Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

di Claudio Bezzi

Piccola polemichetta che mi era completamente sfuggita, proprio a me, che amo tanto queste cose così rivelatrici del mondo, di tutti noi…

Allora: il 1° maggio Roberto Saviano se ne esce con questo tweet:

Naturalmente i giornalacci di destra ci si sono buttati a corpo morto: “L’orrore della fatica. Ora Saviano elogia il fancazzismo”, titola Il giornale (3 maggio); “Saviano paladino dei fannulloni”, rilancia Libero (3 maggio). E va bene. Mi secca un po’ di più che nel trappolone della polemichina ci si sia infilato Pierluigi Battista sull’HuffPost del 5 maggio, perché mi dispiace sempre quando una persona che stimo per certi versi, inciampa su un verso differente. Battista – va chiarito – riprende ampiamente da una critica di Carlo Stagnaro sul Foglio del 3 maggio.

Cosa dice, in pratica, Stagnaro, rilanciato pari pari da Battista? Che – dati alla mano – la vita media degli italiani, ma anche delle nazioni più povere e disgraziate (viene citato il Ciad) è aumentata notevolmente nei decenni; la mortalità infantile è enormemente inferiore; ci potrebbe essere un’obiezione, diciamo così, “qualitativa”:

Saviano potrebbe obiettare: sì, viviamo più a lungo, ma è una vita più povera perché abbiamo meno risorse e meno tempo. Al contrario, il valore dei beni e servizi consumati ogni giorno dall’essere umano medio è cresciuto da 11,7 dollari nel 1990 a 18,2 nel 2019 (al netto dell’inflazione e a parità di potere d’acquisto). L’apporto calorico quotidiano è balzato da 2.181 chilocalorie nel 1961 a 2.947 oggi. Le persone denutrite sono scese dal 13,2 all’8,9 per cento del totale negli ultimi vent’anni (una tendenza che sembra essersi invertita nel periodo più recente, cosa che dovrebbe preoccupare molto). (Stagnaro, sostanzialmente identico in Battista)

Infine il lavoro, che sarebbe poi stato il tema di Saviano: rispetto a un secolo fa si lavora enormemente di meno, non c’è analfabetismo, si gode di tempo libero (sport, letture…).

Conclusione:

Insomma solo pregiudizi, cecità ideologica, odio per il progresso. Basterebbe informarsi un po’, vero Roberto Saviano? Ma informarsi è anche un po’ un orrore. (Battista)

Ecco, c’è del marcio in Danimarca. E mi dispiace davvero. Se di Carlo Stagnaro non mi importa un fico secco, perché non mi pare qualificato per assurgere a maître à penser (è un ingegnere esperto di economia energetica, area dem – QUI la bio), tant’è vero che scrive delle sciocchezze, come sto per argomentare, mi dispiace che Battista, che porta avanti tante giuste battaglie liberali con una sensibilità che appartiene anche a me, abbia scopiazzato l’altro per mettere subito l’etichetta di pregiudizialità e ideologicità a Saviano, un intellettuale che – ho scritto più volte qui su HR – non mi piace particolarmente, spesso non mi rappresenta, ma sì, è uno dei pochi in circolazione.

Il marcio danese riguarda l’uso mistificatorio dei dati; non a caso Stagnaro è un ingegnere, la forma mentis è quella: i dati, le cose, i fatti. E prendere l’età media della vita e la mortalità infantile viene facile, ma così facile! Peccato che non sia stato un argomento toccato da Saviano. Saviano, sia chiaro, si sbaglia di grosso quando dice “più lavoro” (le ore lavorative sono di molto diminuite), “meno tempo” (il tempo libero è specularmente aumentato) e “meno vita” (dove Saviano non intende – ovviamente – che si vive meno, ma che si vive male). E Breton a parte, che non c’azzecca nulla (il citazionismo è una deriva onanistica dei social media, Saviano può certamente farne a meno), le allusioni agli intellettuali che immaginavano un futuro liberato dal lavoro è solo una banale e mal compresa rimasticazione del giovane Marx. Roba buona per un tweet…

Quindi sì, Saviano non ha scritto un luminoso pensiero, ma l’astio col quale gli viene risposto è mortificante; non considero nemmeno i giornalacci di destra, ma il compitino di Stagnaro è falso, e l’invettiva di Battista fuori luogo.

Perché Stagnaro dice il falso (probabilmente senza accorgersene)? Per la semplice ragione che cita i dati che gli convengono. Per spiegarmi rinvio, rapidamente, alle dannosissime classifiche sulle “città in cui si vive meglio”, che per esempio vengono stilate ogni anno dal Sole 24 ore. Queste classifiche prendono in considerazione i) pochi indicatori (sulle migliaia possibili e immaginabili), ii) di cui si hanno numeri e statistiche (ovvero una minimissima parte degli indicatori possibili, e forse anche importanti, ma dei quali non si possono compulsare statistiche perché non ce ne sono). Il risultato è che un ricercatore un pochino esperto e scaltro potrebbe dire, di qualunque città italiana, che è una delle migliori oppure una delle peggiori, a seconda dei dati che ha utilizzato (una spiegazione tecnica l’ho scritta QUI; una analoga su un’altra classifica politico-culturale QUI; una sulla libertà di stampa QUI. Tutte, nessuna esclusa, sono gravate da pesantissimi errori sistematici).

Ora: è indubbio che viviamo molto più a lungo, che mangiamo di più e meglio, che abbiamo tempo libero, siamo più istruiti, il reddito pro capite medio si è di moltissimo innalzato in tutto il mondo, eccetera. Questa è la parte facile dell’analisi. È anche vero che siamo tutti sovrappeso o obesi, dai 50 anni in su viviamo aiutati da un numero crescente di pasticche, la maggior parte della gente consuma il suo tempo libero guardando serie tv o giocando alla playstation, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è alle stelle, abbiamo paura della guerra, dei cambiamenti climatici, dei virus. C’è una generale estraneità sociale, se non un incattivimento, sconosciuti qualche decennio fa; siamo istruiti abbastanza per leggere il titolo di un giornale ma in pochi lo sono quanto occorre per capirlo; e per venire al lavoro – che avrebbe dovuto essere il tema di Saviano – io vedo enormi conquiste positive, che hanno avuto il loro culmine un paio di decenni fa, mentre mi pare che oggi sia diffuso il lavoro precario e di scarsa qualità, mentre la liberazione dal lavoro, vagheggiata dagli intellettuali citati da Saviano, si sta compiendo grazie a un’intelligenza artificiale che creerà scompensi inenarrabili (come ha scritto più volte, anche recentemente, Ottonieri).

