Laing


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Dal sito http://www.psychiatryonline.it (articolo senza data):

Commento all’incontro con Ronald Laing

Nell’ottobre del 1979 Ronald Laing tenne in Italia una serie di conferenze in concomitanza con l’uscita presso Laterza di un libro intervista curato da Vincenzo Chiaretti dal titolo “Sul folle e il saggio”. Il 19 presso la sede di Mondo Operaio in Roma si tenne la presente conferenza, che vide la partecipazione anche di Antonino Lo Cascio, Giovanni Jervis e Fernada Pivano e che venne registrata e trasmessa da Radio Radicale
INTRODUZIONE

 

Stavo rileggendo alcuni testi di psicoanalisti che si sono occupati di psicosi e stati limite, quando mi è arrivata la proposta di scrivere un commento alla registrazione di un incontro – dibattito con Ronald Laing.

Un commento per una risorsa messa a dispozione di una rivista on-line, con la quale non avevo finora una grande familiarità. Già subito l’accostamento tra un dibattito nella sede di Mondo Operaio, venti anni fa, e un forum on-line, ha stuzzicato la mia curiosità. La curiosità, anche, di tornare in qualche modo in contatto con un mondo psichiatrico dal quale, da alcuni anni, mi sono allontanata, i motivi di questo allontanamento facendo parte di quelle questioni attorno alla psichiatria che si cominciano ad intravedere intorno ai temi lanciati dal forum della rivista.

Tutto ciò a titolo di breve introduzione.

La prima considerazione che mi sento di fare riguarda l’incontro con un documento storico: tale infatti considero questa registrazione. Un documento che è un frammento di una storia, quella della psichiatria di questi ultimi 20 anni in Italia, che deve ancora essere scritta, e che mi auguro, prima o poi, venga scritta.

È una storia che ha bisogno di grande cura nel reperimento di materiali, per poter ricostruire il quadro di vicende che hanno avuto per attori non soltanto i nomi noti della psichiatria e dell’anti-psichiatria, ma anche contributi minori ed esperienze forse più marginali ma, non per questo, meno significative.

Le mie saranno perciò delle considerazioni del tutto personali che potranno avere lo scopo, nel migliore dei casi, di stimolarne altre.

COMMENTO

Colpisce, innanzitutto, l’improvvisazione della traduzione, come se il fatto che Laing parlasse inglese e non capisse la nostra lingua, fosse un dettaglio ininfluente.

Nel corso di gran parte della serata abbiamo potuto ascoltare le semplificazioni, i pressapochismi, gli errori di traduzione, gli scivolamenti in colloquialismi nel momento in cui dovevano venire tradotti termini riferiti a questioni di natura sessuale, ad esempio. Solo verso la fine compare una voce chiara e precisa che ridà corpo alla traduzione, facendo arrivare alle nostre orecchie la voce di un Laing non troppo dissimile dall’originale.

Sembrava fosse presente una diffusa convinzione, condivisa dal pubblico, dal presentatore e da Laing stesso, che non sembra veramente preoccupato che le sue parole vengano correttamente tradotte, che, “più o meno”, ci si capisse lo stesso.

Parecchi anni prima, dieci per l’esattezza, con la traduzione Einaudi di “L’Io diviso”, Laing era stato tradotto e introdotto in Italia.

Sembra più facile il compito di Fernanda Pivano, che tra i tre relatori al dibattito è quella che riserva a Laing il più incondizionato apprezzamento, facendolo rientrare nella schiera degli “eroi” degli anni ’60 e del movimento giovanile che intorno ad essi si era formato. Nella sua esposizione non c’è alcuna contraddizione od intoppo nella catena che lega e unisce alienazione, pacifismo, non violenza, liberalizzazione delle droghe leggere, anticonsumismo, antiautoritarismo, omosessualità, buddismo zen.

In particolare lo zen e la pratica della meditazione, approdo finale della parabola filosofico-spirituale dell’Autore, appaiono come consoni, comprensibili, condivisibili forse, e comunque in linea con le posizioni precedenti. Non ci sarebbe “tradimento” né del suo credo esistenzialista né dei suoi riferimenti al marxismo.

Rileggendo i suoi primi scritti ci appare, come spesso capita, più comprensibile la svolta mistica di Laing, nei confronti della quale prendono le distanze gli altri due relatori.

Laing, nella prefazione all’edizione del ’64 di “L’Io diviso”, afferma che: ”La nostra civiltà non reprime soltanto gli “istinti” o la sessualità, ma anche ogni forma di trascendenza”, facendoci capire che per lui il riferimento a Freud e quello a Jung sono sempre rimasti compresenti e sono stati l’oggetto di un suo personale lavoro di integrazione.

La rivoluzione fenomenologica, dalla quale Laing parte nel suo avvicinamento all’esperienza psicotica, introduce alla dimensione della comprensibilità della psicosi. La parabola che egli compie, nel suo percorso intellettuale, potremmo dire che si muova dalla “comprensione” alla “compassione”. Come lui stesso ci mostra in una della parti finali del suo intervento. All’interno di questo passaggio si attua quel progressivo allontanamento dalla teoria e dalla tecnica, il cui approdo finale sarà appunto un “profetismo” mediato dalle pratiche zen.

