabbrica, lei saprà signor Lerner, è lo specchio della società e, come nella società, ci sono posti di lavoro più comodi e leggeri, ci sono quelli pesanti e che ti consumano prima.

Ci sono geometri, ingegneri e architetti, poi carpentieri, muratori e manovali, ovviamente gli ultimi più consumati e meno pagati.

C’è il funzionario del comune, fino all’ultimo impiegato, poi chi pulisce i bagni e chi lava a terra. Inutile dire che la differenza si può ben vedere, anche sui soldi che si prendono a fine mese.

Così è anche la fabbrica, l’abbiamo descritta prima, ci sono impiegati, lavoratori e operai. Gli operai sono quelli più sfruttati, sottopagati e consumati.

In fabbrica ovviamente si debbono fare i conti anche con l’opportunismo operaio, non solo con quello strato di aristocrazia operaia che milita nel sindacato. Operai che tentano, tramite il sindacato filo-padronale, di avere un posticino più leggero.

Lei è andato ad intervistare proprio due lavoratori con la tessera del sindacato Fismic, e conosciamo tanti come loro che, grazie a quella tessera in tasca, pensano di ottenere una postazione di lavoro più leggera e tranquilla. Uno dei due sembrerebbe, dalla sua pagina Facebook, anche simpatizzante di Salvini, certo non c’entra niente con la fabbrica ma qualcosa vorrà pur dire…

Vedrà che, se non l’avevano ottenuto prima un posticino tranquillo, con quei sorrisini e occhiolini al padrone otterranno a breve quel posto dopo aver fatto apparire la fabbrica quasi come un paradiso.

D’altronde molti pensano di farsi gli affari propri, esattamente come quando ci fu la famosa marcia dei 40mila, che poi così tanti non erano, in cui in tanti pensarono che stare sotto l’ascella del padrone li avrebbe beneficiati.

Basterebbe andare a chiedere a tanti di loro che fine hanno fatto. Interessante e istruttiva è quella intervista fatta a una lavoratrice che fece parte di quella famosa marcia https://www.youtube.com/watch?v=UAJmJLgzK8k . Quanti lavoratori pensarono di farsi gli affari propri in quell’occasione e adesso hanno figli e nipoti che sono precari, sottopagati e disoccupati.

Magari nelle prossime trasmissioni, visto che ne sono rimaste ancora parecchie e che siamo ancora alla prima puntata, faccia un salto alla Fiat di Pomigliano, presso il reparto-confino di Nola, dove gli operai che sono stati reintegrati dai giudici ancora non hanno varcato i cancelli della fabbrica perché la legge del padrone va oltre le sentenze dei giudici.

Magari faccia un salto anche a Melfi dove migliaia di operai vengono posti in cassa integrazione, fra cui quelli che hanno problemi di salute a causa dei ritmi di lavoro forsennati, mentre altri più giovani e freschi sono comandati a bacchetta e utilizzati quotidianamente.

Chieda dove si trova l’ex-Itca, dove sono stati deportati operai che non si assoggettavano e che non giravano la testa dall’altra parte quando la Fiat cercava di aumentare i ritmi di lavoro, subendo migliaia di provvedimenti disciplinari.

Se le resta tempo vada anche dagli operai dell’Innse di Milano, quelli della ex-Innocenti che sono da oltre un mese fuori ai cancelli a protestare contro licenziamenti e repressione.

Trovare difensori inaspettati, come ha detto lei nella figura del Papa, serve a poco o niente di fronte alla sete di profitti che i padroni hanno sempre di più. Magari potesse liberarci della nostra condizione di schiavi salariati chi predica da posti comodi e tranquilli!

I padroni hanno dimostrato che il loro sistema non va bene, se ne fregano delle prediche.

Da un lato miliardi di sfruttati, di donne e uomini che non riescono a sopravvivere, dall’altro lato uno strato di privilegiati. Sto parlando dei tempi di oggi e della condizione degli operai di oggi, non quella scritta e analizzata da Marx più di cento anni fa. O forse la situazione è la stessa e il problema della nostra liberazione dal lavoro sotto padrone si pone ancora?

