Un xxxxxxno in Xxxxxda

27 Marzo 2024 dc:

Un xxxxxxno in Xxxxxda

di Jàdawin di Atheia

Mi sembra giunto il momento di parlare di un personaggio, connazionale, che si è trasferito da alcuni anni in un Paese del nord che amo molto e che, con le sue qualifiche universitarie e professionali di tutto rispetto, ha iniziato a parlare di questo Paese e a svolgere iniziative relative ad esso.

Non voglio entrare assolutamente in contrasto con lui e, per questo, ho mascherato il nome, e il nome del Paese in questione, con cui si fa chiamare, e che è il titolo di un suo libro. Non mi interessa essergli antagonista, anche perché non ne vedo il motivo, né alcuna finalità.

Alcune cose, però, le devo dire.

Indubbiamente, col suo libro, le sue pubblicazioni e le sue iniziative nella Rete ha contribuito finalmente a chiarire alcuni aspetti della vita in quel Paese, della sua storia, delle sue dinamiche interne. Ha fornito molte informazioni, sconosciute ai più, e ha sfatato alcuni miti e luoghi comuni che, purtroppo, pesano sull’immagine di questo splendido Paese.

Tutto ciò è innegabile ed è indiscussa la sua importanza.

A suo tempo, nel canale Telegram che ha creato, ho subito notato quello che, a mio avviso, è un errore di italiano e l’ho scritto. L’errore riguarda la concordanza, in una frase, del soggetto e del verbo a lui collegato. Ad esempio la frase La maggioranza delle gente sono stupidi è errata, perché il soggetto della frase, La maggioranza (della gente), è singolare, mentre il verbo e l’aggettivo, sono stupidi, sono al plurale.

Subito l’Amministratore del canale, che dovrebbe essere il moderatore e non l’aizzatore, mi ha subito apostrofato con la frase “Lei ha studiato simpatia ai corsi estivi del Ku Klux Klan o a quelli tenuti da Pippo Calò?”.

Al che ho risposto “Grazie del complimento, la rassicuro, sono autodidatta. Deduco che per lei fare un’osservazione è comunque ‘antipatia’. Sono stupito, per non dire altro”.

L’individuo in questione ha replicato “Vede, caro signore, spuntare dal nulla inviando una sequela di correzioni non richieste senza nemmeno presentarsi o salutare non è ‘fare un’osservazione’, ma rompere le scatole in maniera anche parecchio maleducata”.

La mia risposta a tali idiozie è stata “Intanto non ho fatto ‘sequele’ di correzioni, ma una sola. Secondo: certo che spunto dal nulla, mi sono iscritto pochi minuti fa! Terzo: non saprei come ‘presentarmi’, mi sembra che in questo canale si possa solo commentare ad alcuni post. Quarto: lei è più maleducato di me, questo mi sembra certo”.

Da notare che, per il soggetto, le correzioni “non sono richieste”, quindi in quel canale, come nel gruppo Facebook, criticare e discutere non è ben visto, ma elogiare a profusione e complimentarsi col protagonista ad ogni suo post (decine di messaggi del tipo “grazie”, “sei il migliore”, “bravo”…) è invece la norma, graditissima e benvenuta.

Anche il Protagonista mi aveva risposto dicendo che per lui quel tipo di frase era “normalissimo”, ed io avevo replicato che se è “normalissima”, cioè “molto usata”, non è detto che sia corretta, come ad esempio “gli ho detto” quando l’oggetto della frase è una donna, e andrebbe usato “le”.

Qualche mese dopo mi sono recato in quel Paese, e prima ancora di partire ho inviato una e-mail al Protagonista chiedendo di potere trovarci nella capitale e fare due chiacchiere, ma non mi ha, ovviamente, nemmeno risposto. Poi ho saputo che una certa sera, nello stesso momento, eravamo a poca distanza tra noi, ma pazienza.

L’energumeno Amministratore ha poi manifestato tutta la sua arroganza in altre occasioni, e l’ho bloccato definitivamente in Facebook.

Ora: è chiaro che la lode è accettata, se non quasi richiesta, invece la critica e il dissenso sono molto sgraditi. E che se il Protagonista si è scelto un tale Aizzatore, una ragione pure ci sarà.

Poi è venuta la conferma: ad un certo punto del suo libro, peraltro, come già detto, molto interessante ed utile, scrive “Come succede agli italiani, anche gli xxxxxxxsi amano fare le pulci alla grammatica e all’ortografia altrui per soddisfare il proprio narcisismo”. Ah, eccolo scoperto, il Protagonista! Quelli che lo criticano sono narcisisti. E lui? Ma no!

E prosegue: “È sempre un motivo di riscatto, per la persona qualsiasi, il poter correggere la lingua altrui, anche di qualcuno molto più istruito che ha battuto distrattamente un post sui social media”. Chiara la condiscendenza per le persone “qualsiasi”, e l’auto-considerarsi molto più istruito, che gli errori li fa solo per distrazione!

“Nemmeno quando è ragionevole presumere che l’autore conosca a menadito le convenzioni grammaticali dello standard attuale…tanti riescono a resistere alla tentazione di sfoderare la propria pedanteria, non perdonando una svista, o un errore palesemente imputabile al correttore automatico. È un fenomeno insopportabile, e probabilmente non sradicabile, perché la tentazione di nutrire il proprio ego attraverso l’umiliazione altrui è sempre troppo forte, e pare essere trasversale alle culture”.

Chiaro, no? Ovviamente è ragionevole presumere che il Protagonista conosca a menadito la lingua, e non poteva essere altrimenti: lui ha studiato, per Giove! Ma quelli che lo criticano sono solo pedanti, e lui fa solo sviste, o errori palesemente imputabili al correttore. E certo, tutti gli errori che fa sono palesemente imputabili ad altro. E poi! Proprio lui parla di nutrire il proprio ego! Lui che non fa altro dalla mattina alla sera!

Il libro in questione, del resto, è adeguatamente pieno di errori, che sicuramente sono imputabili ad altri.

Gli errori di punteggiatura sicuramente sono sviste ma, se suscitassero critiche, queste sarebbero segnate da pedanteria e, comunque, irrilevanti. L’uso errato di due punti e punto e virgola, ad esempio: in una pausa della frase per evidenziare il passaggio successivo non si usa MAI il punto e virgola, ma i due punti. Soltanto se le pause e le sottolineature dovessero essere più di una, per le successive si userà il punto e virgola. Anche se, a mio parere, sarebbe meglio evitarle.

Ma il Nostro, oltre a queste quisquilie, si esibisce in “dove” usato al posto di “in cui” o “nel quale” (ma è in buona compagnia con la quasi totalità di italiani, anche giornalisti e letterati), di indicativo imperfetto al posto di congiuntivo, presente o passato che sia, di numerosi “anima”, “animo”, “spirito”, “spiritualità”, “cuore”, “grazie al cielo”, banali e soliti elogi delle civiltà greca e romana, ovviamente comunque superiori a tutte le altre, e l’immancabile espressione “Bel Paese”. Ma si produce anche in affermazioni come “non sta scritto da nessuna parte che essere puntuali sia meglio di essere flessibili, come purtroppo tanti credono”, infatti non solo è meglio, ma è anche eticamente positivo: si chiama rispetto. Ma lui, che si è adattato a fare tanti mestieri per sbarcare il lunario, cosa a cui è stato costretto dalle circostanze, equivoca questo con la tanto decantata flessibilità, arrivando a esprimersi con autentico disprezzo per chi, ahilui, vorrebbe un posto fisso e una vita serena.

I suoi seguaci (per molti di loro è il termine che meglio li definisce), oltre a distinguersi nel gruppo Facebook e nel canale Telegram, lo hanno fatto anche nel famoso mercato della Rete attraverso cui il suo libro è stato acquistato. Tra le recensioni ce ne sono alcune critiche: tra queste alcune sono stupide, altre più sensate.

Cosa ne hanno detto, nel canale Telegram?