Se ci fossero dei dati “oggettivi” sulla felicità, se fosse possibile misurarla veramente, e se avessimo una bella base storica di dati, non sono affatto convinto che la felicità umana sia apprezzabilmente aumentata nell’ultimo secolo, e a occhio e croce direi che è diminuita.

Allora, probabilmente Saviano aveva in mente un pensiero di questo genere, che ha male espresso affidandosi a una forma di comunicazione sbagliata. Male, molto male. Ma se uno Stagnaro qualunque ha trovato l’occasione per farci capire che è bravino e conosce i numerini, soddisfacendo in tal modo il proprio Ego, male, ma molto male, ha fatto Battista, che sulla scorta del precedente ha semplicemente compiuto quell’operazione ideologica (ma di senso opposto) che imputa a Saviano.

Ecco, questo è il male contemporaneo.

Usiamo i brandelli di informazione che abbiamo senza criticità, senza controllo, senza comprensione, come manganelli per colpire chi ha utilizzato altri brandelli di informazione. Capiamo come ci pare, entro i ristretti limiti delle nostre possibili comprensioni, quello che dicono e scrivono altre persone, nei modi utili e necessari per polemizzare, indignarci, accusare, sempre scivolando su argomenti limitrofi ma utili per la nostra differente perorazione (così hanno fatto anche Stagnaro e Battista), e quindi deviando il pensiero del lettore, che perde di vista il punto centrale.

Gli intellettuali sbagliano. Saviano, come già detto, non sempre mi entusiasma ma merita il mio rispetto; Battista mi piace molto in certe battaglie che propone, ma poi inevitabilmente anche lui scivola maldestramente. È normale che accade, perché costoro hanno bisogno di scrivere, pubblicare, apparire, autopromuoversi. Anche loro sono prodotti di un mercato, anche loro hanno contratti da rispettare, mica come Marx, divorato da bubboni ed emorroidi che gli impedivano di sedersi, sporco e ubriacone, mantenuto da Engels.

E allora, ancora una volta, ci dobbiamo chiedere chi siano oggi gli intellettuali. Ma forse è ora di cambiare domanda e chiedersi dove siano i lettori intelligenti.

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

26 Maggio 2023 dc, da Left, articolo del 19 Maggio 2023 dc:

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

di Noemi Ghetti

Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, diceva Bobbio rimane non risolto in tutta la sua gravità. L’affascinante ideale dell’eguaglianza, aggiungeva, è stato la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato

In occasione della nuova edizione di Destra e sinistra  di Norberto Bobbio ripubblichiamo la recensione di questo importante testo firmata da Noemi Ghetti che uscì su Left nel 2010 in occasione del centenario della nascita del filosofo e pensatore politico. Riproposto dall’editore Donzelli con una nuova prefazione di Nadia Urbinati, a trent’anni dalla prima fortunata edizione il testo di Bobbio non cessa di stupire per la persistente attualità della ricerca e per l’ottimismo di fondo che la anima.

Rileggere le cose non fa mai male: si capiscono meglio. Mai come in questi tempi suona opportuno l’invito, rivolto nei giorni scorsi da un professore agli studenti in un’affollata aula universitaria. L’iniziativa dell’editore Donzelli di proporre, nell’ambito delle celebrazioni per il contenario della nascita di Norberto Bobbio, una nuova edizione del saggio Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica con un’introduzione di Nadia Urbinati, appare di attualità e offre un forte stimolo di riflessione, anche alla luce degli avvenimenti che investono la vita pubblica italiana in questi giorni.

Filosofo e politologo, per molti decenni impegnato nell’insegnamento universitario, pubblicò all’età di ottantacinque anni la prima edizione del «libretto» destinato a restare, tra tutti i suoi lavori, il testo più discusso e famoso. Uscito in libreria il 26 febbraio 1994, fu un successo editoriale senza precedenti: diecimila copie vendute in tre giorni, centomila in due mesi, più di trecentomila nel primo anno. E poi, traduzioni in ben 27 lingue straniere.

Il muro era caduto da cinque anni, l’Italia era immersa nella prima stagione di Tangentopoli e assistevamo attoniti la “discesa in campo” del cavaliere che, a fine marzo, conseguì la prima vittoria elettorale. A maggio dello stesso anno Bobbio, che non cessava di stupirsi dell’imprevedibile fortuna del libro, in una lettera a Carmine Donzelli notava con amaro umorismo: «Andiamo avanti con l’Italia berlusconizzata e con questo governo, per il quale ho scritto: Sì, ci ho riflettuto: / avvenga quel che avvenga. / La gente l’ha voluto / ed ora se lo tenga». Parole sulle quali ci tocca interrogarci ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2004.

Ma più impressionante ancora è l’attualità della ricerca che Bobbio svolge sulla dicotomia tra destra e sinistra, «civettando» continuamente, come egli stesso scrive, con la logica. Una logica deduttiva limpida e mai astratta sostiene l’argomentazione, che compone una straordinaria precisione linguistica con una fine capacità di osservazione, anche psicologica. Perché, come scrive a sorpresa il filosofo che fu definito un illuminista del Novecento, «non c’è ideale che non sia acceso da una grande passione. La ragione, o meglio il ragionamento che adduce argomenti pro e contro per giustificare le scelte di ciascuno di fronte agli altri, e prima di tutto verso se stessi, viene dopo. Per questo i grandi ideali resistono al tempo e al mutar delle circostanze, e sono l’uno all’altro, ad onta dei buoni uffici della ragione conciliatrice, irriducibili».