Non è mia intenzione procedere qui ad una valutazione critica dell’opera di Roland Laing; quello che mi interessa è invece provare a rimettere a fuoco alcuni degli “atteggiamenti mentali” che all’epoca si erano delineati, all’interno di una parte della cultura psichiatrica, in rapporto all’esperienza della psicosi. Una parte, credo si possa affermare, vasta, che era espressione di quello che possiamo concordare di chiamare il pensiero progressista.

Potremmo parlare, ascoltando ad esempio i due psichiatri presenti, e forzando un po’ le loro rispettive posizioni, di “soluzione poetica” e di “soluzione politica” dell’approccio alla psicosi.

Laing sembra qui, e badando alla cronologia dei suoi scritti, con la pubblicazione di “Nodi”, aver, dopo un lungo percorso, optato per la prima.

Egli non ha mai smesso di considerare se stesso uno psichiatra, forse anche uno psicoanalista, come ricorda Jervis nel secondo capitolo del suo “Manuale critico”, riferendosi al testo di un’intervista rilasciata dal Laing stesso a Le Monde nel marzo del 1975, nella quale egli definitivamente rifiuta l’etichetta di anti-psichiatra.

Jervis, in quel testo e nell’intervento in questo dibattito, ribadisce la centralità di Laing come di colui che “…ha portato il contributo teorico più importante alla evoluzione e alla crisi della psichiatria in questi ultimi anni”. E più avanti afferma: “In più Laing propone orientamenti ideologici che se appaiono “eversivi” non sono per questo sempre riconoscibili come politici da parte di che si sforza di operare in una prospettiva rivoluzionaria” (G.Jervis, Manuale critico di psichiatria, 1975).

Ciò che ha mantenuto saldo il legame tra la psichiatria “di opposizione” in Italia e Laing è stato il rifiuto della sapere psichiatrico prodotto dalla psichiatria “dominante”. Sia Laing che le “avanguardie” psichiatriche italiane erano però depositari di un vasto sapere psichiatrico e filosofico. Il percorso che li ha portati a disfarsi, apparentemente, di questo sapere ha avuto delle ricadute, alla lunga, assai negative tra coloro che hanno accolto solo il punto di arrivo di questo processo.

Jervis è molto critico e molto consapevole dei danni portati dai livelli di semplificazione e d i banalizzazione che la pratica anti-istituzionale aveva prodotto e degli effetti che un certo culto della persona di Laing stavano tuttora producendo. Il suo richiamo alla lettura dei testi e allo studio la dice lunga sul ripensamento di una persona che, dieci anni prima, scriveva, a proposito dei “limiti della presa di coscienza dei degenti” :”…Per questi ultimi è comprensibile che i valori di guarigione continuino ad essere considerati più facilmente secondo le definizioni conformistiche della società esterna, cioè in funzione di un tentativo di integrazione, anziché secondo i valori assai più difficili da elaborare (e più ardui da sostenere anche sul piano dello sforzo psicologici) di una contestazione dell’assetto societario” ( da “L’istituzione negata”, 1968).

In netto contrasto con le posizione allora sostenute, noi sappiamo che Laing non ha mai smesso di curare i pazienti, che credo mai abbia chiamato degenti, utenti o quant’altro. E questo a molti, all’epoca, non piaceva.

Non piaceva che avesse fondato una comunità terapeutica e che curasse i pazienti privatamente, non piaceva il suo misticismo e il suo rifiuto di “schierarsi”.

Rileggendo, per l’occasione, “L’Io diviso” trovo, tra gli altri, il nome di Winnicott nell’elenco di colleghi a cui va il suo ringraziamento. E ritornando su alcuni dei capitoli più belli del libro, ritrovo idee, osservazioni, formulazioni, che per gli psichiatri di formazione psicoanalitica e per gli psicoanalisti che più si sono dedicati ai pazienti gravi, fanno parte di un vasto e complesso terreno comune. E più in particolare ritrovo idee che proprio da Winnicott saranno sviluppate, in ambito psicoanalitico.

La qualità delle angosce psicotiche, il falso Io, il rapporto tra l’Io corporeo e l’Io incorporeo, le esperienze psicotiche nelle persone sane, i paradossi del rapporto con l’altro, l’attenzione all’ambiente familiare e alle prime relazioni e molto altro ancora.

Vorrei ricordare qui solo una frase che mi sembra esemplificativa del modo di pensare di Laing, in rapporto alle problematiche che ci possono interessare come psichiatri. “Però, come l’interprete, il terapeuta deve possedere una plasticità sufficiente per potersi trasporre in un altro modo, un modo strano, e che forse gli è completamente alieno, di vedere il mondo. In questo atto di trasposizione il terapeuta attinge alle proprie potenzialità psicotiche, senza per questo rinunziare alla sua salute mentale. Solo così può arrivare a cogliere la posizione esistenziale del paziente.” ( da“L’Io diviso”).

Come psicoanalisti sappiamo che non si tratta solo di cercare di estendere il campo della coscienza verso dimensioni ignote, attraverso uno sforzo intellettuale, quanto piuttosto di sperimentare su di sé le dimensioni inconsce della psiche che possono farci intravedere quegli stati germinali dell’ ”essere”, per usare la terminologia del Laing esistenzialista, attorno ai quali si gioca il destino della psicosi.

