Appunti


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Mettendo mano alla libreria (anche per realizzare l’elenco dei miei libri, visibile qui), nel Gennaio 2020 dc, ho trovato dei piccoli fogli di carta, tenuti insieme da un punto metallico. Risalgono sicuramente agli anni Settanta del XX secolo quando, insieme alla gioventù e al fervore politico, c’era, nonostante il mio pessimismo di fondo, una qualche fiducia nel cambiamento.

Ci sono anche tre articoli che scrissi con Federico Porta lavorando a Quotidiano dei lavoratori e, dopo averla cercata per un po’, una lettera che scrissi allo stesso quotidiano, tempo dopo, e che fu, incredibilmente, pubblicata. C’è anche dell’altro.

Sono più o meno in ordine cronologio, dal più vecchio al più recente.

Ve li propongo qui, se volete divertirvi. Vi prego di sorridere, non di sghignazzare….

(Ultimo aggiornamento: 4 Novembre 2021 dc)


Cronologia

(circa 1972 dc)

  • 1960 Nascita della contestazione.
  • 1968 Maggio francese. Rivolta dei gruppi rivoluzionari comunisti boicottata dalle sinistre. Sviluppo dei gruppi.
  • 1969 Autunno caldo italiano. Nascita dei gruppi e progressivo superamento a sinistra del PCI.
  • 12/12/1969 dc Strage di Stato a Milano, ulteriore anello di una catena di attentati fascisti attribuiti agli anarchici. Inizio della controinchiesta dei gruppi a seguito dell’incriminazione di Valpreda.
  • 1970-1972 dc Rafforzamento dei gruppi. Scarcerazione di Valpreda dopo tre anni. Varo di una legge contro la carcerazione preventiva. Uccisione di Calabresi, boia della polizia: chiara provocazione di destra e conseguente campagna anticomunista.
  • 07/05/1972 dc Elezioni politiche in Italia. Sconfitta degli extraparlamentari che si presentano, leggero calo percentuale del PCI, scomparsa del PSIUP, stabile il PSI, raddoppio della destra.
  • 10/03/1973 dc Elezioni politiche in Francia. Comunisti, socialisti, radicali ed estremisti si presentano uniti. Il fronte ottiene il 46%, il gollisti (RPR, Rassemblement Pour la Republique) il 38%, i riformatori il 12%. I gollisti rimangono al governo solo grazie all’iniqua legge elettorale e all’apporto dei riformatori. Gli estremisti ottengono il 5% dei voti. In Cile il Fronte Popolare ottiene il 46% dei voti, contro il 34 di quando è salito al potere. La DC e l’opposizione ottengono il 52%, ma non vanno al potere. In Argentina le elezioni sono vinte dai peronisti che eleggono Campora presidente.
  • 1976 dc Elezioni politiche in Francia. Il Fronte ottiene il 52% dei voti e va al potere malgrado la legge elettorale. Gli estremisti ottengono il 7%.
  • 1978 dc Elezioni politiche in Italia. Le sinistre si presentano unite. PCI, PSI, PUP ottengono il 50% dei voti, la DC, i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici il 48%, la destra il 5% e gli estremisti di sinistra il 6%. Elezioni presidenziali in USA: i democratici rafforzano le loro posizioni al Congresso e vengono sconfitti nella gara alla presidenza.
  • 1977-1982 dc Gli estremisti di sinistra in Italia si uniscono, formano un esercito clandestino e si preparano al golpe.
  • 1982 dc Mentre Senato, Camera e grandi elettori sono riuniti per l’elezione del Presidente i rivoluzionari occupano di sorpresa il palazzo del governo, bombardano le truppe di presidio e prendono in ostaggio le persone lì riunite. Contemporaneamente il comandante delle truppe USA in Italia viene presidiato nel suo appartamento e scoppia una rivolta nell’esercito. Dopo vari tafferugli la popolazione viene informata dell’accaduto. L’esercito, temendo per la vita degli ostaggi, si astiene dall’intervenire e depone le armi. Per un anno il governo rivoluzionario provvisorio si serve degli ostaggi come garanzia di sopravvivenza del governo comunista. Il 18 Marzo 1983 dc, anniversario della Comune di Parigi, viene proclamata la Repubblica Popolare Italiana, mentre la situazione è ancora tesa. La propaganda nell’esercito porta molti soldati dalla parte del governo, mentre l’esercito rivoluzionario si ingrossa sempre più e mantiene ordine nel Paese. Frattanto il fascismo viene spietatamente debellato, i vecchi partiti (DC, PRI, PSDI e PLI) sciolti, tutte le riforme vengono attuate drasticamente (casa, scuola, cultura, occupazione, informazione, sport, mezzogiorno). Nel 1985 dc il PCI ed il PSI vengono invitati a sciogliersi e a confluire nel Partito Comunista d’Italia (Sezione della IV Internazionale) nascente. I due partiti si smembrano e per il 56% confluiscono nel nuovo partito, mentre  la parte restante si organizza in un Partito Socialista Internazionale che raccoglie l’8% del consenso popolare. Il nuovo partito rivoluzionario ha il 34% di consensi mentre il restante 48% è ancora legato ai vecchi partiti sciolti. Col crearsi, però, in Italia di uno Stato finalmente a favore del popolo molti cambiano opinione.
  • 1993 dc In Grecia il regime di destra viene rovesciato e sostituito da un fronte democratico nel quale i comunisti hanno il 38%. Accordo con Francia e Italia.
  • 1995 dc Consultazioni popolari per la fiducia al governo: il PCdI ha il 54%, il PSI il 26% mentre rimane un 20% di indecisi. Con l’aiuto dell’Italia gli estremisti francesi portano a una svolta nel governo frontista, avvicinandolo alle posizioni rivoluzionarie e concludendo un accordo di collaborazione con l’Italia e i movimenti rivoluzionari di altri Paesi.
  • 1997 dc Stessa sorte della Grecia tocca alla Spagna e al Portogallo, dove si instaurano regimi comunisti. Accordo con Francia, Italia e Grecia.
  • 1998-2000 dc Si aprono i lavori della V Internazionale Comunista a cui partecipano, con gli altri, Italia, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna e, in qualità di osservatori, Svezia, Norvegia, Finlandia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca e Irlanda, tutti membri dell’Internazionale Socialista.
  • 2004 dc Tutti gli sforzi si concentrano sullo sviluppo del comunismo in Germania ed Inghilterra.