Quando cadde il fascismo, ricorda Bobbio, la destra sembrò essere quasi scomparsa: con la dissoluzione dei regimi comunisti la sinistra scende e sale la destra. E tuttavia i termini antitetici della diade hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. La questione discussa è dunque se la distinzione storica tra destra e sinistra, metafora spaziale che dalla Rivoluzione francese per due secoli è servita a dividere l’universo politico in due parti opposte, nel tempo della cosiddetta crisi delle ideologie abbia ancora ragione di essere utilizzata, nonostante le argomentazioni tese a negarla.

E nonostante la confusione della sinistra con la destra e della destra con la sinistra, verificatasi a più riprese nel Novecento. Come quando agli inizi del secolo intellettuali socialisti si fecero teorici del fascismo. O quando nel ’68 furono adottati a sinistra “maestri del pensiero” come Heidegger, dal passato di chiara compromissione nazista. O quando, fallito quel movimento, intellettuali ex-sessantottini passarono alle file della destra. O da quando, recentemente, politici di destra hanno preso ad appropriarsi di posizioni tradizionalmente proprie della sinistra. Fenomeno che, per alcuni, sarebbe indicativo del fatto che non esistono più differenze che meritino di essere contrassegnate con nomi diversi.

Eguaglianza e libertà: i due termini hanno un senso emotivamente fortissimo, ma un significato descrittivo generico, e un contenuto spesso antitetico, che Bobbio indaga da diverse angolazioni.

La tesi centrale del saggio è che sinistra e destra restano tuttora irriducibili l’una all’altra alla luce dell’opposizione di eguaglianza-diseguaglianza, mentre la coppia oppositiva libertà-autoritarismo serve piuttosto a distinguere i moderati dagli estremisti.

Fascismo e bolscevismo, accomunati da concezioni egualmente «profetiche» della storia, condividono infatti per Bobbio il disprezzo democratico e l’uso della violenza, teorizzato come positivo. La teoria degli “opposti estremismi”, che prima della caduta del comunismo molti intellettuali trovavano inaccettabile, è secondo lui dimostrata in modo inoppugnabile dalla professione autoritaria e antilibertaria di quelle dottrine. Una dialettica democratica, dunque non violenta, tra destra e sinistra, non può dunque che svolgersi tra liberalismo e socialismo. E Bobbio non esita a dichiarare di essersi sempre dimostrato un uomo di sinistra.

Ma che cosa si intende per eguaglianza?

L’eguaglianza radicale di tutti in tutto, che è il nerbo del pensiero degli utopisti, è una formulazione non solo astratta, ma che storicamente si è rivelata funesta, l’«utopia capovolta» del comunismo reale. Un contenitore vuoto, come del resto l’idea della libertà assoluta. Con la differenza che la libertà è sempre in relazione con un altro termine. «Posso dire: io sono libero, ma non: io sono eguale» è la semplice ma fondamentale osservazione di Bobbio.

L’idea dell’eguaglianza implica sempre il rapporto con altri esseri umani. E tuttavia il metodo del pensiero razionale, che nello studio della realtà umana si ferma alla coscienza e al comportamento, pur nell’assoluta onestà d’intenti mostra, anche in questo saggio, un suo limite. E, nell’impossibilità di comporre eguaglianza e diversità degli esseri umani secondo un criterio universale, deve accontentarsi di definire l’eguaglianza come “tendenza” specifica della sinistra. Un limite evidente se si consideri il rapporto uomo-donna, che necessita di comporre i termini uguale-diverso: sul piano razionale un paradosso, una sfida all’aristotelico principio di non contraddizione, a cui Bobbio mostra di sapersi avvicinare per altra via.

L’indagine offre infatti, alla fine del millennio scorso, molte folgoranti premonizioni.

Come quando ad esempio il politologo pone, ad una sinistra operaista sorda, la questione dell’immigrazione. Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, egli avverte, rimane non risolto in tutta la sua gravità.

L’affascinante ideale dell’eguaglianza è stato, egli conclude, la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato. L’umanità, affermava ottimisticamente Bobbio nel 1998, non è giunta alla “fine della storia”, ma è forse soltanto al suo principio. Il processo di emancipazione delle donne era infatti, per lui, la più grande rivoluzione del nostro tempo: «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali della disuguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare, poi nella più grande società civile e politica, è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». Di questa sua lungimiranza, tra le altre la più generosa, noi donne gli siamo particolarmente riconoscenti. (Da Left n. 10, 12 marzo 2010).

Riccardo Noury: Non lasciamo sole le donne iraniane che si ribellano al regime

14 Novembre 2022 dc, dal sito Left, 27 Settembre 2022 dc:

Riccardo Noury: Non lasciamo sole le donne iraniane che si ribellano al regime

di Arianna Egle Ventre

«Nel Paese si contano diverse decine di morti durante le mobilitazioni, centinaia di feriti, oltre 700 arresti» spiega a Left il portavoce di Amnesty International Italia. «Le autorità iraniane – aggiunge – parlano di proteste eterodirette dagli Usa, ignorando che da oltre quattro decenni la popolazione è stanca di privazioni della libertà e norme patriarcali»

Zan zindaghi azadi: le tre parole rosso fuoco sono dello stesso colore dello smalto della mano che sostiene il cartello in cui sono scritte. È uno dei principali slogan delle proteste che in questi giorni stanno attraversando l’Iran e le piazze solidali di tutto il mondo. Donna, vita, libertà. Tornano alla memoria le immagini delle rivoluzionarie curde che da anni cantano il corrispettivo in curdo, jin jiyan azadi nella loro lotta per la libertà. Il 13 settembre Mahsa Jina Amini è stata vittima degli abusi della polizia morale iraniana per non portare “correttamente” l’hijab, obbligatorio nei luoghi pubblici in Iran. È stata arrestata e picchiata. Fino alla morte, il 16 settembre. Le sue origini curde vengono onorate con questo coro, che al tempo stesso reclama l’urgenza di ribellione del popolo iraniano contro le repressioni quotidiane delle autorità in Iran.