Uno ha detto che era strano che le critiche negative fossero state espresse da chi non risultava che avesse fatto un acquisto certificato di quel libro (così come li contrassegna quel mercato in Rete), e un altro ha affermato che non era affatto strano. Quindi, secondo questi fans (fan deriva, non a caso, da fanatic!), chi criticava era quasi sicuro che il libro non lo avesse nemmeno letto!

Lo stesso atteggiamento è comune in Facebook e in Telegram, in cui lo stesso Protagonista strapazza e maltratta chiunque si esprima criticamente verso il Verbo (il suo, ovviamente).

Alcuni di costoro se lo meritano, e io stesso ero rimasto piacevolmente sorpreso dalla decisione con cui il Nostro li trattava, senza mezzi termini e senza tanti complimenti. “Però!”, mi dicevo, “finalmente ci si esprime sinceramente fuori dal politicamente corretto”.

Certo, ma questo disprezzo lo riserva pressoché a tutti quelli che sono abbastanza critici, o perlomeno dubbiosi, nei suoi confronti e, peggio, lo scrivono!

Alcuni non ne hanno potuto più, e lo hanno abbandonato definitivamente.

Notevole è anche il fatto che costui ha creato un ulteriore gruppo o pagina (non ricordo con esattezza) in Facebook a cui ci si iscrive a pagamento, per sostentare le sue attività.

L’ultima volta che ho controllato, gli iscritti erano sei.

Per fortuna.

Ora, ha certamente tutto il diritto di tessere le lodi al suo Paese, che chiama “Bel”, alla musica lirica, che tanto apprezza, alla “superiorità” culturale dell’Italia nel mondo, di parlare di anima e di spirito: sono opinioni personali, ci mancherebbe.

Ma non può pretendere che tutti lo assecondino.

Nel libro tesse lodi, neanche tanto, nascoste, delle tradizioni in quanto valori in sé, al di là che ci si creda o meno. Secondo il suo ragionamento, le tradizioni sono importanti, ed è importante seguirle anche se non ci si crede. Sottovaluta il fatto che si dica che in Xxxxxxa un numero elevato di persone si dichiarano atee, e cerca di rivoltare in qualche modo la frittata con argomentazioni che si ripeteranno anche altrove.

Come mi è arrivata a casa la copia di una sua Guida di questo Paese, scritta con un’altra persona e pubblicata da una prestigiosa casa editrice oltre Atlantico, sono andato subito a guardare il capitolo relativo alla religione: brevissimo, non appare minimamente la parola ateismo.

I sondaggi e le rilevazioni statistiche non danno mai un quadro esauriente in nessun caso, ma è l’unico modo per avere un’idea su un certo argomento, così feci qualche ricerca. Mi imbattei su un’indagine pubblicata su Esquire nell’agosto del 2018 dc, condotta da WIN/Gallup su 60000 persone in 68 Paesi del mondo, da cui risulta che, benché il Protagonista non ne voglia parlare, gli atei d’Islanda sono il 17% della popolazione, all’ottavo posto in Europa per numero di non credenti.

Quindi, caro Protagonista, sei falso e bugiardo.

Nel gruppo di Facebook ha ripetuto spesso gli stessi concetti, ha affermato che in Italia non possiamo non dirci cristiani (riproponendo la famosa frase di Benedetto Croce, senza citarlo) perché saremmo comunque influenzati da cultura, usanze, tradizioni e stili di vita.

Alcuni membri del gruppo hanno fatto notare che ciò è inesatto e fuorviante, e che ognuno è, di solito e auspicabilmente, quello che diventa, non quello che altri (lo Stato, la Chiesa, la famiglia, la scuola, l’azienda, la patria…) vorrebbero che fosse. Ma non c’è stato verso. Ed infine ho scritto “Rinuncio a commentare. Lascio.”

A un certo punto gira un video sull’argomento relativo ad un pesce, alla sua carne dal sapore repellente, dal suo trattamento, e dalla leggenda natavi intorno come un prodotto di nicchia, e sul riuscire a mangiarla come prova di coraggio e atto di “iniziazione”. Si reca in un certo posto del Paese con un gruppo di italiani, il gruppo di “assaggio”, e subito li elogia perché hanno un gusto superiore.

Proprio così, senza il minimo senso di vergogna cade in uno dei numerosi luoghi comuni beceri sull’Italia e sugli italiani. Manca poco che sciorini le donne italiane le più belle del mondo, i maschi italiani i migliori amanti del mondo, e via scemendo. No, non è un errore, ho proprio scritto scemendo.

Naturalmente gli italiani presenti hanno manifestato subitamente il loro gusto superiore enumerando aspetti e caratteristiche fantasiose di questo pesce, e paragoni quanto meno esilaranti con alcuni formaggi. Non potevano esimersi, una volta così blasonati dal nostro Protagonista.

Nel libro aveva anche affermato che chi credeva che i turisti fossero diventati veramente troppi per il Paese in questione erano degli snob, che volevano ritagliarsi un’Xxxxxxa su misura per loro, erano degli egoisti.

In quel Paese ci sono stato cinque volte, finora, e ho constatato l’aumento vertiginoso del turismo, e l’abbassamento, in corrispondenza, della qualità dello stesso. Già negli anni Novanta del secolo scorso gli stessi abitanti ne erano preoccupati, e organizzazioni di vario tipo, anche internazionali, organizzavano vacanze di lavoro per ripristinare alcuni luoghi affaticati dal solo camminare dei turisti! Volevo partecipare anch’io, ma non ne feci nulla.

Nel 2017 dc ho verificato di persona il disastroso aumento dei turisti, relativa cementificazione del suolo con parcheggi e strutture, e tutto il resto.

Ma nel gruppo Facebook il Nostro disse poi il contrario: non ho capito se perché nel frattempo avesse ragionato un po’ di più, o lo facesse per opportunismo (magari molti del gruppo la pensavano così…costringendolo ad adeguarsi).

Successivamente ebbe a discutere con un tizio. Il tizio era indubbiamente un cretino, e lui aveva innegabilmente ragione ma, quando si scatenò nella polemica, oltre agli argomenti validi che addusse, disse anche che lui aveva molti più “mi piace” di quell’altro, e lo scrisse seriamente, come se questo fosse un argomento valido di confronto!

Facendo questo, senza rendersene conto, si era dimostrato più cretino del suo interlocutore.

Anche sull’argomento Halloween e relative manifestazioni folkloristiche e festaiole si distinse: mentre i tradizionalisti cattolici o nazionalisti affermavano che Halloween era un fenomeno estraneo “alla nostra cultura”, lui affermava esattamente il contrario, descrivendo come alcune manifestazioni di Halloween fossero presenti nella tradizione cristiana ben prima che questa moda diventasse così popolare anche al qua dell’Atlantico. Ma si fermò qui, e secondo me non andò più in là, perché forse si sarebbe accorto che l’origine di tali tradizioni non erano assolutamente cristiane, ma provenivano da altre latitudini.

Dopo che vidi i suoi atteggiamenti durante una spedizione in barca a vela nell’estremo nord, in cui il Nostro, prima scherzando poi, ho il sospetto, sempre più convinto, si atteggiò, nel portamento e nel vestiario, a capitano di vascello, a novello capitano Achab, ripreso in varie pose ieratiche a scrutare il mare o a suonare uno strumento a fiato in posizione elevata tra le vele, e dopo che lessi altre sue affermazioni in Facebook, decisi che era abbastanza anche per me, e lasciai, non senza rammarico, il gruppo Facebook e il canale Telegram.

Non posso fare finta di niente…oltre una certa misura.

Un frequentatore di Facebook e del gruppo del Nostro, uno di quelli che se ne erano allontanati, e con cui ho avuto un breve scambio di idee, ha scritto:

“(Cognome omesso) è di un narcisismo parossistico, che oltrepassa il ridicolo. Fa il tuttologo, salvo sparare clamorose cxxxxte su argomenti di cui non sa nulla, per cui farebbe meglio a tacere. Lui e i suoi accoliti sono brutte persone, invidiose e attaccabrighe. Molto meglio altre realtà che si occupano di Xxxxxxa”.