E se guadagnarsi la vita significasse perderla?

In e-mail da Dino Erba l’11 Aprile 2017 dc. Per l’estrema importanza del suo contenuto pubblico l’articolo anche sul mio sito http://www.jadawin.info/ alla pagina “Politica e Società-14.2017 dc”

E se guadagnarsi la vita significasse perderla?

Intervento di Aline sulla critica radicale del lavoro

Paris, Place de la République, 4 maggio 2016

Quando molti soffrono perché non hanno un posto di lavoro o lottano per migliorare le condizioni ed il diritto al lavoro, non è certo facile venire a dire che siamo per la fine del lavoro, per la sua abolizione.

Pertanto voglio precisare da quale punto di vista sto parlando: provengo dal mondo operaio, mia madre prima era una prostituta, mio fratello è morto nella fabbrica AZF (non nell’esplosione) a 46 anni, mio padre, meccanico, è morto a 44 anni e mia madre, diventata parrucchiera, è morta a 62 anni, io sono la sola della mia famiglia, prima di mia figlia, ad aver studiato. Ed anch’io mi sono sentita coinvolta nella glorificazione delle lotte operaie prima di comprendere che chiedere più “potere d’acquisto” significa continuare a mantenere in buone condizioni la catena che lega i nostri piedi ed il nostro cuore!

In seguito, abbiamo cercato di distinguere fra il Lavoro (salariato o artigiano) e l’Attività. Per questo, abbiamo ripreso la definizione di Marx che ci dice che il lavoro è un’invenzione sociale che non è né naturale né trans-storica. Fino a prima della rivoluzione francese un giorno su tre era festa, anche per i contadini. Piccoli richiami storici, come per esempio quello che dopo la prima metà del 18° secolo il lavoro non è stato più un mezzo per soddisfare i bisogni ma è diventato un fine in sé.

Abbiamo perciò dimostrato che il lavoro è il cuore del capitalismo in quanto produce plusvalore a partire dal fatto che non paga all’operaio tutta la sua giornata lavorativa (lavoro non pagato, ovvero plus-lavoro ovvero lavoro astratto) ma soltanto una parte (lavoro concreto). Il lavoro astratto è quel dispendio di energia (la forza lavoro) che si spende nel tempo. Di qui il fatto che il contenuto del lavoro importa ben poco dal momento che è la forza-tempo che si traduce in denaro. Più i capitalisti riducono la parte che viene pagata in salario all’operaio (ed il costo che viene destinato alla sua sopravvivenza, la massa salariale) più il plusvalore aumenta con l’allungamento della giornata lavorativa e con l’abbassamento dei salari!

Cito Marx (ne L’Ideologia tedesca):

«I proletari devono abolire la loro condizione di esistenza, devono abolire il lavoro. È questo il motivo per cui si trovano in diretta opposizione allo Stato… devono rovesciare lo Stato»

Tutto questo lo si sente risuonare nelle nostre orecchie nel corso di “Nuit Debout”? Io non credo.

Oso anche fare una citazione da Il Capitale di Marx (20 anni di lavoro!):

«La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni piú antiche della produzione sociale. Il capitale si produce soltanto laddove il detentore dei mezzi di produzione e di sussistenza incontra sul mercato il lavoratore libero che viene a vendere la sua forza lavoro. Ciò che caratterizza l’epoca capitalista è perciò il fatto che la forza lavoro acquisisce per il lavoratore stesso la forma di una merce che gli appartiene, ed il suo lavoro, di conseguenza, acquisisce la forma di lavoro salariato».