«L’atroce assassinio di Mahsa Jina Amini per mano degli agenti della polizia morale è l’emblema di 44 anni di aggressione sistematica e di tirannia, che ha garantito la sopravvivenza del sistema attuale imponendo un clima di terrore nella società» si legge nel volantino che viene distribuito davanti all’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma, il 23 settembre, in occasione di una mobilitazione in solidarietà alle proteste in Iran che si è tenuta in contemporanea in varie piazze d’Italia e del mondo. È una lettera aperta delle studentesse e studenti del Politecnico di Teheran. Mentre qualche ragazza distribuisce questo e altri volantini, una mano si alza poco lontano dal cartello con la scritta “donna, vita e libertà”. L’indice e il medio formano una “V” di vittoria. Le voci dei manifestanti, membri della diaspora iraniana e non solo, sovrastano il rumore delle macchine del viale vicino. Tra i tanti, uno degli slogan attacca Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran (la massima carica amministrativa e religiosa).

Le informazioni giungono a tratti dal Paese, dove l’accesso a internet è limitato dal regime. Le poche notizie che arrivano dimostrano la natura repressiva del governo iraniano. Si cominciano a contare i morti, che giorno dopo giorno aumentano. Gli arresti e le violazioni dei diritti umani sono pratica sistematica di risposta alle proteste. Abbiamo parlato della situazione con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, cercando di capire cosa stia avvenendo in Iran e quali sviluppi ci si possa aspettare.

Il 16 settembre è arrivata la notizia della morte di Mahsa Amini e subito sono iniziate le proteste che si sono velocemente diffuse in tutto il Paese. Che natura hanno queste proteste?
In Iran ciclicamente ci sono proteste di massa, nel 2009, 2017, 2019 e adesso 2022, scatenate da diversi fattori. L’obbligo di indossare il velo negli spazi pubblici è una norma che esiste da 44 anni, quando è stata istituita la Repubblica islamica. Già nel 2019 si era diffusa una campagna virale che consisteva nel condividere sulle piattaforme social dei video di donne che si toglievano il velo in luoghi importanti delle città. Questa campagna ha prodotto decine e decine di arresti di attiviste accusate e condannate per reato di prostituzione o induzione alla prostituzione. Quest’anno la scintilla non è stata neanche la storia di un’attivista, ma una vicenda vergognosa di un capello fuori posto, che avrebbe spinto la polizia morale a intervenire con la detenzione della 22enne Mahsa Amini, torturandola e uccidendola. Parliamo di una vittima che non è un’attivista, che potrebbe essere chiunque, una vittima casuale: le persone scese in piazza si identificano con lei. Inoltre bisogna ricordare che già il 12 luglio di quest’anno erano state introdotte norme restrittive sul velo e che hanno dato alla polizia morale un motivo per intensificare l’osservazione e il pedinamento in strada, punendo anche con frustate, con richiami e con arresti e pestaggi. Sono proteste contro il regime, contro la sua interpretazione radicale dell’islam, contro la discriminazione di genere strutturale nelle poliche della Repubblica islamica. Le persone in piazza non pongono un problema di religione, ma criticano un’interpretazione retrograda di essa.

Quali sviluppi possiamo aspettarci?
In passato in Iran, quando i movimenti di piazza sono stati lasciati soli o strumentalizzati per qualche ragione politica diversa da quella dei diritti umani, ha vinto la repressione. Ad oggi (27 settembre, ndr) il numero dei morti è di diverse decine, probabilmente oltre 70. Si contano centinaia e centinaia di feriti, molti dei quali non vanno in ospedale perché temono di essere arrestati. Ci sono stati oltre 700 arresti, tra cui anche giornalisti. La guardia rivoluzionaria, i basiji (una forza paramilitare), e gli agenti in borghese si aggirano in motocicletta con una persona alla guida e un’altra con il fucile pronta a sparare. Una novità è l’uso di determinate munizioni come i pallini di metallo che sono vietati a livello internazionale. Se non uccidono, producono ferite terribili. C’è un’ammissione parziale da parte delle autorità iraniane sul numero di vittime, però il loro dato è minore di quello reale. Inoltre si attribuisce la responsabilità della mobilitazione a cosiddetti nemici della Repubblica islamica, dando la solita narrazione ufficiale per cui sarebbero proteste dirette dall’esterno e in particolare dagli Stati Uniti, ignorando che sono più di quattro decenni che la popolazione è stanca di privazioni della libertà e di norme patriarcali, misogine e discriminatorie oltre che di una situazione economica sempre più difficile. Quindi la preoccupazione è che le autorità proseguano in quest’azione repressiva e noi, comunità internazionale, rischiamo di saperne sempre meno perché parte delle piattaforme social e internet sono già da ora bloccate.

Quali sono i fattori che influiranno negli sviluppi delle proteste?
Ci sono più questioni da cui dipende l’evoluzione delle prossime settimane. Intanto, la dimensione e la portata delle proteste, che per ora proseguono e sono sempre più numerose come partecipazione. Ci sono tanti giovani, essendo l’Iran un Paese giovane, ma le età sono comunque varie. Vale la pena sottolineare che tanti uomini scendono in piazza accanto alle loro mogli, figlie e sorelle. Un altro fattore è l’appoggio dato ai manifestanti da personalità molto popolari. Il calcio è popolarissimo in Iran e calciatori molto noti nel Paese hanno preso posizione a favore della mobilitazione. Bisogna poi capire se quelle voci all’interno del sistema sul frangente riformista (quello legato all’ex presidente Khatami), che chiedono l’abolizione della polizia morale e l’abrogazione delle leggi sul velo, abbiano la forza per portare avanti questa richiesta politica e se questa verrà accolta o meno.

Quali azioni sta intraprendendo Amnesty e con quale metodologia state registrando le violazioni dei diritti umani?
Abbiamo messo a disposizione un numero che può essere raggiunto attraverso messaggi sulle varie piattaforme social in cui chiediamo di ricevere video, testimonianze e altro ancora, chiaramente garantendo la sicurezza di chi ci contatta. Abbiamo inoltre promosso un appello mondiale che si rivolge al presidente Raisi chiedendogli di cessare la repressione. A ciò si accompagna la richiesta agli Stati membri del Consiglio Onu dei Diritti umani (la cui sessione è in corso a Ginevra) di istituire un meccanismo indipendente di indagine internazionale. Infatti non crediamo alla dichiarazione del presidente Raisi secondo la quale ci sarà un’indagine. Non ci crediamo e non sarà così. C’è grande attenzione e tanta solidarietà sia online sia in piazza, in Italia come altrove. Le persone in Iran non devono essere lasciate sole. L’attenzione internazionale deve rimanere alta.