Anche se abbiamo consapevolezza che l’ampliamento della comprensibilità dell’esperienza psicotica non ha, di per sé e in moltissime situazioni, nessun potere risolutorio.

Ritornando all’iniziale problema di traduzione, mi pare si possa dire, a venti anni di distanza, che ci sono stati dei problemi di “traduzione” da parte di molti di coloro che, alla fine degli anni ‘60, hanno introdotto il pensiero di Roland Laing in Italia.

Possiamo pensare che Laing avrebbe potuto sostenere tesi quali:
“L’atto terapeutico si rivela, in questo senso, una riedizione, riveduta e corretta, della precedente azione discriminante di una scienza che, per difendersi, ha creato la “norma”,…..”.
“…le stesse teorie psicodinamiche, che pure hanno tentato di trovare il senso del sintomo attraverso l’indagine dell’inconscio, hanno mantenuto il carattere oggettivo del paziente, anche se attraverso un diverso tipo di oggettivazione: oggettivandolo, cioè, non più come corpo ma come persona”.
“Il rapporta terapeutico non agisce – in realtà- come una nuova violenza, come un rapporto politico tendente all’integrazione, nel momento in cui lo psichiatra – come delegato della società- ha il mandato di curare i malati attraverso atti terapeutici che hanno l’unico significato di aiutarli ad adattarsi alla loro condizione di “oggetti di violenza”? “ (da “L’istituzione negata”, a cura di F.Basaglia).

Dobbiamo veramente stupirci, adesso, che così poco sia stato fatto per creare una valida alternativa ai manicomi?

L’atteggiamento profondamente anti – ideologico di Laing era quanto di più lontano ci fosse da certi ambienti dell’anti-psichiatria italiana, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70.

Se ne sentono gli echi anche durante il dibattito e, a proposito dell’”astratta ideologia” possiamo notare come sia l’unico momento in cui Laing risponde al suo interlocutore in tono alterato.

Ma è il 1979 e non il 1968: siamo di fronte alla parabola discendente della frange più estreme del movimento anti-psichiatrico e il “pensiero progressista” a cui Jervis si riferisce è già un pensiero in crisi.

Per Laing è stato più facile non essere preso nelle maglie di un pensiero totalizzante: la tradizione filosofica e la tradizione politica del suo Paese gli hanno permesso di mantenersi al riparo, pur assumendo posizioni radicali, dall’estremismo ideologico.

È bene ricordare che anche nel nostro Paese, che pure scontava in campo culturale e scientifico una notevole arretratezza, è esistita, proprio all’interno del pensiero progressista, già negli anni ’60 e, a maggior ragione, negli anni ’70, la possibilità di seguire una via intermedia, tra la “soluzione poetica” e la “soluzione politica” dell’approccio alla malattia mentale.

Questa via è quella di coloro che prima di tutto non hanno mai smesso di curare i pazienti, nel senso, prima di tutto, del prendersi cura, “to take care”, oltre a farsi essi stessi curare, e, in secondo luogo, hanno mantenuto saldo il legame con le aperture prodotte dalle scoperte freudiane, scegliendo di ampliarne il campo in direzione sia teorica, sia tecnica, sia clinica.

Certo, Roland Laing ha perseguito la sua vocazione terapeutica partendo da un rifiuto della teoria e della tecnica, sostituite da un approccio spirituale alla realtà della sofferenza umana. Più che di un rifiuto, si tratterebbe piuttosto di una messa tra parentesi, come egli stesso ci fa capire quando dice che, nel suo rapporto con il paziente, le teorie rimangono nel back-ground, atteggiamento che peraltro, con le dovute differenze, non può essere che condivisibile.

È a proposito del rapporto tra teoria, tecnica e clinica che noi sentiamo rispetto a lui maggiore distanza.

Per quello che lo riguarda mi pare che non ci sia stato che lo sviluppo coerente del pensiero che già nel 1959 egli esprimeva nei confronti della teoria, e di quella psicoanalitica in particolare, e del misticismo.

“Ed è molto forte il contrasto fra parole ben considerate come “oggettivo” e “scientifico”, e parole mal considerate come “soggettivo”, “intuitivo”, e, peggiore di tutte, “mistico” “. (R. Laing, “L’Io diviso”, Einaudi, 1969)

“Il maggior psicopatologo è stato Freud: come un eroe mitologico, egli è disceso agli “inferi”, e si è trovato di fronte a terrori agghiaccianti, ma portava con sé la sua teoria, come una testa di Medusa, e con essa li ha trasformati in pietra. Noi, suoi seguaci, abbiamo il vantaggio della conoscenza che egli ci riportò indietro con sé e ci consegnò.

Freud sopravvisse. Tocca a noi vedere se riusciamo a sopravvivere senza far ricorso ad una teoria che è, in qualche misura, uno strumento di difesa”. (idem).

È qui chiaramente espresso ciò che ci unisce a Laing e ciò che ci divide da lui.

Quanto al misticismo e alla trascendenza è mio personalissimo parere che la questione sia totalmente aperta.

Voglio solo ricordare che tra le ultime parole tracciate da Freud sulla carta troviamo una nota che suona :” 22.Mistica: l’oscura autopercezione del mondo che è al di fuori dell’Io, dell’Es” (S. Freud, “Risultati, idee, problemi”, 1938).