Spero che le orde di fanatici che lo seguono siano più fumo che sostanza, e non facciano più male che bene all’amore e all’interesse che merita quel grande Paese.

Tolkien e Meloni

08 Gennaio 2024 dc, dal sito Doppiozero, articolo del 04 Gennaio 2024 dc:

Tolkien e Meloni

di Stefano Jossa

Chissà come avrebbero reagito la presidente Meloni e il ministro Sangiuliano all’idea che l’immaginario di Tolkien si radichi in un precedente italiano.

Probabilmente l’argomento avrebbe fomentato un rigurgito di orgoglio nazionalistico, suggerendo un motivo in più per sostenere la mostra dedicata all’autore de Il Signore degli anelli, in cui tradizionalismo, conservatorismo e mistificazione si combinano in una singolare miscela di appropriazioni e fraintendimenti.

Eppure alla comparsa del primo volume della saga (The Fellowship of the Ring nel 1954) il grande critico inglese C. S. Lewis, professore a Oxford, autore di saggi letterari di straordinaria influenza e scrittore di fantasy in prima persona con Cronache di Narnia, sosteneva, nella presentazione sul risvolto di copertina del libro, che l’unico paragone possibile per Tolkien sarebbe stato solo con il più grande poeta del Rinascimento italiano, Ludovico Ariosto, l’autore di Orlando Furioso: ‘If Ariosto rivalled it in invention (in fact he does not) he would still lack its heroic seriousness’ (‘Se pure Ariosto lo sorpassasse per la ricchezza dell’invenzione (cosa che comunque non fa), gli mancherebbe sempre la sua grandiosità eroica’).

Solo Ariosto all’altezza di Tolkien, ma un gradino più in basso, perché il secondo aveva saputo costruire un mondo ‘così multiforme e così fedele alle proprie leggi interiori; […] così apparentemente oggettivo, così ripulito dalla contaminazione con la psicologia meramente individuale di un autore; […] così rilevante per la reale situazione umana e tuttavia così libero dall’allegoria’, da introdurre il lettore a una ‘varietà quasi infinita di scene e personaggi: comici, semplici, epici, mostruosi o diabolici’.

Non sembra che Tolkien avesse particolarmente gradito il riferimento, che pure lo inseriva di default tra i grandi classici della letteratura occidentale. Ai giornalisti di The Telegraph, Charlotte e Dennis Plimmer, che molti anni dopo (era il 22 marzo 1968) gli chiedevano cosa ne pensasse, rispose semplicemente: ‘I don’t know Ariosto, and I’d loathe him, if I did’ (‘non conosco Ariosto, e lo odierei se lo conoscessi’).

Il rifiuto tolkieniano si spiega con la volontà di essere unico e originale, ma certo il riferimento ariostesco non sembrava un gran servizio allo scrittore da parte dell’amico critico: quanti tra i lettori inglesi e americani di allora avrebbero potuto cogliere il parallelo con un classico italiano che pochi conoscevano e quasi nessuno leggeva, essendo fra l’altro disponibile, in quel momento, solo nell’originale italiano e nella vecchia traduzione di William Stewart Rose del 1831?

Proprio in quel 1954 che vedeva l’uscita di La Compagnia dell’anello, tuttavia, l’editore newyorchese di ascendenza italiana Sante Fortunato Vanni dava alle stampe una nuova traduzione, in prosa, del poema ariostesco, da parte del grande esperto di Rinascimento italiano Allan Gilbert, professore di letteratura inglese alla Duke University, e di Ariosto aveva parlato diffusamente, nel suo libro sulla rappresentazione dell’amore nel Medioevo, The Allegory of Love (1936), proprio lo stesso Lewis. Il riferimento colto era rivolto allora a immettere subito la nuova saga tolkieniana in un orizzonte accademico, di letteratura alta, che favorisse una lettura non solo popolare, ma soprattutto intellettuale.

Nazionalisticamente propizio, ma populisticamente pericoloso, il riferimento diventa subito a doppio taglio per gli obiettivi politici di Meloni e Sangiuliano.

Come dimostrare che esiste una cultura di destra in Italia, fondata sulla lettura de Il Signore degli anelli, se il suo predecessore italiano, rivendicato per di più dal critico più importante della società letteraria inglese del tempo, e amico personale dell’autore, fa parte di quella cultura alta che è tradizionale appannaggio della sinistra? Antico, difficile e intellettualmente complesso sono infatti aggettivi agli antipodi della definizione di cultura promossa dal governo italiano attuale, che punta tutto sulla contemporaneità, l’immediatezza e la semplificazione, secondo i canoni della comunicazione mediatica del nostro tempo.

Ariosto, del resto, è nome che il lettore italiano di media cultura associa subito a Italo Calvino che è stato, comunque si prenda il suo rapporto tormentato col comunismo, un campione della cultura di sinistra. Il quale in Ariosto aveva proprio trovato un principio di opposizione al fascismo, all’insegna dell’avventura intellettuale, della complessità rappresentativa e del rifiuto delle parole d’ordine grazie all’osservazione della realtà. Tutto ciò che a Meloni e Sangiuliano potrebbe fare semplicemente paura, perché implica il passaggio dalla propaganda alla politica.

Bisognerà allora andare a vederla, la mostra, per confermare o scardinare i pregiudizi: che sia un’appropriazione indebita da parte della destra di governo; che rilanci un’immagine falsificata e mistificatoria dello scrittore; che immetta i suoi scritti in un orizzonte di militanza partigiana che è estraneo a ogni forma d’arte; e che, di conseguenza, sia una mostra scadente.

Antiteticamente: che Tolkien fosse oggettivamente conservatore; che la sua militanza cattolica e anti-liberale lo iscriva ipso facto a una cultura di destra; che sia un difensore della tradizione, della famiglia, della fratellanza e della patria; e che, di conseguenza, si tratti di una mostra giustissima.

Anziché ridurre il discorso all’affermazione apodittica che la cultura per definizione non può essere di destra, o all’altrettanto superficiale dichiarazione che la letteratura e l’arte si muovono a un livello superiore, per cui non possono essere né di destra né di sinistra, converrà cercare delle coordinate di riferimento per orientarsi in un dibattito che in Italia è ancora irrisolto.

Immersa nella cornice splendida della galleria, tra De Chirico, Fontana, Mondrian e Pistoletto, la mostra rischia di subire financo logisticamente un senso di minorità, relegata in un angolo rispetto alla grandezza dell’arte contemporanea, una curiosità a suo modo appendicolare e fuori luogo: non sarebbe stato allora opportuno legarla quanto più possibile ai pezzi in esposizione, mettendo in rilievo, ad esempio, i cortocircuiti dell’immaginario tra i 32 mq di mare circa di Pino Pascali e la Terra di Mezzo, o tra l’eroismo mitologico dell’Ercole e Lica di Canova e l’eroismo modernista della saga tolkeniana, o tra La tana di Mimmo Paladino e la casa della famiglia Baggins?

Se l’obiettivo fosse stato quello di immettere Tolkien nell’universo estetico della contemporaneità, valorizzando la riflessione su spazio, tempo, natura, mondo e identità, anziché isolarlo totemicamente, forse questa sarebbe stata una strada da esplorare.

Ci troviamo invece fin dall’inizio di fronte all’inchino riverente piuttosto che all’indagine delle potenzialità d’interazione: «la mostra celebra la vita, esalta il lavoro accademico, svela la maestosità della produzione letteraria di Tolkien», si legge sul pannello introduttivo.

Più idolatra di così è difficile immaginarlo: si comincia infatti col figlio perfetto, che assistette «all’eroica sofferenza e alla morte precoce in estrema povertà della madre»; col cristiano perfetto, che fu educato nella fede da padre Morgan; e col padre perfetto, che riuscì a fare della sua famiglia un’opera d’arte di cui i personaggi sono i figli.