Come dovrebbe comportarsi la comunità internazionale?
Gli Stati devono pretendere dall’Iran che rispetti il diritto di protesta pacifica, che sospenda immediatamente questa repressione e indaghi sulle morti che ci sono state. Questa richiesta è doverosa, però resta la necessità di un’indagine internazionale.

Il fatto che Mahsa fosse curda influisce in qualche modo nelle proteste e nella reazione delle autorità ad esse?
Direi che una relazione c’è: storicamente il governo centrale ha avuto un approccio molto duro o punitivo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e questo è confermato dal fatto che il numero maggiore di vittime di questi giorni si conti nelle province a maggioranza curda. Per la popolazione il fatto che Mahsa fosse curda non cambia, la percepiscono come una di loro.

Questa vicenda potrebbe alimentare ulteriori discriminazioni verso le minoranze?
Può essere, anche perché è già stato così in altre situazioni. Penso all’uso della pena di morte che quest’anno sta registrando un record. Si sono verificate già 415 impiccagioni e non è neanche finito il nono mese dell’anno. Se si divide per gruppo etnico di appartenenza il numero delle persone messe a morte, si nota che per esempio i balouchi, che sono il 5% della popolazione, hanno una percentuale altissima tra i condannati. Lo stesso può riguardare il rischio di discriminazione contro i curdi o contro la minoranza araba. La rivolta in sé non mi sembra che abbia una prospettiva etnica particolare, essendo contro l’obbligo del velo.

Pensa che le proteste avranno un impatto nella regione e negli Stati delle zone limitrofe?
Può essere. Ogni movimento di protesta a partire dal Libano nella prima metà del primo decennio di questo secolo ha avuto un effetto galvanizzante nella regione. Ed è quello che i regimi di quella zona temono ora. Sicuramente queste proteste non li lasciano indifferenti perché quando si scende in piazza in uno Stato prendono coraggio anche i movimenti per i diritti umani negli Stati confinanti.

Emmanuelle

Questo articolo è presente anche nella pagina Appunti

Articolo scritto tra l’autunno 1975 dc e la primavera 1976 dc e proposto a Quotidiano dei Lavoratori (quotidiano di Democrazia Proletaria). L’allora direttore, Silverio Corvisieri, lo rifiutò quasi inorridito. E sapevo perché. Lo si capisce leggendo l’articolo…

Emmanuelle

pexels-photo-185481.jpeg
Photo by Valeria Boltneva on Pexels.com

di Arnaldo Demetrio

Di fronte al successo che negli ultimi anni ha riportato il libro Emmanuelle, e gli altri che lo hanno seguito, e il film omonimo che è uscito recentemente, e che ha riportato un successo senza precedenti, è necessario, a mio parere, vedere di fare il punto su questo fenomeno niente affatto trascurabile, naturalmente filtrato attraverso una critica impostata in senso materialistico.

Quando, molti anni fa (prima del ‘68), Emmanuelle Arsan scrisse il romanzo, provocò un vero e proprio terremoto letterario: il libro narrava le esperienze erotiche e “filosofiche” della moglie di un diplomatico inglese in Thailandia (dietro la protagonista si celava chiaramente il nome di Emmanuelle Arsan, che peraltro è uno pseudonimo).

In quel libro la scrittrice, oltre a uno stile letterario veramente impeccabile e accurato nel descrivere le vicissitudini erotiche della protagonista, aveva anche l’ardire, per quei tempi, di tentare di costruire una “filosofia erotica” o, meglio, “filosofia nuda” (come la rubrica che la stessa autrice curava sul mensile Playmen) che considerasse l’erotismo e il conseguimento del piacere come scopo essenziale dell’uomo e anche come l’unico modo completamente valido per la liberazione dell’uomo stesso. Con quali implicazioni filosofiche, morali e religiose si può ben facilmente immaginare.

Il romanzo suscitò molto scalpore, e ad esso seguì, per mano della Arsan, L’Antivergine e Il Terzo libro: opere in cui si continuava a esporre gli stessi concetti, ma in modo più avanzato e perfezionato.

Come succede sempre nel mondo capitalista in fatto di consumi di massa, questi libri crearono una moda e, con la scusa che il nome della Arsan non fosse apparso sulle sue opere, autori ignoti pensarono bene di continuare il filone. Con il beneplacito della società dei consumi uscì almeno una decina di altre brutte copie di Emmanuelle, quasi tutti intitolati Emmanuelle 2, Emmanuelle 3 e così via, e chiaramente, pur imitando lo stile letterario specialmente nella descrizione delle scene erotiche, non potevano essere paragonate minimamente, come stile e tematica di fondo, agli originali della scrittrice anglo-asiatica.

La scrittrice acquistò molta fama in tutto il mondo ma non concesse mai interviste e non rivelò mai il suo vero nome: da anni collabora stabilmente al mensile Playmen in cui vengono pubblicate due pagine di Filosofia nuda, e una pagina di corrispondenza. Ultimamente, per evitare ulteriori equivoci, la scrittrice ha denunciato la casa editrice che aveva pubblicato i falsi e ha specificato ufficialmente il numero e i titoli delle sue opere.

Il discorso sugli intenti e sulla particolare filosofia e concezione del mondo della Arsan sarebbe lungo e, tutto sommato, abbastanza riducibile: praticamente si può dire che l’Arsan, per natura e per collocazione sociale profondamente borghese, fa del piacere fisico dell’uomo un fattore con grande influenza su tutto il resto, e in ciò non ci sarebbe nulla da dire, Epicuro Freud e Reich possono insegnarci molte cose: la differenza sostanziale sta nel fatto che l’erotismo e il piacere diventano qui il mezzo più importante, per non dire l’unico, per il conseguimento della felicità, e con questo la liberazione dell’umanità da tutte prevenzioni, tradizioni, superstizioni e tabù che tutti i filosofi marxisti, dallo stesso Marx in poi, hanno analizzato e che noi marxisti rivoluzionari faremmo derivare senza dubbio dal sistema capitalistico e borghese, e di cui vedremmo l’eliminazione solamente attraverso l’avvento del socialismo.