Avevo perfino realizzato, con penne biro, una cartina dell’Europa con la “Situazione nel 2004”, e la legenda indicava con il colore rosso i Paesi comunisti, con i quadretti rossi i Paesi filo-sovietici, con i puntini rossi i Paesi socialisti. Restavano in bianco il Regno Unito (senza l’Irlanda del Nord), la Germania, la Svizzera e l’Austria. L’apoteosi dell’ottimismo. Assolutamente ingiustificato.

I piano quinquennale

della RPI (Repubblica Popolare Italiana) del PCd’I (Sezione IV Internazionale)

(circa 1973 dc)

  1. Soppressione dei partiti borghesi.
  2. Eliminazione del fascismo.
  3. Blocco delle frontiere.
  4. Sequestro di beni e terreni dei magnati, dei politici, dei padroni.
  5. Uscita dalla NATO.
  6. Aumento dei salari.
  7. Parificazione operai-impiegati.
  8. Eliminazione della disoccupazione.
  9. Salario minimo garantito.
  10. Aumento delle pensioni garantite a tutti.
  11. Obbligo di lavoro agli studenti dai 18 anni in poi.
  12. Servizio di leva periodico.
  13. Sequestro delle case private.
  14. Costruzione di case popolari.
  15. Diminuzione degli affitti adeguati agli stipendi degli abitanti.
  16. Controllo dei prezzi.
  17. Abolizione dei privilegi parlamentari.
  18. Sviluppo di scuole, sport, cinema e turismo.
  19. Propaganda antireligiosa a tappeto.
  20. Rottura dei rapporti col Vaticano.
  21. Occupazione al più presto dello Stato del Vaticano. Fine ultimo: chiusura delle chiese e scomparsa della religione.