 


Dal sito Riflessioni http://www.riflessioni.it/angolo_filosofico/testi/Uomo_Attuale.htm ecco un’interessante trattazione delle tematiche dello psichiatra Ronald Laing, anche se inficiata, ad una prima lettura, da una visione religiosa e spirituale dell’autore.

***

“la relazione presentata non ha altro intento che quello di offrirsi come luogo di dialogo e conoscenza di e tra voci autorevoli della tradizione spirituale cristiana, delle vie sapienziali e della cultura, con l’unico scopo di creare affezione per la lettura ed offrire stimoli e riferimenti per un personale percorso di approfondimento diretto sui testi indicati che l’autore si è limitato a raccogliere ed ordinare”.

 

L’UOMO ATTUALE secondo Ronald D. Laing

di Beppe Fragomeni

(Brani tratti liberamente da La politica dell’esperienza, Feltrinelli Editore, Milano, 1968)

L’esteriore, separato da ogni illuminazione proveniente dall’interiore, vive nelle tenebre; la nostra  è un’età  delle tenebre:  vivere nelle tenebre  dell’esteriorità  è  vivere in stato di peccato, ossia di alienazione, di estraniazione dalla luce interiore

R.D. Laing

Questo libro incomincia e finisce con l’argomento della persona.

Sono in grado oggi gli esseri umani di essere persona?

Può un essere umano essere veramente se stesso con un altro uomo o con una donna?

Prima di essere in condizioni di poter porre un interrogativo ottimistico come il seguente: “In cosa consiste un rapporto tra  persone?”  bisogna che ci chiediamo se un rapporto tra persone sia possibile;  o, meglio, se, nella nostra situazione attuale, sono possibili delle persone.

Ciò che ci interessa è la possibilità dell’uomo, ma questo interrogativo può essere formulato solo nei suoi vari aspetti: è possibile l’amore?, è possibile la libertà?

Della voce persona l “Oxford English Dictionary” fornisce otto significati: – parte sostenuta in un’opera di teatro, o nella vita reale;- individuo della razza umana;-  corpo di un essere umano vivente;-  individuo umano o persona giuridica o ente giuridico con diritti e doveri riconosciuti dalla legge;-  in teologia, ognuna delle tre parti della trinità di Dio;-  nella grammatica, ognuna delle tre classi di pronomi e delle corrispondenti distinzioni nelle forme verbali che servono a denotare la persona che sta parlando, ossia in prima persona, seconda persona, terza persona ecc.;- in zoologia, ogni individuo di un gruppo o di una colonia, ogni singolo esemplare.

Dato che in questa sede ci occupiamo di esseri umani, le due accezioni che ci riguardano di più sono quelle di persona come personaggio, maschera, ruolo teatrale e di persona come io reale.

Sia che tutti gli esseri umani, o solo alcuni, o nessuno siano delle persone, desidero definire la persona in un modo doppio:

 ·  in termini di esperienza come un centro di orientamento dell’universo obiettivo;

·   in termini di comportamento come l’origine degli atti.

L’esperienza personale trasforma un certo campo dato in un campo di intenzioni e di azione: la nostra esperienza può essere trasformata solo attraverso l’azione.

È allettante e facile considerare le “persone” solo come degli oggetti separati nello spazio che si possono studiare come qualsiasi altro oggetto naturale. Ma, come Kierkegaard osservò che la coscienza non si può trovare analizzando al microscopio cellule cerebrali, così le persone non si possono rinvenire se le si studia come dei meri oggetti.

Una persona è quell’io o quel voi, quell’egli o quell’essa da cui un oggetto viene sperimentato.

Questi centri di esperienza, queste origini degli atti vivono in mondi totalmente irrelati di loro privata composizione?

Ognuno deve rifarsi, a questo punto, alla propria esperienza personale. La mia esperienza ed il mio agire si attuano su di un piano sociale di reciproca influenza e di interazione.

Esperimento me stesso, identificabile come Ronald Laing da me stesso e dagli altri, come oggetto della esperienza e degli atti altrui, e che si riferisce a quella persona che io chiamo “me” come “voi”  o “lui”, o  che fa parte di un gruppo come “uno di noi”,  “uno di loro”  od “uno di voi”.

Questa caratteristica dei rapporti tra persone non risulta dalla correlazione del comportamento di oggetti non personali. (…)

Si può osservare la gente dormire, mangiare,  camminare e parlare ecc. in modi relativamente prevedibili. Noi non dobbiamo accontentarci solo di una osservazione di questo genere. L’osservazione del comportamento va estesa per mezzo di inferenze per dedurre attributi circa l’esperienza. E soltanto quando siamo in grado di fare questo che possiamo incominciare veramente a costruire quel sistema di esperienza e comportamento che è la specie umana.

L’uomo d’oggi vive uno stato di  “normale” alienazione dell’essere interiore a favore di una esteriorità falsa ed  oscura.

L’essere ed il non essere costituiscono il tema centrale di tutte le filosofie, sia orientali che occidentali: queste due parole non rappresentano degli arabeschi verbali, fatui ed innocui che nel mestieristico filosofeggiare dei decadenti.