Compaiono documenti interessanti, come il Macbeth posseduto dal figlio Michael per lascito paterno, e le pagine dell’Oxford English Dictionary cui collaborò; ma non sarebbe stato più suggestivo far diramare intorno agli oggetti i percorsi della sua formazione, della sua vita intellettuale e della sua ispirazione letteraria (come avviene, ad esempio, nella mostra su Italo Calvino attualmente in corso alla Biblioteca Nazionale di Roma)?

Di lui si sarebbero potute esplorare le contraddizioni, psicologiche e culturali, tanto utili ai fini dell’esplorazione del suo universo creativo: pronto a deludere l’educatore per amore nei confronti dell’unica donna della sua vita, capace di riscattare la sua mancata vocazione col sacerdozio del figlio primogenito e incline a far apprezzare i testi per il loro contenuto narrativo anziché come documenti storici, fu un marito fedele, un cattolico coerente e un docente amorevole, oppure un marito piuttosto assente, un padre quasi padrone e un filologo almeno distratto?

Nel laboratorio dello scrittore si entra solo attraverso tre video: un’intervista in cui Tolkien si esercita a scrivere in elfico, spiegando che «le lingue hanno un sapore», come «un nuovo vino o una nuova leccornia»; un’altra intervista in cui ricostruisce la genesi della sua saga, associando l’anello alla bomba atomica e l’evasione letteraria alla fuga dalla prigione; e una ricostruzione dei meccanismi della parentela linguistica.

Davvero poco, per chi si aspettava almeno una tavola con l’alfabeto del runico e un pannello con la storia delle lingue elfiche. «Come scriveva Tolkien» è qualcosa di cui la mostra non dà neppure un assaggio, mancando certamente uno degli obiettivi possibili, lo scrittore, che invece viene ridotto ad autore, col mito della persona a prevalere, ancora una volta, su qualsiasi altra sua attività, soprattutto quella creativa.

Anche qui una delle mostre in corso proprio in questo periodo avrebbe potuto aiutare (quella su Italo Calvino alle Scuderie del Quirinale): entrare nel mondo visivo di Tolkien immaginando «cosa vedeva quando chiudeva gli occhi».

Alla traduzione visiva dei suoi libri, tra copertine, illustrazioni, vignette, pubblicità, film, videogames e giochi da tavolo, sono dedicate le sale successive, in una vertiginosa successione di disegni, poster e fotogrammi, fino ad arrivare ai rifacimenti e alle parodie più recenti che annoverano, fra i tanti titoli, Paperino e il signore del padello di Giorgio Pezzin con Franco Valussi per «Topolino» (1995), Il signore dei porcelli di Stefano Bonfanti e Barbara Barbieri per la collana Zannablù dell’editore Dentiblù (2014) e (ma perché?) L’elenco telefonico degli accolli di Zerocalcare per BAO (2015).

Come dimostrano i titoli appena riportati tutto è rivolto, infine, alla celebrazione di una possibile italianità di Tolkien, a partire da quel viaggio in Italia dell’estate del 1955 durante il quale affermava di essere «innamorato dell’italiano» e di sentirsi «abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo»: valorizzando la suggestione di un dialogo implicito con Benedetto Croce, che fu tre volte a Oxford durante la vita di Tolkien, la sua partecipazione alla Dante Society (dal 1945 al 1955), e l’idea da lui stesso proposta che Venezia avrebbe fornito uno scenario ideale per Esgaroth, i curatori (tra cui Oronzo Cilli, autore di un interessante e faziosissimo Tolkien e l’Italia per Il Cerchio Editore, 2016) inseguono un Tolkien italiano che potrà piacere a chi si nutre di patriottismo quotidiano, ma storicamente e letterariamente non ha ragion d’essere.

Costruita intorno a un’italianità d’accatto, la mostra ignora proprio quello che avrebbe potuto essere l’unico precedente italiano, quell’Orlando Furioso da cui siamo partiti.

Eppure fin dal 1954 la lettrice cui Mondadori aveva richiesto un parere sull’opportunità o meno di tradurre The Lord of the Rings, la scrittrice di origine tedesca Ruth Domino Tassoni, additava una possibile direzione ariostesca: dopo aver affermato che Tolkien «riprende una delle più antiche funzioni della letteratura: raccontare meraviglie», sosteneva che le sue «vicende dovrebbero venir recitate in grandi sale, con pioggia e vento fuori, e possibilità di lungo ozio. Come nelle antiche saghe, la storia si diffonde, si spezza e riprende in intricati episodi, un motivo conduce ad un secondo e ad un terzo, e dentro una vicenda nasce una nuova vicenda e dentro questa fioriscono canti e poesie».

Non era, questa, la descrizione della struttura narrativa del capolavoro ariostesco? Non bastava, però, per proporre la pubblicazione dell’opera, che alla lettrice sembrava «per un editore cui preme un sicuro guadagno» troppo «un rischio».

Né piacque, l’opera, otto anni dopo, a Elio Vittorini, direttore editoriale della Mondadori, che trasformava il «rischio» paventato dalla prima lettrice in un’inclinazione negativa, considerato che «il successo del tentativo [di traduzione e pubblicazione] richiederebbe la forza di un vero e proprio genio (che Tolkien dà prova di non essere) e la convalida di una attualità, ma ciò non si verifica affatto».

Rifiuto confermato da Vittorio Sereni e sancito da R.C. per la casa editrice.

Avevano capito poco, se a farne un film pensavano già in quegli stessi anni i Beatles (con George Harrison che ambiva al ruolo di Sam) e se a sessant’anni di distanza papa Francesco ci vedrà addirittura un’allegoria dell’«uomo in cammino»: ma la questione del fantasy in Italia è argomento ancora tutto da affrontare (e che la mostra neppure sfiora).

Molti sono i documenti utili e grandiose alcune sale, ma la mostra privilegia la celebrazione rispetto all’interpretazione, che è ciò che nasce dal fare confronti, dal mettere in dubbio, dal promuovere ipotesi e favorire la discussione: non essendoci fonti con cui dialogare (dal poema epico medievale in inglese antico Beowulf al romanzo fantasy di E.R. Edison The Worm Oroborous) né termini di paragone (l’ovvia contesa con Harry Potter, ma anche gli Snerg di E.A. Wyke-Smith), mancando interlocutori critici del suo e del nostro tempo (dalle prime recensioni alle analisi più recenti), Tolkien ne esce fuori come un monumento, isolato e intoccabile.

Ciò che emerge, insomma, è la solita ansia eroica della destra, il bisogno del campione da adorare anziché del modello o maestro con cui confrontarsi: il gran cacchio, come diceva Gadda del Duce. Al centro c’è infatti la persona, come recita il titolo, dedicato a Tolkien «Uomo, Professore, Autore», tutti rigorosamente con la maiuscola: un santino, laico, ma in odore fortissimo di santità.

Torniamo ad Ariosto e Tolkien.

Alcuni lettori inglesi non capirono il riferimento colto e si limitarono a cercare parallelismi: poiché in inglese tanto l’orca quanto l’orco si chiamano orc, l’orca ariostesca, che minaccia donne nude legate a uno scoglio dagli abitanti dell’isola di Ebuda per placarla attraverso i sacrifici umani, è diventata un precursore degli orchi tolkeniani che attaccano nani, elfi e uomini nella Terra di Mezzo.

Di fronte a tanta mancanza di intelligenza (ma non di humour, che forse non sarebbe dispiaciuto né ad Ariosto né a Tolkien), si può ricordare che nel 1971 (proprio un anno dopo la pubblicazione integrale in italiano de Il Signore degli anelli presso Rusconi, con la prefazione di Elémire Zolla, dopo la comparsa dei primi due libri presso Astrolabio nel 1967 nella traduzione di Vicky Alliata di Villafranca), l’editore americano Ballantine pubblicava una nuova traduzione inglese dei primi 13 canti dell’Orlando furioso (su 46) da parte dell’autore di fantascienza e saggista Richard Hodgens.