Riforme

(circa 1973 dc)

  • Riduzione della giornata lavorativa a un massimo di 7 ore per 5 giorni, con pausa di 1 ora dove vi sia una mensa e di 2 ore dove non vi sia.
  • Livellamento dei salari da un minimo di 340000 lire al mese ad un massimo di 400000.
  • Controllo severo dei prezzi da parte del Ministero dell’Ispezione e dell’Interno: in caso di violazione la merce sarà distribuita gratuitamente alla popolazione.
  • Per i professionisti obbligo di redigere un rendiconto mensile delle entrate. In caso di truffa vi sarà una condanna a lavori pesanti in miniere, scavi etc.
  • Snellimento e alleggerimento in tutti gli uffici amministrativi, postali, pubblici, bancari etc.
  • Età pensionabile a 60 anni per uomini e donne.
  • Pensione equivalente al 90% del più alto e più recente salario percepito.
  • Socializzazione delle imprese.
  • Semplificazione e unificazione delle imprese.
  • Incremento industriale nell’agricoltura.
  • Rivalutazione dell’artigianato e dei settori terziari.
  • Eliminazione dei capitali stranieri.
  • Scioglimento dei partiti di destra e persecuzione del fascismo e di ogni suo tentativo di rinascita.
  • Messa fuori legge della DC e del PLI
  • Invito ai militanti del PCI, del PSI e agli indipendenti di sinistra a confluire nel Partito Comunista Rivoluzionario Internazionalista.
  • Incremento alla cultura, al cinema, alla musica, a tutti gli sport, alla fondazione di club, alla vita all’aria aperta (con l’organizzazione di campeggi), al naturismo.
  • Limitazione di caccia e pesca.
  • Salvaguardia effettiva della natura.
  • Difesa dell’ambiente.
  • Controllo sugli scarichi.
  • Controllo delle nascite.
  • Eliminazione della prostituzione stradale.
  • Organizzazione di case di ritrovo per la comunicazione, il ritrovo e la sessualità libera.
  • Incremento degli impianti turistici.
  • Sviluppo delle zone di montagna.
  • Creazione di nuovi parchi nazionali con personale ben pagato ed interessato.
  • Statalizzazione delle banche in una sola confederazione bancaria.

Quotidiano dei lavoratori– circa fine 1974-inizio 1975 dc

Libera musica e musica militante:

viaggio tra i nuovi complessi popolari

La musica «giovane» tra spontaneità, strumentalizzazione borghese e uso militante – Alcuni accenni sui precedenti storici – Seguiranno interviste

Già altre volte abbiamo accennato ai temi legati al fiorire di esperienze musicali che, nel nostro e in altri Paesi, hanno accompagnato la nascita e la crescita dei movimenti studenteschi e del proletariato giovanile.

Si tratta di contributi estremamente vari come moduli espressivi e ricchi di una creatività che è derivata direttamente dal loro essere in rapporto con tradizioni popolari, esperienze di lotta e situazioni storico-sociali molto dissimili tra loro. Un elemento comune però li ha in genere caratterizzati: quello di voler essere un modo «nuovo» di far musica, più direttamente legato alle aspirazioni, ai sentimenti e alle ansie di interi settori delle masse giovanili. Un altro loro pregio è stato senza dubbio quello della facile riproduzione di certi moduli, funzionali cioè alla crescita e alla formazione di centinaia e centinaia di nuovi «cantori» in ogni momento di vita collettiva e in ogni ambito di ritrovo o di attività sociale.