Abbiamo paura di avvicinarci all’immensurabile e insondabile mancanza di fondamento del tutto, ma “non c’è nulla di cui avere paura” (…)

Noi esperimentiamo gli oggetti della nostra esperienza come là fuori nel mondo; l’origine della nostra esperienza sembra situarsi al di fuori di noi stessi.

Nell’esperienza creativa l’origine delle immagini, delle forme, dei suoni, viene da noi sperimentata come interna e tuttavia al di là di noi stessi: i colori provengono da una fonte di pre-luce in sé oscura, i suoni dal silenzio, le forme dall’informe.

Questa luce preesistente, questo pre-suono, questa pre-forma, non sono nulla, eppure costituiscono l’origine di tutte le cose create.

Noi siamo separati e congiunti gli uni agli altri fisicamente: le persone, in quanto esseri dotati di un corpo, si rapportano reciprocamente nello spazio; e inoltre siamo divisi ed uniti dai nostri diversi punti di vista, dalla diversità di educazione, di ambiente, di organizzazione sociale, dalla adesione a gruppi, associazioni, ideologie, da interessi economico-sociali di classe, e dai diversi temperamenti.

Queste “cose”  di natura sociale che ci uniscono, sono al contempo altrettante cose, altrettante finzioni sociali che ci separano.

Ma se potessimo lasciar perdere tutte le esigenze e le contingenze, e rivelarci reciprocamente la nostra nuda presenza?

Se togliessimo di mezzo ogni cosa, tutte le vesti, le maschere, le stampelle, le truccature, e i progetti in comune, e quei giochi che ci forniscono il pretesto per delle circostanze camuffate da incontri a livello umano, se potessimo incontrarci veramente, se si verificasse un simile evento, una felice coincidenza tra esseri umani, cosa ci separerebbe allora?

Siamo esseri fra  i quali c’è il nulla, non c’è alcunché che ci unisca, nessuna cosa. Ciò che c’è veramente fra di noi non si può esprimere con il nome di cose che ci si frappongono. Il fra  è in sé un nulla.

Se disegno una forma su di un pezzo di carta, compio un atto che scelgo in base all’esperienza della mia situazione; cosa ho esperienza di fare, e qual è la mia intenzione?

Tento di esprimere qualcosa a qualcuno (comunicazione), sto ricomponendo gli elementi di qualche caleidoscopico mosaico interno (invenzione), sto cercando di svelare i caratteri di nuove Gestalten che emergono (rivelazione)?

Sono sorpreso del fatto che appaia qualcosa che non esisteva prima, e che queste linee non ci fossero sulla carta prima che io ve le mettessi? A questo punto ci stiamo accostando all’esperienza della creazione dal nulla.

Ciò che si chiama una poesia è forse una miscela di comunicazione, invenzione, fecondazione, rivelazione, produzione, creazione. Attraverso la contesa delle intenzioni e dei motivi, si è verificato un miracolo, c’è qualcosa di nuovo sotto il sole; l’essere è emerso dal non-essere, una sorgente è scaturita da una roccia.

Senza il miracolo non sarebbe accaduto nulla.

Le macchine stanno già diventando più capaci di comunicare tra loro di quanto non lo siano gli esseri umani.

La situazione si fa comica: cresce sempre più l’interesse per la comunicazione in sé, e diminuisce l’interesse a comunicare.

Noi non siamo un gran che interessati alle esperienze del “colmare una lacuna” di una teoria o di una conoscenza, del chiudere una falla, del riempire uno spazio vuoto:  non si tratta di immettere qualcosa  nel  nulla, ma di creare qualcosa dal  nulla, ex nihilo. Il nulla da cui emerge la creazione, nella sua maggiore purezza, non è uno spazio vuoto, od un vuoto lasso di tempo.

Pervenuti al non-essere ci troviamo fuori della portata di ciò che il linguaggio può affermare, ma siamo in grado di indicare, per mezzo del linguaggio, perché il linguaggio non può dire ciò che non può dire. Non posso dire ciò che è indicibile, ma dei suoni possono farci udire il silenzio. Restando nei limiti del linguaggio, è possibile far capire quando si rendono necessari i puntini di sospensione….E tuttavia nel far uso di un vocabolo, una lettera, un suono, OM, non si può prestare un suono al silenzio, o nominare l’innominabile.

Quel silenzio che precede la formazione e viene espresso dentro e attraverso il linguaggio, non può essere espresso dal linguaggio; ma il linguaggio può essere usato per dire cosa esso non sa dire, tramite i suoi interstizi, le sue vacuità e deficienze, tramite la struttura di parole, sintassi, suoni, e significati. Le modulazioni di tono e di volume delineano una forma precisamente senza fornire le informazioni mancanti negli spazi tra le linee, ma sarebbe grave errore scambiare le linee per la forma, o la forma con ciò che essa rappresenta.

La frase “il cielo è azzurro” ci informa che vi è un sostantivo “cielo” il quale è “azzurro”. Questa sequenza di soggetto-verbo-oggetto, nella quale  “è”  funge da copula che unisce il cielo e l’azzurro, costituisce un nesso di suoni, sintassi, segni e simboli in cui siamo elegantemente turlupinati e che,  al tempo stesso in cui si affaccia a quell’ineffabile cielo-azzurro-cielo, ci separa da esso. Il cielo è azzurro e l’azzurro non è cielo, dunque il cielo non è azzurro. Ma quando diciamo “il cielo è azzurro”, diciamo anche “il cielo” “è“: il cielo esiste ed è azzurro.