La notizia resterebbe una pura curiosità editoriale, se Ballantine non fosse appunto l’editore americano di The Lord of the Rings. Il sottotitolo di questa prima parte (cui non ha fatto seguito la continuazione della traduzione, purtroppo) era The Ring of Angelica: più esplicito di così! La prefazione era di Lin Carter, autore di fantascienza che nel 1969 aveva pubblicato un saggio su The Lord of the Rings. L’illustratore era David McCall Johnston, famoso per le sue illustrazioni di opere cavalleresche e fantasy. Un intero progetto di assunzione di Ariosto nel mondo di Tolkien si prefigurava dietro la scelta di Ballantine.

In America Ariosto veniva annesso all’orizzonte del fantasy esattamente nello stesso momento in cui in Italia Tolkien veniva divulgato con potenzialità reazionarie.

Per quanto accolto e apprezzato soprattutto negli ambienti hippy nel corso degli anni Sessanta, per il suo ritorno alla natura e il suo culto della libertà, in Italia negli anni Settanta il capolavoro di Tolkien diventava lo strumento di un riscatto della cultura di destra, complici lo statuto pubblico dell’editore e l’immagine controversa del prefatore.

Editore aperto a suggestioni ermetiche, esoteriche e mistiche, Rusconi pubblicava De Maistre e Jünger, che potevano essere percepiti, come infatti furono, come autori di destra.

Zolla, a sua volta, era visto con sospetto dagli ambienti intellettuali caratterizzati da un razionalismo illuminista e scientista coi paraocchi, per cui i suoi interessi per le religioni, il misticismo e l’occultismo lo facevano spesso passare (erroneamente) per oscurantista e destrorso.

Rifiutato per questi motivi Tolkien dalla sinistra, non risultò difficile alla destra appropriarsene, facendo leva anche su un presunto conservatorismo dell’autore che è solo in parte fondato, ma soprattutto (come ha scritto Giuseppe Pezzini, uno dei curatori della mostra, professore di latino a Oxford e Tolkien Editor per  Journal of Inklings Studiesnulla ha a che vedere con la sua opera letteraria.

A partire dal biennio 1976-77 Tolkien diventava in Italia un autore di destra.

Nel 1976 Monica Centanni e Marilena Novelli fondavano la rivista Eowyn, che avrebbe dovuto rilanciare il dibattito sulla donna all’interno del MSI: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società», si leggeva su una delle prime copertine.

Eowyn, principessa di Rohan, è l’eroina che appare nel secondo libro della saga di Tolkien, Le due torri: innamorata invano dell’irraggiungibile Aragorn, è una donna forte, che lotta per il suo popolo, ma sa anche accettare il destino che la vuole consapevole dei suoi limiti e cui si sottomette (a proposito: con l’eccezione della madre e della moglie, non ci sono donne nella mostra, neppure tra i personaggi).

Il 6 dicembre dello stesso anno la band Gruppo Padovano di Protesta Nazionale (la futura Compagnia dell’anello) presentava in un concerto a Roma la canzone che sarebbe diventata l’inno del Fronte Nazionale della Gioventù, Il domani appartiene a noi, in cui «la terra dei Padri», «la Fede immortal» e «la Tradizion» (obbligatoria anche qui la maiuscola) compaiono come i valori fondanti di una comunità che lotta contro l’oscurità e guarda ai raggi del sole.

L’anno dopo vedeva la nascita dei campi Hobbit, invenzione creativa di alcuni leader del Fronte della Gioventù, la sezione giovanile del MSI: Generoso Simeone, Umberto Croppi, Giampiero Rubei, Marco Tarchi e Nicola Cospito.

Associare Tolkien e Ariosto avrebbe significato parlare di letteratura, di complessità, di diversità e di dialogo. Rivendicare il rifiuto di Vittorini come occasione per una storia più fortunata, protesa verso una direzione piuttosto che un’altra, rischia di negarla, invece, la letteratura, che è in effetti la grande assente della mostra.

Ognuno può fare le appropriazioni che vuole, ma deve anche saperle fare: se cultura di destra vuol dire banalizzazione e mitizzazione, opposizione pregiudiziale alla sinistra e strumentalizzazione di qualsiasi discorso a uso suo proprio, allora avrà ragione chi pensa che destra e cultura siano semplicemente in antitesi.

Ma se cultura di destra vorrà dire un’occasione per promuovere sguardi alternativi e proposte nuove, urge definirne orizzonti di senso e prospettive di ricerca: dal momento che non si può più ricorrere all’opposizione tra progressismo e conservazione, razionalismo e irrazionalità, elitismo e populismo, che non hanno retto alla prova della storia, perché la destra di oggi non è più antimoderna, anticapitalistica e antiburocratica, che si ricominci a pensare la politica all’interno di categorie critiche non può che essere un bene.

A patto che la destra voglia davvero promuovere la cultura, fondata sull’orizzonte della ricerca e la capacità del confronto, anziché fare solo propaganda.

L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

Cercando da tempo, e non avendo ancora trovato, L’istinto materno non esiste che ritengo scritto o riferito a Susan Sontag, ho trovato questo articolo, molto interessante, sul sito The Vision, pubblicato il 17 Giugno 2020 dc:

L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

di Jennifer Guerra

Quando dico di non volere figli, la maggior parte delle persone mi risponde che sono troppo giovane per saperlo e che fra una decina d’anni, quando raggiungerò i fatidici trenta, cambierò idea, perché prima o poi arriverà il fantomatico “Istinto Materno”.

Non ho mai provato il desiderio di essere madre, non ho mai provato tenerezza di fronte a un bambino, voglio fare mille cose nella vita tranne che svegliarmi alle tre di notte per accudire un neonato, non faccio corrispondere la mia idea di realizzazione personale alla procreazione.

Insomma, diventare madre non fa per me. Nemmeno quando ero bambina mi divertivo a giocare con i bambolotti, al contrario di molte mie coetanee che amavano imitare la mamma alle prese con pannolini e biberon. Spesso mi sono chiesta cosa ci sia in me che non vada, perché tante altre ragazze che conosco abbiano questo desiderio, e io no.

Evito il più possibile di parlare di questa cosa in pubblico, un po’ perché è capitato che i miei interlocutori mi prendessero come una sorta di mostro egoista, un po’ perché la mia unica reazione alla frase “Prima o poi l’istinto arriverà” è ormai una poderosa alzata di occhi al cielo. Questa è d’altronde la risposta che si sentono dare molte donne che esprimono la volontà di essere child free. “Prima o poi l’istinto arriverà”, come se fosse una grazia del cielo o Babbo Natale.

Il punto è che l’istinto materno non arriverà mai, perché proprio come il vecchietto con la barba bianca e l’abito rosso, non esiste.

Parlare di istinto materno o, meglio, della sua assenza in Italia è un tabù. In un Paese in cui la questione della natalità viene affrontata con una farsa imbarazzante come quella del Fertility Day, con tanto di opuscoli raffiguranti clessidre per ricordare che il tempo scorre e che il tuo utero ha una data di scadenza, o in cui si permette alle associazioni pro-vita di appendere enormi manifesti in cui si paragona l’aborto al femminicidio, qualsiasi discorso riguardante la complessità della maternità si perde in lotte ideologiche e moralismi.

Dopotutto, come afferma la sociologa Orna Donath nel suo saggio Regretting Motherhood: A Sociopolitical Analysis, non si può parlare di maternità senza ricollegarla all’amore nei confronti dei bambini, che nel contesto delle società contemporanee occidentali è considerato “sacro” ed è visto come “un test della morale femminile”.

Così, l’associazione tra l’amore e la maternità viene istituzionalizzata e una “buona donna”, capace cioè di sentimenti buoni, è anche automaticamente una “buona madre”. Ovviamente, chi non adora i bambini non può che essere “cattiva”.

L’amore nei confronti dei bambini sembra uno di quei valori assoluti e intoccabili, che dev’essere sempre manifesto e totalizzante. Chi non è capace di questo amore è spesso preso dal senso di colpa che deriva dalla sensazione di inadeguatezza, dall’incapacità di aderire alla norma sociale che vuole la donna sempre e solo una buona madre.