Dietro a un certo numero di «super-complessi» facilmente riassorbiti e «venduti» all’industria culturale borghese, abbiamo così assistito al diffondersi di migliaia e migliaia di giovani «cantautori» e di complessi, presenti in ogni angolo delle grandi città e delle grandi società industriali. Un fenomeno che più direttamente politico è il più delle volte significativo indirettamente come testimonianza della volontà delle nuove generazioni di volersi esprimere autonomamente, senza concedere deleghe al professionismo gestito dalla mistificante industria borghese.

Pubblichiamo oggi il «cappello» all’inchiesta che due compagni stanno conducendo tra le formazioni più direttamente impegnate, sia politicamente che professionalmente, a dare uno sbocco conseguente di lotta a molto di questo bagaglio spontaneamente cresciuto.

È questo, dunque, solo un articolo introduttivo: lo svolgimento dei temi che qui vengono accennati è demandato agli ulteriori contributi sia dei due compagni che hanno firmato questo «inizio», sia di altri.

Valutando tutti gli aspetti del problema relativo alla fase di progettazione del lavoro abbiamo pensato che la forma migliore doveva essere quella di un discorso generale sulla musica alternativa, arricchito dai pareri di alcuni musicisti particolarmente impegnati in questo senso. Il punto di vista da cui partire doveva essere quello del compagno senza pregiudizi (come molti tendono ad avere, facendo una netta distinzione tra musica e politica) che, avendo di fronte due tematiche tende a collegarle dialetticamente.

Detto questo, ci sembra necessario affermare che inevitabilmente si deve uscire dall’ottica del rivoluzionario che, nei ritagli di tempo, si interessa alla musica solo come momento puramente evasivo dalla lotta di classe: questa concezione la rifiutiamo in blocco.

La musica come aspetto della cultura e dell’arte deve rientrare nel campo d’azione del rivoluzionario, perché la rivoluzione, per essere tale, deve essere totale.

Ci sembra necessario, a questo punto, fare un accenno ad alcuni aspetti del movimento musicale da 15 anni a questa parte, quando dopo un lungo periodo pressoché uniforme, dominato dalla musica leggera tipicamente convenzionale e commerciale (si pensi ai vari Sinatra, Martin, Como ecc.), incominciano a svilupparsi, ancora in forma embrionale, nuove espressioni musicali. Loro precedenti storici sono senza dubbio alcune isole emergenti dal conformismo dominante e mantenute intatte per anni: come il blues, il jazz e lo spiritual, tipiche espressioni musicali nate come ribellione alla condizione di sfruttamento e di subordinazione che molte

categorie sociali ed etniche subivano nella società capitalistica americana. Ma, mentre il blues e lo spiritual sono rimasti in gran parte dei fenomeni di massa abbastanza inseriti in un contesto di lotta, il jazz invece aveva finito col diventare non più una musica popolare negra ma un fenomeno snaturato dalla imposizione culturale e ideologica dell’industria discografica americana.

È solo verso gli anni sessanta che incominciano ad apparire le prime manifestazioni di una nuova musica e, con temporaneamente, di un nuovo modo di vivere la musica: l’esplosione del beat e la nascita dei primi complessi musicali. Ed ecco subito il dilagare del fenomeno dalla originaria Inghilterra all’Europa e, ancor più, all’America.

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ll sovrapporsi della marea montante della contestazione a questo fenomeno, che era dovuto ad un certo spirito di ribellione alle precedenti forme musicali piuttosto che ad una caratterizzazione politica ben precisa, non sarà scevro di ambiguità e controsensi. Mentre in Inghilterra il beat rimarrà una base portante del movimento musicale anche nei suoi ulteriori sviluppi, in America, dopo un primo periodo alquanto breve di subordinazione al beat inglese, subirà una radicale trasformazione determinata dal suo mescolarsi con il folk popolare americano: nasceranno così il folk e il country di Bob Dylan, Ahrlo Guthrie, Country Joe e tutta una generazione di musicisti che diventeranno i protagonisti di un’epoca, fino a diventare una espressione tipica dello spirito americano progressista.