È stato audace, ne convengo, ma se si è compreso questo non si può fare altro che andare verso la fine del lavoro salariato, e nel corso del dibattito sono state proposte delle tappe molto ricche (cooperative, comunità autonome, decrescita, eventualmente un salario universale, anche se questo non mette in discussione le categorie del capitalismo…)

Infine, concludo con le ultime pagine del «Manifesto contro il lavoro» della rivista Krisis (nota mia: non per niente ne ho fatto una pagina di questo blog e una del mio sito!), troppo lungo da leggere qui.

Ci saranno altri tre interventi nel fine settimana dell’8 maggio da parte del gruppo «Critique de la Valeur» che approfondiranno il mio intervento.

Aline

La lotta contro il lavoro è una lotta antipolitica

Dal momento che la fine del lavoro è anche la fine della politica, un movimento politico per il superamento del lavoro sarebbe solo una contraddizione in termini.

I nemici del lavoro portano avanti delle rivendicazioni nei confronti dello Stato, ma non sono un partito politico e non ne costituiranno mai uno. Il fine della politica può essere solo quello della conquista dell’apparato statale per perpetuare la società del lavoro. I nemici del lavoro perciò non vogliono impadronirsi delle leve del potere, bensì distruggerle. La loro lotta non è politica, è antipolitica. Dal momento che nell’era moderna lo Stato e la politica si confondono con il sistema coercitivo del lavoro, essi devono sparire insieme a quest’ultimo. Tutte le chiacchiere a proposito di una rinascita della politica non sono altro che il tentativo disperato di ricondurre la critica dell’orrore economico ad un azione statale positiva. Ma l’auto-organizzazione e l’auto-determinazione sono l’esatto opposto dello Stato e della politica. La conquista di liberi spazi socio-economici e culturali non avviene seguendo le strade tortuose della politica, strade gerarchiche o false, ma con la costituzione di una contro-società.

La libertà non consiste nel lasciarsi schiacciare dal mercato né dal farsi governare dallo Stato, ma nell’organizzare per conto nostro i rapporti sociali – senza l’intromissione di dispositivi alienati. Di conseguenza, i nemici del lavoro devono trovare nuove forme di movimento sociale e devono creare delle “teste di ponte” per riprodurre la vita al di là del lavoro. Si tratta di legare le forme di una pratica di contro-società al rifiuto offensivo del lavoro. I poteri dominanti possono benissimo considerarci dei pazzi perché vogliamo rompere con il loro irrazionale sistema coercitivo! Non abbiamo da perdere altro che la prospettiva di una catastrofe verso la quale ci stanno portando. Al di là del lavoro, c’è tutto un mondo da guadagnare.

Proletari di tutto il mondo, facciamola finita!

fonte:

Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

Nota mia: quest’ultimo discorso mi lascia perplesso. Non so, a questo punto, cosa si intenda nel Manifesto contro il lavoro, peraltro denso di concetti e affermazioni perentorie ed interessanti, per “politica”: per me viene scambiato il regime attuale di governo e amministrazione della società per la politica in quanto tale, e per me non è così.

Jàdawin di Atheia

Pacho, un esempio da non seguire

in e-mail il 9 Gennaio 2017 dc

Pacho, un esempio da non seguire

Sabato 7 gennaio 2017, Eduardo Dellagiovanna (Pacho), un compagno argentino esule politico in Italia dalla fine degli anni 70, ha deciso di morire sparandosi un colpo di pistola nella sua abitazione nel centro di Brescia. Prima di spararsi, Pacho ha inviato via e-mail una lettera a Radio Onda d’Urto e ad alcuni altri amici e amiche (vedi allegato).

È una lettera struggente che ci invita a una profonda e impietosa riflessione.

Pacho era un esule argentino, con un passato peculiare, ma la sua vicenda è simile a quella di molti di noi. E ci riguarda.

La sua morte di è certamente dovuta alle spietate leggi del capitale che, in Italia, sono impersonate dalla signora Fornero & Co.