L’ ”è”  serve a congiungere tutto e al tempo stesso non è alcuna delle cose che congiunge.

Nessuna cosa unita dall’ “è” può qualificarsi essa stessa come “è”; l’“è” non è questo, né quell’altro, né cosa alcuna, e tuttavia condiziona la possibilità di tutto.  L’ “è”  è quel nulla per cui tutto è; in quanto non è alcuna cosa, è ciò per cui tutte le cose sono. E ciò che condiziona la possibilità di ogni cosa ad essere, è che essa sia in relazione con ciò che essa non è.

Questo equivale a dire che il fondamento dell’essere di tutte le cose è il rapporto che c’è fra di loro; questo rapporto è l’ “è”, l’essere di tutto, e l’essere di tutto è esso stesso un nulla.

L’uomo crea trascendendosi col rivelarsi a se stesso, ma ciò che crea, da cui parte e a cui arriva, argilla, vaso e vasaio, è sempre non-io: egli è il testimone, il medium, il pretesto di un accadimento che la cosa creata rende manifesto.

L’uomo non è essenzialmente impegnato nella scoperta, nella pro-duzione, o anche nella comunicazione e nell’invenzione di ciò che trova:  il suo atto è quello di permettere all’essere di emergere dal non-essere.

L’esperienza dell’essere realmente il veicolo di un continuo processo creativo pone al di là di depressioni, persecuzioni o vanaglorie, al di là anche del caos e del vuoto, proprio dentro il mistero di quel continuo irrompere del non-essere nell’essere e può costituire l’occasione di quella grande liberazione che è il passare dall’avere paura del nulla al sapere che non c’è nulla di cui avere paura.

Nella nostra alienazione “normale” dall’essere, una persona che sia pericolosamente consapevole del non-essere di ciò che noi scambiamo per essere  (gli pseudo-bisogni, gli pseudo-valori, le pseudo-realtà di quell’endemico inganno delle opinioni sulla vita, la morte ecc.) ci fornisce, nell’epoca in cui viviamo, quegli atti creativi che noi disprezziamo e di cui abbiamo estremo bisogno.

Le parole di una composizione poetica, i suoni in movimento, il ritmo che scandisce lo spazio, sono tentativi di ricuperare un significato personale e rinchiuderlo in un tempo ed in uno spazio personali, al di fuori degli spettacoli e dei suoni di un mondo spersonalizzato e disumanizzato;  sono teste di ponte gettate in territorio nemico, sono atti insurrezionali.

La loro sorgente è quel Silenzio che c’è al centro di ognuno di noi. In qualsiasi momento o luogo una tale costellazione sonora o spaziale si stabilisce nel mondo esterno, la forza che essa racchiude genera nuove linee di forza i cui effetti si avvertono per secoli.

Il soffio creativo “viene da una regione dell’uomo in cui l’uomo non può discendere neppure se Virgilio stesso lo accompagna, perché Virgilio non potrebbe scendere fin là”.

Questa regione, la regione del nulla, del silenzio dei silenzi, è essa l’origine: noi dimentichiamo che siamo là interamente ed in ogni momento.

Non c’è da stupirsi che arabeschi che misteriosamente materializzano verità matematiche cui pochissimi possono spingere lo sguardo, così belli e raffinati come sono, siano l’annaspare di un uomo che sta per annegare.

I problemi che ci interessano in questa sede sono solo quelli dell’essere e del non-essere, dell’incarnazione, della nascita, della vita e della morte.

La creazione ex nihilo è stata giudicata impossibile persino a Dio, ma noi ci occupiamo di miracoli. Dobbiamo udire, come dice Lorca, la musica delle chitarre di Braque.

Per un uomo alienato dalla propria sorgente interiore, la creazione nasce dalla disperazione e finisce nel fallimentoma quest’uomo non ha percorso la via che conduce alla fine del tempo e dello spazio, alla fine dell’oscurità e della luce: non sa che dove tutte queste cose finiscono, proprio là esse incominciano.

Propongo (ora) di cercare il motivo dello stato di confusione in cui viviamo, in una frase di Heidegger:

“il Terribile è già accaduto”.! (…)

E già accaduto a tutti noi: siamo in un mondo in cui l’interiore è già scisso dall’esteriore.

Non può certo accadere che l’interiore divenga esteriore e l’esteriore interiore solo grazie alla riscoperta del mondo “interiore”: essa costituisce solo un inizio.

Noi siamo un’intera generazione di esseri umani talmente estraniata dal mondo interiore che vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, anche se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo; quantificare l’estasi e l’agonia del cuore in un mondo in cui, quand’anche il mondo interiore venga per la prima volta scoperto, noi non possiamo che sentirci defraudati e derelitti, giacché senza il mondo interiore l’esteriore perde ogni significato e senza l’esteriore l’interiore perde ogni realtà.

Siamo nella necessità di conoscere relazioni e comunicazioni, ma questi schemi di comunicazione, disturbati, riflettono il disordine dei nostri mondi personali di esperienza sulla cui repressione, negazione, scissione, introiezione, proiezione, dissacrazione e profanazione generale si fonda la nostra civiltà.