Con caratteristiche più marcatamente alternative nascerà il cosiddetto «underground», un movimento non solo musicale ma anche culturale, artistico e cinematografico. Ma anche qui riteniamo importante avanzare alcune riserve, e da diversi punti di vista. Infatti, se da una parte l’«underground» rappresentò un notevole passo in avanti in senso anticonformista e per certi versi anche antimperialista, d’altro canto ebbe dei grossi limiti per lo spirito pacifista e anarco-hippy che lo caratterizzava. In sostanza, benché avesse dei collegamenti con la contestazione studentesca, non riuscì a trovare un preciso sbocco di classe.

Quando questo nuovo movimento musicale uscirà allo scoperto e subirà il contatto del rock, del neoclassico, del jazz e di altri generi musicali, nascerà l’odierna musica «pop», che successivamente si amplierà in un panorama abbastanza vasto di tendenze. Resta il fatto che più o meno tutti i movimenti musicali nati dopo il beat sono stati prima corteggiati e poi in parte recuperati dal circuito borghese .

È partendo da questa constatazione, e dal dato di fatto che la musica autenticamente popolare è stata troppo spesso ignorata o perlomeno snaturata, che partiamo per individuare l’importanza che questo tipo di musica ha, necessariamente, per un discorso di classe e alternativo. In questo senso stanno operando i compagni de «l’Ochestra» e quindi abbiamo creduto importante parlare con loro di tutti quelli che sono i più grossi problemi rispetto alla creazione di un più ampio movimento musicale di classe.

(continua)

Federico Porta

Arnaldo Demetrio


Quotidiano dei lavoratori- circa fine 1974-inizio 1975 dc

Libera musica e musica militante:

viaggio tra i nuovi complessi popolari

Intervista con il Gruppo Folk Internazionale – L’esperienza con Ewan MacColl e l’inizio di un impegno politico più preciso – La ricerca di un panorama internazionale di musica popolare

Abbiamo ritenuto necessario parlare con alcuni di quei musicisti che si stanno sforzando, uscendo dal circuito discografico borghese, di fare della musica che tenga conto delle esperienze della classe operaia e del proletariato in genere.

Abbiamo impostato la discussione su quelli che riteniamo siano i temi più importanti su questo argomento: l’importanza di una cultura di classe antagonista alla cultura borghese; il rifiuto del circuito borghese e problemi che ciò comporta; l’importanza della musica popolare come diretta espressione dei sentimenti e delle esigenze delle classi popolari; l’uso che la borghesia ha fatto della musica popolare fino ad oggi; il rilancio della musica popolare attraverso uno studio e un approfondimento di essa, con una precisa osservazione della realtà in chiave marxista; la verifica continua con le masse attraverso l’inserimento in tutte le istanze gestite dai proletari e attraverso l’utilizzo di tutti i possibili spazi democratici; il recupero e la valorizzazione di quei movimenti musicali nati da precise situazioni di classe (jazz, blues negro ecc.); il giudizio critico dell’attuale situazione musicale e la valutazione dei tentativi innovatori espressi in questi ultimi anni.

Su questa base siamo andati a parale con Moni, del Gruppo Folk Internazionale, che fa parte de «L’Orchestra, e gli abbiamo posto alcune domande.

Come avete iniziato la vostra attività musicale?

Le prime esperienze con Enrico si indirizzavano, da precise esperienze jazz e blues, verso la musica popolare sudamericana, una musica dilettantistica ma con un preciso impegno politico: si poneva allora il problema di conciliare l’interesse politico con i contenuti popolari. Una esperienza molto importante l’abbiamo avuta con Roberto Levi che già stava lavorando sulla musica popolare del nord Italia.