Il senso di colpa secondo Donath è una sorta di “condizione necessaria per la preservazione dell’ordine sociale”: se non vuoi figli perché ti vuoi concentrare sulla carriera o perché sei terrorizzata dal parto o perché non vuoi essere responsabile di un’altra creatura, almeno sentiti in colpa. Questo perché il mito della maternità è una forma di mantenimento dello status quo, atta a dividere il mondo in maniera piuttosto superficiale nelle due categorie: buone madri piene d’amore contro donne cattive piene di senso di colpa.

L’istinto materno è la carta jolly, che la gente di solito sfodera per controbattere alla decisione logica e razionale di una donna childfree. L’istinto è, nella credenza comune, qualcosa di naturale e innato a cui, volenti o nolenti, non ci si può opporre.

Molti studi, a partire dal saggio del 1979 Is there such a thing as “maternal instinct”? di David Cutts, hanno posto in dubbio che l’istinto materno – o meglio quell’insieme di credenze e luoghi comuni associati alla maternità che viene impropriamente definito “istinto materno” – esista.

Non esiste nemmeno una definizione moderna di questo fenomeno, che è assente nelle enciclopedie, ma che possiamo trovare ancora nell’edizione del 1971 del dizionario Larousse, in cui viene definito “una tendenza primordiale che crea, in ogni donna normale, un desiderio di maternità e, una volta soddisfatto questo desiderio, spinge la donna a badare alla protezione fisica e morale dei figli”.

Tralasciando l’inciso che parla di “donne normali” e che ancora perpetra quella divisione manichea di cui si parlava sopra, il desiderio di maternità non è affatto una tendenza primordiale.

Secondo la sociologa Laura Kipnis, l’istinto materno è un costrutto sociale nato intorno all’epoca della Rivoluzione Industriale. Prima le donne avevano molti figli per motivi pratici ed economici: più figli equivalevano a più braccia per lavorare.

Il rapporto con loro era quanto di più diverso potesse esistere dalla classica famiglia felice. Spesso, nelle famiglie più abbienti, a poche ore dal parto i neonati venivano affidati alle balie e crescevano lontano dalle madri, che comunque tendevano a mantenere con loro un forte distacco emotivo.

Gli studiosi, in proposito, arrivano a parlare, in riferimento al XVIII secolo, di “mancanza di sentimento dell’infanzia”, una rassegnazione totale delle famiglie di fronte alla morte dei bambini, a causa dell’altissimo tasso di mortalità.

Con la svalutazione del valore economico dei figli, in conseguenza alla maggiore disponibilità di lavoro, e con la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili – uomini in fabbrica, donne in cucina – i figli cominciarono a diventare un peso e non più una risorsa, di cui si doveva occupare solo e unicamente chi restava in cucina, ovvero la madre.

Poiché smettere di procreare sembrava impossibile e assurdo, si optò per una “romanticizzazione” della maternità, di modo che le donne non fossero più obbligate a fare figli per necessità, ma per vocazione. Insomma, quando i figli non servivano più ad aumentare il patrimonio del nucleo famigliare, con il loro lavoro nelle famiglie più povere o con il matrimonio in quelle più ricche, l’affetto e l’amore della madre sembravano le uniche ragioni plausibili per la loro esistenza.

Ma se l’istinto materno non esiste, com’è che siamo in 7 miliardi su questo pianeta?

La risposta è molto semplice. La biologia ci ha insegnato che ogni essere vivente, vegetale o animale che sia, essere umano compreso, è spinto a trasmettere il proprio codice genetico. Questo tuttavia non riguarda esclusivamente gli individui femminili.

Da un punto di vista evolutivo, però, l’uomo si è differenziato dagli animali. Mark Elgar, professore di Biologia evolutiva all’Università di Melbourne, fa notare come il motore di tutto sia il desiderio sessuale e non un non meglio chiarito “istinto materno”. In una popolazione animale, una preferenza genetica che ripudi il sesso non può stabilirsi o mantenersi, perché gli individui sessualmente inattivi non possono conservarsi. Ma l’uomo, sfruttando le sue caratteristiche evolutive, ha trovato alcuni modi ingegnosi per continuare a fare sesso senza riprodursi. Tramite la contraccezione, gli uomini sono riusciti a scindere il sesso dalla riproduzione. Quindi, in termini di evoluzione biologica, una preferenza genetica per l’attività sessuale non può equivalere all’istinto materno. Se fosse il solo istinto di conservazione a guidarci, le persone childfree non sarebbero interessate al sesso. Non so voi, ma io lo sono abbastanza.

Non esiste nessun istinto materno, nel senso che non c’è nessuna “tendenza primordiale al desiderio di maternità”, come invece si sosteneva sul dizionario Larousse. Al massimo c’è un desiderio di riprodursi e un desiderio di trasmettere il proprio codice genetico, che però non riguarda solo le femmine, ma indistintamente tutti gli individui.

È comunque innegabile che moltissime persone, di fronte alla vista di un neonato, siano prese da sentimenti di tenerezza e di cura. Questo accade perché a entrare in gioco è un ormone di origine proteica, l’ossitocina, che promuove il legame tra adulto e cucciolo. Nel saggio Psicobiologia dello sviluppo, di Berardi e Pizzorusso, vengono illustrati alcuni esperimenti con i ratti che hanno dimostrato l’importanza di questo ormone: vedere un piccolo indifeso stimolerebbe la produzione di ossitocina nei topi adulti, anche nel caso in cui il cucciolo in questione non sia il proprio.

L’ossitocina è lo stesso ormone che viene prodotto durante il travaglio e che stimola la lattazione, ma viene prodotto anche dai maschi e più in generale ogni volta che si fa sesso. Questo, ovviamente, non significa che la presenza dell’ossitocina sia la prova dell’esistenza dell’istinto materno, come hanno titolato alcuni articoli riferendosi alla ricerca della NYU Skirball Institute of Biomolecular Medicine, che si è limitata a dimostrare quali aree del cervello sono coinvolte nel comportamento materno. L’ossitocina si attiva anche alla vista di un cucciolo di un’altra specie ed è il motivo per cui siamo tutti ossessionati dai gattini.

Insomma, ossitocina o no, l’istinto materno non è affatto qualcosa di innato: anche volendo ammettere che esista, non è detto che tutte le donne, senza eccezioni, lo debbano sentire. Più che un fatto biologico, è un costrutto sociale che ha origini storiche ben precise.

Simone de Beauvoir, ne Il secondo sessopubblicato nel 1949, ha dimostrato come i pregiudizi sociali e biologici legati alle donne abbiano contribuito a relegarle in una posizione secondaria. Questo perché non basta la maternità a spiegare la condizione femminile, bisogna necessariamente sommare a essa il contesto socio-economico-patriarcale in cui è stata inserita nella Storia.

Oggi la donna è libera di decidere molti aspetti della sua vita e di esercitare i suoi diritti civili, ma la maternità sembra ancora un tasto dolente. Chi sceglie di essere madre, chi non può esserlo e chi sceglie di non riprodursi è parimenti vittima del mito dell’istinto materno.

Le madri devono continuamente competere fra loro per dimostrare chi sia la migliore, la più brava a perseguire quell’istinto inesistente. Chi non può avere figli è continuamente frustrata dal senso di colpa per non aver potuto realizzare quel desiderio. Chi non vuole assolutamente avere figli si sentirà continuamente in dovere di dare spiegazioni.

Il desiderio di fare un figlio certamente esiste ed è una sensazione profonda, vera e bellissima, ma non è un desiderio esclusivamente femminile e non è legato a chissà quale caratteristica biologica, tanto che sembra che sempre più spesso siano gli uomini a voler mettere al mondo un bambino. Nessuna di noi si deve sentire in colpa nei confronti dell’istinto materno. Con buona pace del dizionario Larousse, madri o non madri, siamo tutte donne normali.