Quando accade che i nostri mondi personali siano riscoperti e che si permetta loro di ricomporsi, scopriamo sulle prime uno scempio:

– corpi morti a metà, genitali dissociati dal cuore, cuori scissi dalla testa, testa avulsa dai genitali. Nessuna unità interiore, solo senso della continuità quanto ne basta per affermare l’identità, questo moderno oggetto di idolatria. Corpo, mente, spirito, strappati gli uni dagli altri dalle interne contraddizioni, scagliati in diverse direzioni; l’Uomo staccato dalla propria mente, ed egualmente tagliato fuori dal proprio corpo, creatura mezzo impazzita in un mondo folle.

Quando il Terribile è già accaduto, non possiamo attenderci altro se non che l’Oggetto  si faccia eco esterna delle distruzione già occorsa interiormente.

Allo scopo di razionalizzare la nostra devastazione con una falsa consapevolezza assuefatta, e di eliminare la nostra facoltà di vedere chiaramente quello che ci sta sotto il naso e di immaginare cosa ci sia un po’ più in là, abbiamo dovuto distruggere la nostra capacità mentale.

Incominciamo a farlo con i bambini; si impone la necessità di catturarli in tempo: senza il più completo e rapido lavaggio del cervello le loro sporche menti vedrebbero chiaro nei nostri sporchi traffici. I bambini non sono ancora degli stupidi, ma noi li facciamo diventare degli imbecilli come noi, meglio se con degli alti quozienti di intelligenza.

Fin dal momento della nascita, quando un bimbo dell’età della pietra si trova a fronteggiare una madre del ventesimo secolo, il bambino è sottoposto a quelle costrizioni esercitate con violenza, che vengono chiamate amore, così come lo erano stati sua madre e suo padre, e i loro genitori, e i genitori dei loro genitori. Queste pressioni sono intese precisamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, è coronata da successo: all’epoca in cui il nuovo essere umano ha circa quindici anni, ci ritroviamo con un essere simile a noi, con una creatura semi-folle, più o meno integrata ad un mondo pazzo. Questa è, ai nostri tempi, la norma. (siamo  distanti dalla psicologia che cerca invece la normalizzazione dell’uomo a questo mondo).

Amore e violenza, a rigore, sono polarità opposte. L’amore lascia vivere il prossimo, ma con interesse ed attaccamento; la violenza cerca di limitare l’altrui libertà, di costringere il prossimo ad agire come vogliamo noi, ma, in ultima analisi, con disinteresse ed indifferenza verso l’esistenza e il destino degli altri.

Con questa violenza mascherata da amore stiamo riuscendo a distruggerci.

(…) In molti scritti contemporanei sull’individuo e sulla famiglia si parte dal presupposto che vi sia confluenza non del tutto ardua, per non dire un’armonia prestabilita, tra natura ed educazione. Da entrambe le parti possono essere necessarie delle concessioni, ma tutto va per il meglio per coloro che non chiedono altro che sicurezza e identità (…).

(In famiglia) il linguaggio è quello di un consiglio di amministrazione. Per esempio: “La madre può investire opportunamente tutte le sue energie nell’occuparsi del bambino quando il padre provvede alla base economica, alla posizione sociale ed alla protezione della famiglia. E inoltre può meglio limitare la carica psichica dei suoi istinti materni verso il figlio se i suoi bisogni di donna sono soddisfatti dal marito”.

“La metafora economica cade a proposito: la madre “investe” nel suo bambino. Ma ciò che è più illuminante è la funzione del padre, il quale deve provvedere alla base economica, alla posizione sociale ed alla protezione, nell’ordine”.

Ricorre frequentemente l’accenno alla sicurezza, alla stima degli altri. Si suppone, quale ragione di vita, uno debba volere “ottenere il piacere della stima degli altri”, altrimenti è uno psicopatico (T. Lidz, The family and Human Adaptation, Londra 1964).

“Queste affermazioni in certo senso sono vere: descrivono la creatura spaventata, domata, abbietta che siamo ammoniti ad essere se vogliamo essere normali, offrendoci l’un l’altro reciproca protezione dalla nostra stessa violenza; la famiglia come “protection racket”.

Vista in questi termini  “la  funzione della Famiglia è quella di reprimere l’Eros, di produrre una falsa sensazione di sicurezza, di negare la morte con l’evitare la vita, di togliere di mezzo la trascendenza, di far credere in Dio evitando l’esperienza del Vuoto, di creare, in breve, l’uomo ad una dimensione; di incoraggiare il rispetto, il conformismo, l’obbedienza, di mettere i bambini fuori combattimento, istillando la paura di fallire, stimolando il rispetto per il lavoro (in quanto fonte di reddito), provocando il rispetto della “rispettabilità” (conquistata secondo i criteri di cui sopra).

Così facendo, “gli uomini non divengono ciò che la natura (ed il buon Dio) li ha destinati ad essere, ma ciò che la società fa di loro…

I sentimenti generosi vengono, per così dire, rinsecchiti, cauterizzati, strappati, amputati per renderci adatti al nostro approccio col mondo (mai con Dio), un po’ come fanno certi mendicanti con i loro figli: li storpiano e li mutilano per renderli adatti alla loro futura posizione nella vita”.