Ma la Arsan non la pensa così: lei colloca tutto il suo discorso in un ambiente raffinato e ultraborghese, e la liberazione la vede, come già detto, solo come sessuale, morale e religiosa.

Come se ciò non bastasse, i cineasti statunitensi hanno offerto un’altra occasione alla scrittrice per rincarare la dose e per puntualizzare meglio questi concetti: l’uscita sugli schermi di tutto il mondo del film Emmanuelle, che chi ha potuto vedere nell’edizione integrale (cioè non italiana, ovviamente) non può non riconoscere i pregi nella sceneggiatura, svia però e snatura profondamente il significato dell’opera da cui è tratto, con una conclusione profondamente reazionaria e razzista.

Per reazione a questo vero e proprio oltraggio alla sua produzione, Emmanuelle Arsan ha scritto un libro fortemente polemico, in titolato Il mio “Emmanuelle”, il loro Papa, il mio Eros, in cui attacca pesantemente la speculazione attuata col film.

Questo libro costituisce senza dubbio la summa di tutta la sua concezione della vita e del piacere, e un’occasione forse irripetibile per ontologizzare il suo pensiero.

La Arsan esordisce dicendo che l’Emmanuelle del film non la riconosce: il marito che gli sceneggiatori hanno dato alla mia Emmanuelle lei di certo non lo avrebbe sposato. Mario, misterioso iniziatore ai complessi riti dell’amore, è diventato un vecchio semi-paralitico, logorroico e travagliato dall’impotenza: la mia eroina ne avrebbe sicuramente riso; Emmanuelle, inoltre, io l’ho sempre immaginata con i capelli lunghi, e i movimenti improvvisi della sua nuca servivano a calare un momentaneo sipario d’ombra sulla bellezza dei seni spesso nudi, nel film persino i capelli sono diventati inopinatamente cortissimi. La scrittrice si domanda costernata perché abbiamo apportato tali cambiamenti al suo romanzo.

La Arsan risponde a questa sua domanda in maniera molto dura: perché mai il regista e lo sceneggiatore del film avrebbero dovuto corrispondere pienamente al suo libro se, in quel libro, non ci si rispecchiavano affatto? Basta leggere le loro dichiarazioni, guardare il loro comportamento nella vita, con la famiglia.

Il regista ha dichiarato apertamente che era profondamente avverso ai film erotici e che questa era la più triste esperienza della sua vita; il produttore ha detto che, per lui, farsi filmare in quel modo era profondamente disonorevole; la protagonista Sylvia Kristel, inoltre, per girare il film in Thailandia si è fatta accompagnare dal marito, ha affermato sfrontatamente di essere monogama e pudica, che non ama partecipare oggi a spettacoli erotici ed afferma, dulcis in fundo, che è favorevole alla censura della pornografia. Che cosa ci si può aspettare da gente simile, si chiede Emmanuelle Arsan. Ella dice, infine, che il grande successo del film è quindi in un certo senso ingiusto, perché si tratta di un’opera non sincera.

Tutto l’ultimo libro è profondamente segnato da questa specie di moralismo dell’eros: l’erotismo come pensiero e come azione, arte, missione, militanza, in cui non sono ammessi debolezze, compromessi e tentennamenti. Con sottigliezza da inquisitore si indaga senza pietà e si demoliscono eretici, deviazionisti e speculatori anche dove alcuni farebbero fatica a vederne: se si abbraccia la religione dell’eros, si afferma in pratica, bisogna essere coerenti fino in fondo, agire come si pensa, vestirsi come si agisce o, meglio, svestirsi come si vive e come si scrive. Io come vivo scrivo, afferma coraggiosamente la scrittrice: il mondo è pieno, ci dimostra, di molti falsi apostoli dell’erotismo, della moda, della politica, dappertutto. Ci sono donne che si comportano apparentemente con indipendenza e spregiudicatezza e poi seguono come ipocrite pecore i dettami della moda, rinunciando al valore provocatorio della nudità mostrata, limitandola ai ridicoli campi di nudismo, manifestazioni emblematiche di compromesso e autocensura: il nudo, infatti, ha il valore di provocazione in un mondo vestito, ha certo più valore in una chiesa che in una spiaggia recintata (di questo sembrano una conferma le manifestazioni di nudismo ultrarapido di questa estate, un po’ in tutto il mondo).

Altro fenomeno indicatore della doppia morale con cui molta gente si trastulla è l’amore: lo si fa al chiuso di stanze, lontano dallo sguardo e dai desideri degli altri; esclusione dal mondo diventa auto-esclusione, dice la Arsan. L’amore è come un’arte e come tale si realizza liberamente, dev’essere fatto con la gente e tra la gente.

Dopo il maggio del ‘68, afferma ancora, le istituzioni del potere, che sui tabù e le paure fondano il loro predominio e la loro sopravvivenza, sembrano riguadagnare terreno: qual’è la soluzione, quando anche coloro che affermano di voler cambiare le cose mostrano di essere coinvolti nella cupa logica dei divieti e delle costrizioni e guardano con sospetto l’arma del piacere, dell’amore, che più di ogni altra ci può condurre alla liberazione (e questa è l’affermazione più contestabile della Arsan)?

Afferma che l’erotismo introduce l’emozione dell’arte nell’amore, e quest’arte diventa civilizzatrice e anticipatrice: un’azione di moralismo controcorrente, come lei stessa la chiama, ed un ruolo che né il politico, né il moralista, né il sociologo e il filosofo sono in grado di svolgere, il loro compito non essendo quello di annunciare il sogno, che appartiene invece all’arte erotica, e cui è alla ricerca.