A questo tragico evento, un sostanziale contributo l’ha anche dato l’IDEOLOGIA DEL LAVORO, un’ideologia dissennata che lega la nostra esistenza al lavoro: senza lavoro non abbiamo diritto di esistere. Chi non lavora NON MANGIA, ovvero muore.

Da quando è scoppiata la crisi (2007), i suicidi dei senza lavoro sono in costante aumento (vedi lo studio dell’Università di Zurigo pubblicato su «Lancet Psychiatry», vol. 2, n. 3, marzo 2015).

È troppo bello, per lorsignori che vorrebbero vederci uscire di scena in punta di piedi, ricorrendo al suicidio, per non turbare la loro società di merda con la vergognosa presenza dei senza lavoro.

Dovrebbe essere ormai chiaro, se non chiarissimo, che tutte le lotte che in questi anni hanno richiesto il LAVORO hanno prodotto solo un crescente peggioramento delle nostre condizioni di lavoro e di vita, generando NUOVA DISOCCUPAZIONE.  E GRANDE SOLITUDINE.

Per uscire da questo desolante destino, non chiediamo il lavoro, PRETENDIAMO il SALARIO GARANTITO, che consenta di far fronte alle nostre esigenze di vita.

E perché la nostra sia un vita veramente dignitosa, rifiutiamo le elemosine del reddito di cittadinanza, reddito di base, ecc. Questi sono solo espedienti per rendere sopportabile, e controllare, la miseria crescente che bussa alle nostre porte.

Non chiedere, riprendere il maltolto.

  1. e., Milano, 9 gennaio 2017.

La lettera di Pacho.

ALL’AUTORITA’ LEGALE CHE CORRISPONDA:

Un giorno (veramente oggi è 07 Gennaio 2017), incominciai a scrivere quello che penso e da qualche maniera vivo da tanto tempo, anni per essere sincero (e faro il tentativo di spiegarlo, provando ad essere sintetico).

Mi permetto, per evitare interpretazione equivoche, di farlo nella mia madrelingua, dove meglio posso  raccontarvi le mie ragioni, anche se non è facile in queste circostanze .Vi chiedo di trovare un interprete o traduttore, Grazie.

Io, Eduardo Dellagiovanna ( più conosciuto con il soprannome “Pacho” dagli amici) sto per compiere 66 anni (il 30/01/2017); dal Gennaio 2015 tra ferie, permessi retribuiti, cassa Integrazione etc. non sto più lavorando. Impossibile proseguire con le collaborazioni esterne (personalmente “collaboratore della Provincia di Brescia nel settore Trasporto pubblico” tramite Cooperativa Sociale, per la legislazione e i tagli di bilancio politici, per tanto disoccupato “ufficiale” dal Giugno 2015 e riscuoto un sussidio di disoccupazione (INPS-Naspi) che terminerà ad Aprile o Giugno del 2017 non lo so esattamente (oggi non mi interessa più); quindi dopo oltre 34 anni di contributi pensionistici allo stato italiano, con le nuove disposizioni legali in materia (grazie sig.ra Fornero!), io resterei 18 mesi senza la possibilità economica di sopravvivere, dato che non avrei entrate fino al momento in cui la legge mi permetterebbe di percepire una pensione.

La mia possibilità reale di poter trovare un’occupazione oggi in Italia, per “arrivare all’età del pensionamento” è così poco probabile come vincere una lotteria senza possedere il numero vincente.

L’ultimo sussidio che ho ricevuto (il 14/12/2016) è stato di 599,00 euro; come potrete immaginare, è totalmente insufficiente. Quando iniziai a riceverlo era di 880 euro (anche se il mio stipendio sfiorava i 1.300 mensili e già mi costava arrivare alla fine del mese, però pagavo tutte le fatture.