Abbiamo formato l’Almanacco Popolare con il preciso scopo di ricalcare stilisticamente la musica popolare, studiando attentamente il periodo storico nel quale è situata. Più avanti, nel ’68, con la contestazione e le prime lotte studentesche, inizia per me e per Enrico un discorso solamente culturale. Nel riflusso che ebbe poi lo spontaneismo del ’68 abbiamo avuto un momento di riflessione, e per un certo periodo abbiamo meditato sulle esperienze fatte. In questo periodo abbiamo avuto un incontro con Ewan MacColl, sessantenne folksinger, studioso di teatro, ricercatore e ripropositore specialmente del patrimonio culturale britannico.

Egli riusciva perfettamente ad abbinare un discorso di ricalco stilistico ad una grande coscienza politica: ha avuto esperienze in Cile, c Cuba, nei Paesi dell’America Latina, ha fatto canzoni sul Vietnam esprimendo appieno il discorso politico, culturale e popolare del popolo vietnamita (tanto che una di queste è stata tradotta in vietnamita ed è diventata una canzone di battaglia dei viet cong). Da quel momento diventò per noi un punto di riferimento: egli ci portò la sua conoscenza rigorosa della cultura delle classi oppresse e del revival, cercammo di conoscere meglio Dylan, con tutti i limiti che può avere, Violeta Parra, Victor Jara, Woody Guthrie ecc.

Da quel momento ci siamo indirizzati verso un repertorio internazionale anche se abbiamo dovuto superare gli ostacoli derivanti dalla non conoscenza diretta delle espressioni musicali straniere: abbiamo voluto inserire in questo programma anche canzoni slave ed ebree che avevano un particolare significato politico e popolare.

Questo tentativo è possibile portarlo avanti con successo attraverso tutti i canali possibili: abbiamo trovato delle difficoltà specialmente con il repertorio anglosassone e siamo stati costretti a precedere con presentazioni e spiegazioni l’esecuzione dei pezzi, ma nonostante le grandi difficoltà che di fronte a noi si ponevano abbiamo avuto grosse soddisfazioni, specialmente con il pubblico operaio.

La musica borghese come tale esprime i valori, i concetti e gli ideali della classe al potere, quindi la musica se vuole essere alternativa deve uscire dal circuito borghese esprimendo concetti ed idee antiborghesi, anticapitalistici, in senso rivoluzionario. Voi pensate di fare musica alternativa?

Si, sono perfettamente d’accordo: il discorso alternativo in campo musicale è decisamente in antagonismo alla cultura borghese, però non basta che un contenuto sia rivoluzionario affinché esso sia realmente alternativo: bisogna fare della musica che nasca da un approfondimento delle tematiche sociali, bisogna fondere la propria esperienza con quella della classe operaia: il lavoro artistico deve essere integrato dalla esperienza popolare. C’è al proposito, una citazione da Mao-Tse-tung che suona pressappoco così: «Se un’opera artistica può avere validità politica deve anche avere validità artistica».

Esiste poi, una polemica tra musica popolare intesa nel senso già accennato e invece un discorso populista e in fondo contrario alla cultura della classe operaia, anche perché essa non ha la possibilità di recepirlo. Lo stesso vale per la musica pop in generale, che considero una mistificazione ad alto livello. La musica alternativa deve essere una musica nuova: deve tenere presente le istanze delle classi popolari, del fronte antifascista, deve essere una musica che deve seguire tutte le fasi della lotta di classe, deve osservare le condizioni delle classi proletarie, con una precisa aderenza alla realtà.

Secondo voi, musicisti anche commercialmente conosciuti come Guccini, Venditti, De Andrè, Bennato ecc. sono riconducibili ad un discorso di classe sulla musica o rientrano almeno parzialmente nel circuito borghese?