Nel volume, otre a tre nuovi racconti molto esemplificativi e in linea con il resto dell’opera, è di nuovo pubblicato il pamphlet contro l’enciclica anti pillola di Paolo VI del 1968: in esso la Arsan dice che la Chiesa concepisce l’amore come fedeltà e come strumento destinato esclusivamente alla riproduzione secondo natura. Da una parte il matrimonio, in cui la donna finisce praticamente per prostituirsi in cambio di una sorta di assicurazione a vita, e dall’altra un’opposizione medievale alle tecniche e ai mezzi meccanici inventati dall’uomo per evitare nascite e provare un piacere completo, se non altro. Gli organi sessuali destinati soltanto alla procreazione, si domanda indignata l’autrice di Emmanuelle, sarebbe come volere condannare la parola perché la bocca è fatta soprattutto per mangiare!

Sinceramente ci sarebbe molto da dire su tutto ciò, anche se personalmente non posso fare altro che condividerle: si può dire, come conclusione, che sarebbe certamente auspicabile che il messaggio della Arsan venisse sfrondato da tutta la paccottiglia tipicamente borghese e venisse invece valorizzato da tutto il patrimonio etico, politico, sociale, filosofico e rivoluzionario di cui sono capaci soltanto il marxismo e il materialismo dialettico anche se, ovviamente, bisogna stabilire delle priorità. La priorità attuale è, senza ombra di dubbio, il rovesciamento del sistema borghese e l’instaurazione di uno Stato socialista e autenticamente proletario.

La rivoluzione ideologica, filosofica e sessuale si può iniziare a costruirla adesso ma non si deve fare di ciò, come spesso è accaduto, un elemento deviante da quelli che sono i compiti attuali, e irrimandabili, del movimento operaio e popolare.

Scordatevi la libertà che date per scontata

Da Hic Rhodus l’articolo del 25 Marzo 2020 dc:

Scordatevi la libertà che date per scontata

di Claudio Bezzi

L’articolo è incentrato sul corona virus e, soprattutto, sul dopo. Essendo molto lungo ed articolato, e con numerosi rimandi interni ed esterni, lo potete trovare per intero qui.

Di seguito riporterò solo la parte finale.


***

Molti dei marchingegni che mi hanno tolto un pezzettino di libertà sono nati probabilmente per ottime ragioni: le telecamere per scoraggiare i ladri; la tracciabilità delle carte per combattere l’evasione; i controlli all’aeroporto per contrastare il terrorismo.

Altri sono stati elaborati, in mancanza di leggi e di reali possibilità di impedirlo, per imbrogliarci, o quanto meno per sedurci, subornarci, invogliarci a comperare un certo prodotto o – udite udite! – a votare un certo partito, e sappiamo ormai bene come esistano centrali eversive dedicate a questo (si legga sempre Ottonieri su questo punto).

È spaventoso: sappiamo che ci sono centrali eversive dedicate a questo, ma non possiamo farci nulla, salvo vedere folle manipolate in occasione di importanti appuntamenti politici. E poiché gli esiti di quegli appuntamenti politici si riverberano pesantemente sulle vite di tutti, mia inclusa, io mi irrito molto e ritengo di essere privato di alcune libertà fondamentali del mio essere cittadino.

Il progresso, in particolare tecnologico, ci ha dato con una mano il potere di controllare sempre più e meglio le azioni illegali, mentre con l’altra ci ha sottratto pezzi crescenti di libertà.

Il mondo distopico che ci attende, ben previsto dalla letteratura fantascientifica, è quello del controllo totale. Un bel microchip e nessuno potrà delinquere, perché saremo tutti, sempre, sotto l’occhio dell’autorità.

Chi, a questo punto, dovesse dire “ma io sono una persona onesta, non ho nulla da nascondere, ben venga il microchip”, è un agente inconsapevole del Grande Fratello prossimo venturo.

***

L’aumento del controllo nasce come rincorsa dell’autorità al mantenimento di una funzione sempre più residuale: il Potere, così come conosciuto fino al Novecento, che si esprime con la gestione della concessione delle libertà, come scritto sopra.

Ti concedo la libertà d’impresa e ti impongo le tasse; poiché potresti non pagare le tasse ti controllo; poiché i controlli sono lunghi, complicati e colgono a caso nel mucchio, ti obbligo a procedure elettroniche che posso controllare, memorizzare, incrociare con altri dati.

Ti concedo la libertà di viaggiare, ma ci sono pericoli, potresti trasportare armi, droga o, in questi giorni (Nota mia: marzo 2020 dc), virus; allora ti obbligo a controlli sull’identità, sul carico, su cosa potresti portare illegalmente dentro il tuo corpo.

Ti concedo la libertà di produrre e commerciare, ma sotto una valanga di norme, restrizioni, vincoli, decreti, procedure sanitarie, procedure commerciali, procedure fiscali…

Oggi non esiste una sola libertà che non sia, nei fatti, monitorata e controllata come minimo, ristretta e condizionata sempre più.

***

Quale risposta dare agli agenti del Grande Fratello che non trovano poi così spaventosa questa cosa?

La risposta è la disumanizzazione già in fase avanzata di realizzazione.

In un mondo prossimo venturo non avremo, forse, criminali, ma saremo automi totalmente omologati. Mangeremo le stesse cose, vedremo gli stessi programmi tv, andremo nelle stesse palestre a tenerci forma all’insegna degli stessi ideali di bellezza e salute.

Se non vedete il nesso, e vi sembra che io abbia compiuto un salto logico, cercherò di spiegarmi avanzando in un terreno forse azzardato ma che a me appare una semplice conseguenza logica: una volta che tutti saremo profilati, controllati, “costretti” alla legalità per come stabilita dall’autorità, non credete forse che sarà decisamente facile, facilissimo, imporre comportamenti convenienti sul lavoro, sulla cultura e l’istruzione, sulla forma di cittadinanza…? Ormai nella rete, completamente dipendenti da quelle medesime tecnologie che ci controllano, cosa sarebbe dei nostri diritti?

L’autorità (che sia il Partito Comunista Cinese, il congresso degli Stati Uniti o il presidente Putin al suo venticinquesimo mandato) troverà, nel controllo assoluto, la risposta all’ingovernabilità della complessità. La complessità sarà semplicemente abolita per legge, i cittadini saranno resi inermi e prevedibili, totalmente prevedibili.