Ho letto su Facebook (non so se sia vero) dichiarazioni di un ministro Italiano che con 350,99 euro si può vivere dignitosamente, lo stesso che dichiarò che i giovani andassero all’estero (questo è verità perchè ha ritrattato pubblicamente), senza commenti…., in tal caso provi lui, che mi risulta incassi qualcosa come 10.000 euro mensili, a spiegarmi come faccio io a pagare 380,00 euro di affitto più luce, gas, acqua, telefono, prestito bancario -180,00 mensile- e mangiare per sopravvivere?, gran sorete…mi piacerebbe pubblicare le mie riflessioni-condizioni di vita (per lo meno queste che condivido con milioni di persone in questo paese e nel mondo) ma credo che mi censurerebbero su Facebook; soltanto per vedere quanti “likes” riceverei…e, naturalmente, che mi risponda anche se io non potrò leggere (la sua risposta) perchè per me sarà “time over”…

Se a questa situazione aggiungo il mio stato fisico (la cardiopatia e il tumore alla corda vocale) il mio stato psicologico; la mia separazione e posteriore divorzio nel 1997 (?) la mia lenta ma certa dipendenza dall’alcohol (vino per essere chiaro e al tabacco 25/30 sigarette al giorno) la malattia della mia compagna nel 2006 che è terminata con la sua morte quando aveva compiuto 44 anni di vita (2009), l’infarto risolto con 3 by-pass nel 2010; il suicidio della mia seconda ex-moglie in quello stesso anno, il tumore e operazione del carcinoma nella mia corda vocale nel 2013, la disoccupazione…. credo che la conclusione (mi riferisco alla mia azione) era e sarà evidente, l’unica possibile. Forse l’ho cercata con altri mezzi ma è un cammino molto lento per le mie necessità attuali.

Dopo tutto, cosa mi resta?, che io perda amici stretti e sinceri?; ho perso la mia autostima e ciò ha provocato che il mio istinto di sopravvivenza (eros, crolli davanti al mio thanatos), di conservazione scarseggi; quando mi sveglio, ciò che mi spinge ad alzarmi è la mia vescica piena…e l’appetito dei miei gatti.

Psicologicamente, la mancanza di soluzioni possibili e/o reali mi angoscia e deprime. Ha chiamato la mia banca (o la finanziaria) perchè devo due rate del prestito (saranno 3 il 27/01/2017), le bollette che mi arrivano e confesso, non sono cifre esose (chissà per un politico o un occupato sia differente, ma per me 1.000 o 1.00.000 fa lo stesso: qualunque cifra NON POSSO PAGARLA). Semplicemente perchè non l’ho.

Perdonate l’analisi superficiale e ripetitiva del sistema e cause… ma in quest’ ultimo momento ragiono con i gomiti.

Non ho più voglia di vivere nè incentivi per farlo;la questione sta peggiorando non da giorno a giorno, ma da ora in ora.

Dovrei faremi una visita medica oculistica (è dieci anni che non lo faccio, vedo malissimo!) ma; non ho denaro.

Dovrei consultare un dentista (ho vari elementi in auto-espulsione per non parlare dell’igiene dentale) ma; non ho denaro.

Dovrei rinnovare il mio porto d’armi, il passaporto, il vestiario, etc. non ho denaro.

Le fatture già arrivate che dovrei cancellare a Gennaio 2017 (per non parlare di quelle scadute) ma; non ho denaro per saldarle..

Questa è la mia vita oggi in un paese “democratico” (con una costituzione bellissima e disapplicata) dove un parlamentare (destra-centro-sinistra?) -in 1 mese guadagna quanto io non guadagno in 1 anno (ll NASPI non contempla neppure una tredicesima!) e la sopportazione di questa realtà, situazione (non solo in Italia) diventa per mè troppo pesante. Politiche e sistema di governo decidono come devo morire, se di fame o di debiti; mi hanno tolto l’illusione che la vita anche se difficile è bella; non sopravvivo con il sorriso di un bambino o la bellezza di un tramonto /albeggiare; questo sistema mi impone che se non pago e/o non produco, non servo, per tanto scompaio.