È molto difficile parlare di questi musicisti: sono sì inseriti in un circuito borghese anche se non si può negare che abbiano un certo ruolo positivo al livello del discorso di classe, benché il loro è e rimane un discorso principalmente radicale piccolo-borghese, vedi anche Gaber. Lo stesso discorso si può fare, naturalmente ad un altro livello, per il cinema, vedi la contrapposizione che vi può essere tra il cinema di Chaplin, impegnato solo di riflesso, e il cinema di Eisenstein. È importante rifuggire e rifiutare la retorica, affinché ciò che si esprime sia sentito profondamente: Woody Gutrie, benché non fosse un marxista riportava nelle sue canzoni un alto contenuto di classe.

Tenendo conto dell’importanza che per le masse giovanili ha un certo tipo di musica inserita più o meno nel circuito borghese, anche non impegnata socialmente o politicamente (pop, Crosby, Stills, Nash and Young), credete sia possibile inserire anche questo tipo di musica in un discorso alternativo?

No decisamente CSN&Y no: non fanno e non hanno fatto nessun discorso di classe. È un genere di musica che è già fin troppo proposto dai canali borghesi e non merita di essere riproposto per un discorso di classe: credo che sia una musica superata e da combattere. La nostra musica deve invece acquistare una identità precisa, marxista, solidale con la lotta di classe di tutto il mondo, deve essere una musica prodotta dalle classi oppresse e riproposta con gli stessi temi e lo stesso senso con la quale è stata fatta. In questa ottica si inserisce l’importanza di un profondo studio della storia e della cultura popolare e il far capire come le classi subalterne abbiano espresso i loro sentimenti e come esse si siano avvicinate alla musica: la musica popolare esprime alti valori stilistici e di contenuto per cui non hanno nulla da invidiare alla musica borghese.

La musica pop ha scelto e sceglie un’altra strada che è quella del rifiuto dei grandi temi non considerando che la musica è sempre politica: la borghesia porta e impone già la sua musica, ed è quindi importante contrapporre una musica nostra, autenticamente al servizio delle masse popolari.

Federico Porta

Arnaldo Demetrio


Quotidiano dei lavoratori- circa fine 1974-inizio 1975 dc

La musica degli Stormy Six: una voce all’epica proletaria

Intervista con un altro complesso che ha dato vita a «L’Orchestra» – Resistenza e antifascismo al centro della nuova produzione

Continuando nella serie di interviste effettuate con i gruppi musicali aderenti a «l’Orchestra», pubblichiamo oggi l’intervista con il gruppo degli Stormy Six, da anni conosciuti dal pubblico giovanile e che ora sono interessati ad un esperimento particolare nel campo della musica «impegnata»: mettere in note la storia delle lotte proletarie.

D. Potere dirci qualche cosa circa le vostre prime esperienze, gli sviluppi della vostra attività, cosa avete in programma?

R. Inizialmente, quando abbiamo cominciato a fare della musica, siamo stati influenzati da esperienze straniere, sul tipo dei Beatles degli anni ’60. Dopo il ‘68 si è avuta una svolta in molti settori culturali, tra cui quello musicale: anche noi abbiamo seguito questo tipo di evoluzione. A quel punto è uscito il nostro disco intitolato «L’Unità» in cui viene studiato l’aspetto storico, con particolare riguardo all’esperienza del movimento degli studenti, dal quale noi proveniamo, con una conseguente smitizzazione della storiografia borghese (vedi le canzoni su Garibaldi e Ponte Landolfo).

Da qui ci siamo indirizzati verso la lettura della storia in senso critico. Abbiamo riscontrato una certa difficoltà

ad abbinare una certa influenza folk e pop (sul tipo della Band che accompagnava Bob Dylan) ai nostri tentativi di dare dei contenuti politici alla nostra musica, con risultati che qualche volta sono stati grotteschi: sperimentavamo allora un nuovo modo di raccontare la realtà sociale, cosa che appunto allora non ci è riuscita molto bene.

Successivamente abbiamo avuto un’esperienza di militanza politica nel Movimento Studentesco che ha corretto alcuni nostri errori di impostazione, facendo in modo di poter costruire la nuova formula del gruppo: due di noi vengono dalla musica classica e pop, due, ed io personalmente (Umberto, n.d.r.), provengono dalla musica popolare (appartenevo a «La canzone comunista») e dal Canzoniere Italiano pur avendo già approfondito uno studio sulla musica americana, in una esperienza combinata.