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

di Claudio Bezzi

Piccola polemichetta che mi era completamente sfuggita, proprio a me, che amo tanto queste cose così rivelatrici del mondo, di tutti noi…

Allora: il 1° maggio Roberto Saviano se ne esce con questo tweet:

Naturalmente i giornalacci di destra ci si sono buttati a corpo morto: “L’orrore della fatica. Ora Saviano elogia il fancazzismo”, titola Il giornale (3 maggio); “Saviano paladino dei fannulloni”, rilancia Libero (3 maggio). E va bene. Mi secca un po’ di più che nel trappolone della polemichina ci si sia infilato Pierluigi Battista sull’HuffPost del 5 maggio, perché mi dispiace sempre quando una persona che stimo per certi versi, inciampa su un verso differente. Battista – va chiarito – riprende ampiamente da una critica di Carlo Stagnaro sul Foglio del 3 maggio.

Cosa dice, in pratica, Stagnaro, rilanciato pari pari da Battista? Che – dati alla mano – la vita media degli italiani, ma anche delle nazioni più povere e disgraziate (viene citato il Ciad) è aumentata notevolmente nei decenni; la mortalità infantile è enormemente inferiore; ci potrebbe essere un’obiezione, diciamo così, “qualitativa”:

Saviano potrebbe obiettare: sì, viviamo più a lungo, ma è una vita più povera perché abbiamo meno risorse e meno tempo. Al contrario, il valore dei beni e servizi consumati ogni giorno dall’essere umano medio è cresciuto da 11,7 dollari nel 1990 a 18,2 nel 2019 (al netto dell’inflazione e a parità di potere d’acquisto). L’apporto calorico quotidiano è balzato da 2.181 chilocalorie nel 1961 a 2.947 oggi. Le persone denutrite sono scese dal 13,2 all’8,9 per cento del totale negli ultimi vent’anni (una tendenza che sembra essersi invertita nel periodo più recente, cosa che dovrebbe preoccupare molto). (Stagnaro, sostanzialmente identico in Battista)

Infine il lavoro, che sarebbe poi stato il tema di Saviano: rispetto a un secolo fa si lavora enormemente di meno, non c’è analfabetismo, si gode di tempo libero (sport, letture…).

Conclusione:

Insomma solo pregiudizi, cecità ideologica, odio per il progresso. Basterebbe informarsi un po’, vero Roberto Saviano? Ma informarsi è anche un po’ un orrore. (Battista)

Ecco, c’è del marcio in Danimarca. E mi dispiace davvero. Se di Carlo Stagnaro non mi importa un fico secco, perché non mi pare qualificato per assurgere a maître à penser (è un ingegnere esperto di economia energetica, area dem – QUI la bio), tant’è vero che scrive delle sciocchezze, come sto per argomentare, mi dispiace che Battista, che porta avanti tante giuste battaglie liberali con una sensibilità che appartiene anche a me, abbia scopiazzato l’altro per mettere subito l’etichetta di pregiudizialità e ideologicità a Saviano, un intellettuale che – ho scritto più volte qui su HR – non mi piace particolarmente, spesso non mi rappresenta, ma sì, è uno dei pochi in circolazione.

Il marcio danese riguarda l’uso mistificatorio dei dati; non a caso Stagnaro è un ingegnere, la forma mentis è quella: i dati, le cose, i fatti. E prendere l’età media della vita e la mortalità infantile viene facile, ma così facile! Peccato che non sia stato un argomento toccato da Saviano. Saviano, sia chiaro, si sbaglia di grosso quando dice “più lavoro” (le ore lavorative sono di molto diminuite), “meno tempo” (il tempo libero è specularmente aumentato) e “meno vita” (dove Saviano non intende – ovviamente – che si vive meno, ma che si vive male). E Breton a parte, che non c’azzecca nulla (il citazionismo è una deriva onanistica dei social media, Saviano può certamente farne a meno), le allusioni agli intellettuali che immaginavano un futuro liberato dal lavoro è solo una banale e mal compresa rimasticazione del giovane Marx. Roba buona per un tweet…

Quindi sì, Saviano non ha scritto un luminoso pensiero, ma l’astio col quale gli viene risposto è mortificante; non considero nemmeno i giornalacci di destra, ma il compitino di Stagnaro è falso, e l’invettiva di Battista fuori luogo.

Perché Stagnaro dice il falso (probabilmente senza accorgersene)? Per la semplice ragione che cita i dati che gli convengono. Per spiegarmi rinvio, rapidamente, alle dannosissime classifiche sulle “città in cui si vive meglio”, che per esempio vengono stilate ogni anno dal Sole 24 ore. Queste classifiche prendono in considerazione i) pochi indicatori (sulle migliaia possibili e immaginabili), ii) di cui si hanno numeri e statistiche (ovvero una minimissima parte degli indicatori possibili, e forse anche importanti, ma dei quali non si possono compulsare statistiche perché non ce ne sono). Il risultato è che un ricercatore un pochino esperto e scaltro potrebbe dire, di qualunque città italiana, che è una delle migliori oppure una delle peggiori, a seconda dei dati che ha utilizzato (una spiegazione tecnica l’ho scritta QUI; una analoga su un’altra classifica politico-culturale QUI; una sulla libertà di stampa QUI. Tutte, nessuna esclusa, sono gravate da pesantissimi errori sistematici).

Ora: è indubbio che viviamo molto più a lungo, che mangiamo di più e meglio, che abbiamo tempo libero, siamo più istruiti, il reddito pro capite medio si è di moltissimo innalzato in tutto il mondo, eccetera. Questa è la parte facile dell’analisi. È anche vero che siamo tutti sovrappeso o obesi, dai 50 anni in su viviamo aiutati da un numero crescente di pasticche, la maggior parte della gente consuma il suo tempo libero guardando serie tv o giocando alla playstation, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è alle stelle, abbiamo paura della guerra, dei cambiamenti climatici, dei virus. C’è una generale estraneità sociale, se non un incattivimento, sconosciuti qualche decennio fa; siamo istruiti abbastanza per leggere il titolo di un giornale ma in pochi lo sono quanto occorre per capirlo; e per venire al lavoro – che avrebbe dovuto essere il tema di Saviano – io vedo enormi conquiste positive, che hanno avuto il loro culmine un paio di decenni fa, mentre mi pare che oggi sia diffuso il lavoro precario e di scarsa qualità, mentre la liberazione dal lavoro, vagheggiata dagli intellettuali citati da Saviano, si sta compiendo grazie a un’intelligenza artificiale che creerà scompensi inenarrabili (come ha scritto più volte, anche recentemente, Ottonieri).

Se ci fossero dei dati “oggettivi” sulla felicità, se fosse possibile misurarla veramente, e se avessimo una bella base storica di dati, non sono affatto convinto che la felicità umana sia apprezzabilmente aumentata nell’ultimo secolo, e a occhio e croce direi che è diminuita.

Allora, probabilmente Saviano aveva in mente un pensiero di questo genere, che ha male espresso affidandosi a una forma di comunicazione sbagliata. Male, molto male. Ma se uno Stagnaro qualunque ha trovato l’occasione per farci capire che è bravino e conosce i numerini, soddisfacendo in tal modo il proprio Ego, male, ma molto male, ha fatto Battista, che sulla scorta del precedente ha semplicemente compiuto quell’operazione ideologica (ma di senso opposto) che imputa a Saviano.

Ecco, questo è il male contemporaneo.

Usiamo i brandelli di informazione che abbiamo senza criticità, senza controllo, senza comprensione, come manganelli per colpire chi ha utilizzato altri brandelli di informazione. Capiamo come ci pare, entro i ristretti limiti delle nostre possibili comprensioni, quello che dicono e scrivono altre persone, nei modi utili e necessari per polemizzare, indignarci, accusare, sempre scivolando su argomenti limitrofi ma utili per la nostra differente perorazione (così hanno fatto anche Stagnaro e Battista), e quindi deviando il pensiero del lettore, che perde di vista il punto centrale.

Gli intellettuali sbagliano. Saviano, come già detto, non sempre mi entusiasma ma merita il mio rispetto; Battista mi piace molto in certe battaglie che propone, ma poi inevitabilmente anche lui scivola maldestramente. È normale che accade, perché costoro hanno bisogno di scrivere, pubblicare, apparire, autopromuoversi. Anche loro sono prodotti di un mercato, anche loro hanno contratti da rispettare, mica come Marx, divorato da bubboni ed emorroidi che gli impedivano di sedersi, sporco e ubriacone, mantenuto da Engels.