                “Stanno giocando un gioco

                       Stanno giocando a non giocare un gioco.

                       Se mostro loro che li vedo giocare,

                       infrangerò le regole e mi puniranno.

                       Devo giocare al loro gioco

                       di non vedere che vedo il gioco”.

La famiglia è in primo luogo lo strumento più comunemente usato per ciò che viene definito socializzazione, e consiste nel far sì che ogni nuova recluta della razza umana si comporti e faccia esperienza sostanzialmente nello stesso modo di quelli che sono già stati al mondo.

Siamo ridotti tutti quanti a dei  Figli della Profezia alla rovescia che hanno appreso a morire nello Spirito ed a rinascere nella carne.

Questo si chiama anche vendere i diritti della primogenitura per un piatto di lenticchie”.

Le nostre azioni corrispondono alla nostra esperienza del mondo: noi ci regoliamo alla luce di ciò che secondo noi una situazione comporta o non comporta; ossia, ciascuno si occupa più o meno di ontologia, ha delle opinioni personali su ciò che  è  e  su ciò che non è.

(Perciò) la fonte non si è esaurita, la fiamma splende ancora, il fiume continua a scorrere, la sorgente a scaturire, la luce non si è affievolita.

Ma tra noi e Dio vi è un velo spesso come cinque metri di solido cemento armato: Deus absconditus, ossia, Dio che noi abbiamo nascosto.

Dobbiamo cercare, a livello intellettivo, emotivo, interpersonale, organizzativo, intuitivo, teoretico, di farci strada con la dinamite attraverso questo muro massiccio: da questo lato del muro non vi   sono certezze, né garanzie (…).

Viviamo in un mondo terra terra: per adattarsi ad esso, il fanciullo abdica alla sua. (L’enfant abdique son extase, Mallarmè).

Il vero equilibrio comporta in un modo o nell’altro la dissoluzione dell’io normale,  di quel falso io abilmente adattatosi alla nostra aliena realtà sociale.

I più fanno esperienza di sé e degli altri in modi che definirò egoici: ossia, esperimentano il mondo e se stessi sulla base di una salda identità, di un io-quì  contrapposto ad un voi-là , in un tessuto di determinate strutture fondamentali dello spazio e del tempo, condivise dagli altri membri della loro società.

Questa esperienza ancorata all’identità, vincolata allo spazio-tempo, è stata studiata in sede filosofica da Kant, e poi dai fenomenologi, per es. da Husserl  e  da Marleù-Ponty.

La sua relatività storica ed ontologica è una cosa di cui qualsiasi studioso della situazione umana può pienamente rendersi conto; la sua relatività culturale, economico-sociale, presso gli antropologi è diventata un luogo comune e per i marxisti ed i neo marxisti addirittura una banalità.

Eppure, a causa delle conferme e dei consensi che assicura tra i nostri simili, ci da un senso di sicurezza ontologica la cui validità, secondo quanto sperimentiamo, si sostiene da sé, nonostante il fatto che noi sappiamo bene, attraverso la metafisica, la storia, l’ontologia, l’economia sociale e lo studio della civiltà, come questo valore apparentemente assoluto non sia che un’illusione.

Sta di fatto che tutte le religioni e tutte le filosofie dell’esistenza concordano nel dire che quest’esperienza egoica è un’illusione preliminare, una cortina, un velo di Maya: essa è un sogno per Eraclito e per Lao-tse, costituisce l’illusione fondamentale dell’intero buddismo, uno stato di sonno, di morte, di follia socialmente accettata, uno stato intrauterino nel quale si muore e dal quale si deve nascere”.

Adesso, in chiusura, due poesie di Laing.

– Primo brano

Sebbene innumerevoli esseri siano stati condotti al Nirvana
nessun essere è stato condotto al Nirvana

Prima che si passi la porta
si può anche essere consci che c’è una porta

Si può pensare che c’è una porta da attraversare
e cercarla a lungo senza trovarla

La si può trovare
e può darsi che non si apra

Se si apre si può attraversarla

Nell’attraversarla
si vede che la porta che si è attraversata
era l’io che l’ha attraversata

Nessuno ha attraversato la porta
non c’era porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta
nessuno ha mai compreso che mai c’è stata una porta.

Con questo brano nega realtà ontologica all’io e importanza ai suoi blocchi psicologici: per lo spirito, “nessun io”, “nessuna porta”, nessuna distanza da colmare.

 – Secondo brano

Tutto in tutti
ciascun uomo in tutti gli uomini
tutti gli uomini in ciascun uomo

Tutto l’Essere in ciascun essere
ciascun essere in tutto l’Essere

Tutte le cose in ciascuna cosa
ciascuna cosa in tutte le cose

Tutte le distinzioni sono mente,
con la mente,
della mente.

Niente distinzioni niente mente per distinguere”.

L’Essere, come nexus, mantiene “tutto in Dio”. Le distinzioni razionali (che pretenderebbero di strutturare persino il nirvana – stato di beatitudine – con porte e percorsi obbligati), non possono convenire all’uomo spirituale perché lo sospingerebbero ancora verso l’eresia di una visione unilaterale intesa come tutto.

            Beppe Fragomeni
per scrivere all’autore: Kormoran7@libero.it