6) Una strada senza uscita

Se ritenete che io sia andato troppo avanti con la fantasia, abbandonando la strada del rigore logico, vi mostro un chiaro esempio di ciò che stiamo diventando, perché c’è un bellissimo caso empirico contemporaneo: la Cina.

Grazie al controllo capillare della popolazione, al diffusissimo riconoscimento facciale, alle forze di polizia, a leggi repressive, al controllo dell’informazione, alla possibilità di mobilitare dall’oggi al domani mano d’opera e risorse (il famoso ospedale costruito in sette giorni…) e –  si badi bene, questo è fondamentale – grazie a uno straordinario consenso di massa, tradotto in disciplina e accettazione delle privazioni di libertà, grazie a tutto questo la Cina ha pagato un prezzo sostanzialmente limitato alla crisi del coronavirus mentre noi in Italia siamo in mezzo al guado, abbiamo già da giorni superato, in numero di vittime, la Cina e, quel che è peggio, non ne vediamo la fine.

Perché l’autorità è stata debole e timida sin dall’inizio, e ha progressivamente reso più rigide le norme di comportamento inseguendo il virus e l’indisciplina dei suoi cittadini, anziché prevenire. Perché noi siamo LIBERI, e un sacco di nostri amabili concittadini ritiene che essere liberi consista, innanzitutto, nel non farsi mettere i piedi sul collo da un Conte qualunque, da un Renzi qualunque, da un Di Maio qualunque, insomma: da un’autorità qualunque.

***
Ed ecco il trade off (Nota mia: scelta? Perché ostinatamente scriverlo in inglese?).

Da un lato il virus non ci piace e ci uccide.

D’altro lato la risposta cinese ci fa orrore.

E così maciniamo morti, si deve sperare in miracoli (il caldo rallenterà il virus? Meno male che andiamo verso l’estate…), l’economia va a rotoli, l’Europa si sfascia, a New York fanno la fila per comperare armi, molto più utili del pane in tempo di crisi, insomma: assomiglia abbastanza a una piccola Apocalisse.

Vorrei segnalare che abbiamo in realtà solo tre, e non più di tre, soluzioni, ciascuna delle quali ben rappresentata da un caso storico contemporaneo:

• il timido inseguire la crisi, tipico delle società occidentali; da noi la libertà è sacra, e ne possiamo sacrificare piccoli pezzetti, un po’ alla volta, solo dopo l’evidenza della crisi, e sempre con incertezza, con limiti, con defezioni;

• il rigido intervento illiberale alla cinese, di cui sapete già;

• il laissez faire (Nota mia: lasciate fare) alla Putin, che sta con tutta evidenza fingendo che il virus non ci sia, o sia una sciocchezzuola; il coronavirus dilagherà, ammazzerà un bel po’ di persone (in prevalenza vecchi e malati, dopotutto non un grande danno, anzi…) ma non minerà le strutture fondamentali del Paese, la sua economia e, men che meno, la sua Autorità, che non avrà avuto necessità – come in Occidente – di avere un confronto difficile con la popolazione.

Se adesso riuscite a fare un ragionamento puramente logico e non emotivo, vedrete facilmente che il modello cinese ha funzionato alla grande; quello putiniano chissà, potrebbe anche essere un successo; mentre quello occidentale è sotto gli occhi di tutti: un disastro immane sotto ogni punto di vista: sanitario, economico, sociale, istituzionale.

***

Attenzione perché adesso arriva la questione veramente centrale, alla quale è difficile rispondere col cuore, col fegato, con la pancia o con qualunque altra frattaglia.

La domanda che ora si pone è: cosa vogliamo, veramente, dalla vita?

Ricordate sopra l’esempio della sicurezza sociale: più controlli significano più sicurezza, ma meno libertà. Anche nel caso del coronavirus la questione si pone in maniera analoga: volete pochi contagiati e pochi morti? Occorreva da subito il pugno di ferro; vi fa orrore e preferite la libertà (e la responsabilità) individuale? Allora vi tenete i morti e il tracollo economico.

Occorre accettare il fatto che non c’è una via intermedia: salvezza del virus con libertà per tutti; no malavitosi in giro con libertà per tutti; no evasori fiscali con libertà per tutti… Chi fra voi è vecchio come me morirà prima di vedere chi avrà avuto ragione, ma i giovani saranno presi in pieno dal ciclone che si sta preparando e che arriverà in tempi brevissimi.

Questo ciclone si chiama tracollo delle democrazie occidentali nate dalle due rivoluzioni (Nota mia: una mi immagino sia la Rivoluzione Francese ma l’altra, qual’è? Quella sovietica? Non credo che l’autore pensi a quella…) e morte silenziosamente alla fine del Novecento. E con esse, evidentemente, il concetto di ‘libertà’ di cui stiamo trattando e molti altri collegati.

***

C’è una considerazione ancora, importante.

La complessità non si può spegnere.

Le tecnologie non si possono spegnere, così come non si può spegnere il progresso, coi doni che ci porta assieme alle trappole che ci tende.

Non possiamo spegnere la globalizzazione, Internet, la WTO, la ricerca biologica, quella sull’intelligenza artificiale… Non possiamo spegnere l’inquinamento, non possiamo spegnere la sovrappopolazione, come non possiamo spegnere la stupidità dilagante.

Siamo tutti su un aereo in volo, il pilota è morto, la rotta ignota e quel che accadrà, che ci piaccia o no, accadrà.

La complessità, come ho già detto, non è governabile.

Una conseguenza di questa ingovernabilità è che il modello di governo vincente, fra i tre menzionati sopra, si affermerà comunque, indipendentemente da ciò che faremo.

E onestamente, se proprio devo dirlo, non scommetterei un euro sulla vittoria finale del modello democratico occidentale. Guardo con viva simpatia al modello putiniano, così amorale e cinico che – lo confesso – ben si attaglia al mio carattere; ma il famoso euro, alla fin fine, lo piazzerei sul modello cinese. Loro sono già al traguardo, hanno già vinto.

Sono autoritari e massimalisti? Chiedetelo a un cinese tipico, anche colto, e vedrete se trovano di che lamentarsi sul modo in cui Xi Jinping ha gestito la crisi.

E con questo vi saluto.