E allora, ancora una volta, ci dobbiamo chiedere chi siano oggi gli intellettuali. Ma forse è ora di cambiare domanda e chiedersi dove siano i lettori intelligenti.

L’inclusione discriminante

26 Maggio 2023 dc, dal sito Hic Rhodus, articolo del 6 Febbraio 2023 dc:

L’inclusione discriminante

di Claudio Bezzi

La notizia è questa: la RAF – Royal Air Force, ovvero l’aeronautica militare del Regno Unito – ha deciso di riservare il 40% dei posti a donne e neri, per un ribilanciamento delle quote, per giustizia sociale, inclusione e quelle bellissime cose là. Anche nella terra di Albione c’è chi ha detto che è una sciocchezza, per esempio Elisabeth Nicholl, capitana di squadrone, che si è dimessa proprio dall’incarico di reclutamento cui era preposta, in disaccordo con questa pratica che, a detta di diversi, può avere un impatto negativo sulle capacità delle forze aeree britanniche (fonte); per fare posto a questo 40%, infatti, sarà giocoforza lasciare a terra piloti migliori, col torto di essere maschi bianchi. Lasciamo perdere la vicenda britannica che, peraltro, sta avendo sviluppi che potrebbero portare a nuove e più moderate decisioni (fonte).

Che questa riserva di posti si attui o no, nella RAF o altrove, è abbastanza chiaro che siamo da alcuni anni al centro di un’ondata di folle ripensamento dei diritti delle persone discriminate (donne, neri, Lgbtq, altre minoranze etniche tranne gli Uiguri di cui non ci frega niente, etc.), che induce a una vera e propria caccia alle streghe politicamente scorrette (la Rowling, per esempio), alla messa all’Indice di libri scritti secoli fa, che oggi sono letti come discriminatori verso le donne e le minoranze (uno dei pochi che in Italia ne parla con una certa frequenza, e con assoluta fermezza, è Pierluigi Battista, >QUESTO il suo intervento più recente), all’abbattimento delle statue (moda effimera, sì.), all’autocensura nelle Università americane e sui quotidiani…

Gramellini, che del buonismo zuccheroso ha fatto la sua cifra stilistica, trova una morale:

“Il maschio bianco ha goduto per millenni di condizioni di favore che lo rendono ancora adesso più preparato a occupare certi ruoli. Se però continua a occuparli solo lui, gli esclusi non potranno mai mettersi al suo livello. Come in tutte le cose, servono gradualità e buonsenso, ma per realizzare una giustizia domani, bisogna probabilmente commettere un’ingiustizia oggi.”

Devo dire che se non avessi letto questa sciocchezza non avrei scritto questo post, quindi la colpa è la sua. In queste settimane e mesi di vicende woke che mi fanno salire la pressione, non ne ho mai scritto perché quello che si doveva dire, qui su HR, lo abbiamo detto. Ma se una persona intelligente come Gramellini, in un quotidiano importante come il Corriere, sostiene tesi di questo tipo, beh… qualcuno dovrà pur reagire.

Allora: i temi sono due, non uno. Gramellini e le legioni di benpensanti, buonisti, difensori dei diritti Lgbtq e tutte le altre lettere, sostenit* delle pari opportunità etc., fanno una confusione moralistica. Il primo tema è la discriminazione. Il secondo tema è il suo superamento. Il primo è una riflessione sociologica sulle differenze, e sulle conseguenze sociali (per lo più negative) di tali differenze, mentre il secondo tema è da affrontare senza alcunché di moralistico, addirittura negando l’enormità delle implicazioni sociali del primo tema. Dire – à la Gramellini – “C’è un’ingiustizia, quindi ne creiamo altre per porvi rimedio”, è una frase bastarda, figlia di un ossimoro e di una ipersemplificazione. Voi vorreste ingegneri donne e neri, che sono diventati ingegneri perché “discriminati”, e non perché bravi? Vi fareste costruire casa da loro, percorrereste i loro ponti? Voi vorreste medici donne e neri, diventati medici per riparare a un millenario torto sociale, e non perché bravi? Mettereste la vostra vita nelle loro mani? E così via per ogni professione, financo l’idraulico.

Capisco come si cade nell’errore. Un torto annoso è diventato repentinamente di attualità, ci guardiamo attorno e non vediamo molte soluzioni se non un radicale colpo di spugna; meraviglie dello (scarso) intelletto umano! Lo capisco. Non si può dire, a milioni di donne, migliaia di neri e un po’ di gay, che devono avere pazienza, che pian piano le cose miglioreranno, che si farà un meraviglioso programma scolastico di sensibilizzazione al tema, e che i figli dei loro figli vivranno in un mondo migliore. Le persone discriminate oggi, vogliono una risposta oggi. Ma una cosa è l’ingiustizia, altra cosa la sua rappresentazione, e cosa affatto diversa la sua soluzione.

Ci sono moltissime battaglie a favore delle donne che, onestamente, sento a volte proclamare ma nessuno combattere: l’uguaglianza nei salari, per esempio; quella nelle condizioni di partenza verso le posizioni di potere (per inciso: il partito che avete votato, e che probabilmente si è gonfiato il petto nella difesa parolaia delle donne, è il primo che le discrimina; andate a vedere quante donne ha eletto, che cariche hanno nel vostro partito, etc.); una rete di servizi sociali realmente efficace, target=”_blank” rel=”noopener”>a partire dai nidi; incentivi alle aziende che accolgono e valorizzano donne quando incinte, poi con figli, e che ne tutelano salute e possibilità di carriere (banale: con asili nido aziendali, maggiori permessi parentali, etc.). Ci sono quantità di cose che si possono fare per le donne, subito, adesso, e che vengono dette nei convegni o scritte sui giornali ma, per una ragione o l’altra, mai realizzate neppure dai governi (numerosi) con la “sinistra” dentro.

Neri ed Lgbtq è questione oggettivamente differente, e qui serve solo una profonda, continua, sincera campagna culturale, educativa, a partire ovviamente dalle scuole. L’argomento è complesso, anche di questo abbiamo già abbondantemente scritto su HR, non vorrei insistere.

Purtroppo so già che alcuni lettori non leggeranno tutto il pezzo, se lo leggono non lo capiranno a fondo, anche perché – in alcuni casi – parte loro stessi del problema, ipersensibili al tema, scottati dalla vita e quindi suscettibili. Oggi, in piena superfetazione dell’individualismo narcisista, sentirsi infelicemente discriminati significa esserlo veramente, essere al centro di un universo ostile e quindi avere diritto di dire la qualunque, di ergersi a giudici, novelli Torquemada pronti a brandire la spada della morale, della giustizia giusta, della politica corretta, del linguaggio con la scwha, del sentimento glorioso di combattere i malvagi, noi giusti, ovviamente…

Io ho il privilegio di essere vecchio, e onestamente il comportamento irriflesso, il linguaggio non meditato, il diritto autoproclamato, oltre a un sottile fastidio non mi smuovono un gran che.

Le ingiustizie sociali sono diffuse. La sofferenza, una condizione purtroppo abbastanza comune. L’incapacità del Potere a risolvere i veri problemi, è fatto conclamato. Capisco che a 20 anni si vuole tutto e subito, ricordo i mei 20 anni, lo so; va bene… Ma la Storia è fatta di una pressione costante, continua, faticosa. Sviluppiamo consapevolezza, insegniamo ai nostri figli l’inclusione, la tolleranza, il relativismo, la diversità, aiutandoli comunque, al dunque, a scegliere (il mondo fluido è una via di fuga spaventosa). Spingiamo, come cittadini, affinché i partiti al Governo facciano il minimo possibile, realmente possibile, che sarebbe già un enorme passo avanti. Di più non si può, ma non capire che sarebbe già moltissimo, e lottare concretamente per ciò che è fattibile, è un vero peccato intellettuale. Si chiama “principio di realtà”, ed è il contrario del narcisistico e infantile principio del piacere.