Confesso, non mi hanno vinto i militari argentini, ma adesso non ne posso più. Ho sottostimato il nemico (sistema), non lo credevo, non lo immaginavo tanto inumano e feroce ( como direbbe Galeano). In ogni modo non rinnego assolutamente tutta la mia vita militante in Sudamerica. In Italia ho militato per anni in solidarietà e cooperazione internazionale, ho conosciuto la generosità umana di tanti italiani e non solo, ma generosità reale.

Devo chiedere “aiuto” al municipio?, non credo che sia corretto, la mia esperienza di vita per dirlo in qualche maniera (capitemi, non è un momento in cui penso serenamente per esprimere idee e sentimenti): credo che corretto sia che ciò che mangio e consumo, devo guadagnarmelo!.

Possibilità attuali in Italia nella mia situazione di guadagnarmelo: nessuna!!!

Mi dispiace per quegli amici sinceri che mi circondano; non li nomino per timore a non menzionarli tutti e anche alla proprietaria di questa casa, la dottoressa A.V. alla quale devo 7 mesi di affitto non saldato, realmente non se lo merita ma non sono in condizioni di pagare, semplicemente non ho il denaro nè possibilità di averlo.

Chiedo, (neppure so a chi farlo) immagino ai Servizi Sociali del Municipio della Città di Brescia dove vivo e risiedo, dato che sono indigente e non ho familiari in Italia, di essere cremato nel modo più laico, semplice e rapido possibile, al tempo stesso ripeto, mi piacerebbe che i miei gatti non siano sacrificati.

Nessuno mi ha suggerito questa soluzione; è il sistema vigente e la mia impotenza che mi produce ciò che mi porta a prendere questa mia decisione, l’unica possibile. Questo è tutto, sicuramente i miei amici si incaricheranno di dare comunicazione ai miei parenti che ancora ho in Argentina.

Chiedo a tutti, sinceramente scusa per i problemi reali e burocratici che credo (polizia, pompieri, amici destinatari di questo messaggio, etc.)

Dovranno entrare dalla via e utilizzare qualcosa per tagliare la catenella di sicurezza della porta d’ingresso (1° piano, porta a destra -vetri e sbarre, unica), la seconda possibilità è dalla via, la finestra grande all’altezza del balcone del mio vicino che lascerò aperta. Non voglio lasciare un arma alla mercè di qualunque persona che entri nel mio domicilio. Nella cassaforte (aperta, troverete le munizioni).

 (Recordatevi della mia richiesta per i miei meravigliosi gatti anche se sarà difficile e soprattutto che non li separino dopo 10 anni di vita in comune tra di loro ).

Eduardo (Pacho) Dellagiovanna. – Vicolo del Moro, 15 – primo piano – Città di Brescia (Centro Storico). Per aprire il portone d’ingresso dalla via, dovrete disturbare qualche vicino.

P.S. 1.: Ieri mi ha chiamato la banca: per il 27/12 avrei dovuto pagare 360,00 euro e, è arrivata la fattura dell’energia elettrica e del gas: 108 e qualcosa euro…non li ho.

Mi restano (oggi 06/01/2017) sul mio C/C meno di 1,85 cent di euro e nel portafoglio niente, ho potuto fumare grazie alla generosità di Elizabetta ieri, al pranzo di Beppe e 50,00 euro che mi ha lasciato Gigio la settimana scorsa….più i pranzi pagati da Livio.

Come si potrà apprezzare, non ho scritto questo in un solo giorno, è quasi come un diario.

Termino con un haiku del meraviglioso scrittore uruguaiano Mario Benedetti:

Dopo tutto

la morte è solo un sintomo,

del fatto che ci è stata una vita…

P.S. 2: PiChiedo scusa per lo stato della casa (pulizia, ordine, etc.), como immaginerete, è da tempo ciò che meno mi preoccupa.

Condividete questo ultimo messaggio (se volete) con chi considerate gli possa interessare o cancellatelo.

Ancora grazie e chau a tutti. Oggi 07/01/2017. . .

Pacho.