Da tutto questo abbiamo acquistato un certo affiatamento rispetto alla musica popolare. Abbiamo iniziato con la nuova formazione un tentativo di tirare fuori dalla musica popolare qualcosa di corposo, qualcosa di più sostanziale. Attualmente abbiamo in preparazione un disco sulla Resistenza che vuole proporre, su un tema già abbastanza sfruttato, un modo di analisi da diversi punti di vista: storico (letture ed esperienze con i partigiani) e umano. C’è anche un discorso sull’uso della scienza e il ruolo che la scienza ha avuto ed ha nella società borghese e ciò che dovrebbe essere in una società socialista.

Cerchiamo di riproporre fatti e persone esemplari della Resistenza. Tutto ciò attraverso uno studio della musica

popolare non escludendo la sperimentazione nella musica e nel testo: non copiando, ma facendo tesoro delle esperienze popolari internazionali. Questo disco non deve essere una sintesi meccanica: vuole invece rappresentare la posizione dei giovani compagni rispetto a questo preciso argomento.

D. Come avete superato, sia a livello pratico che a livello più strettamente musicale, le difficoltà che esistono a fare della musica alternativa?

R. Esistono difficoltà di natura diversa. Intanto si è boicottati dal circuito borghese in modo molto rilevante: quando si vuole fare un disco in una casa discografica borghese si è sottoposti a censura, sul tipo «o accetti la censura o non ti facciamo il disco». Noi non pensiamo sia possibile rifiutare in blocco il circuito borghese, anche se dobbiamo superare numerosi ostacoli per imporre la nostra decisione: bisogna saper usufruire di questi mezzi, e questo è possibile se si ha alle spalle l’appoggio delle masse popolari anche a costo di dure lotte in tal senso. Noi personalmente siamo stati ostacolati dal passaggio dal nostro precedente repertorio a quello attuale, molto più serio ed impegnato: il pubblico è rimasto disorientato da questo cambiamento. Abbiamo avuto, quindi, una certa difficoltà ad un contatto di tipo diverso con la gente, abituata ad un altro genere di musica.

Il problema del linguaggio è molto sentito nella canzone di tipo impegnato. Il pubblico tutto sommato è eterogeneo ed esiste una diversità di problemi, di gusti musicali, tendenze ecc. Bisogna cercare di elaborare un linguaggio…che possa andare bene a tutto il pubblico, e questo tipo di linguaggio ancora non esiste.

Per quanto riguarda la questione del professionismo, secondo noi bisogna avere una struttura organizzativa simile ma contraria a quella borghese. Bisogna attuare una divisione dei compiti, delle spese, bisogna eliminare il dilettantismo. Non bisogna strumentalizzare il musicista a fini propagandistici ignorando i problemi specifici.

Bisogna anche conquistare i propri spazi nel circuito che i revisionisti hanno messo in piedi in questi anni, conservando però le proprie posizioni e caratteristiche, non concedendo nulla a eventuali richieste di moderazione ecc. Mi sembra ormai evidente che «l’Orchestra» è venuta alla ribalta dalla crisi in campo culturale delle organizzazioni revisioniste e anche da errori delle stesse forze rivoluzionarie, di tipo utilitaristico e di scarso approfondimento dei problemi e dei contenuti espressi dai musicisti.

La nostra battaglia in campo culturale e musicale purtroppo esige una dedizione quasi assoluta a scapito di una precisa militanza politica. Inoltre è necessario, secondo noi, cercare di sorvolare su differenziazioni ideologiche, poiché in questo momento è necessaria la più ampia unità organizzativa.

D. Credete che sia possibile portare avanti, positivamente, il discorso delle Cooperative Musicali come «l’Orchestra», e che questo sia possibile come programma alternativo alla musica borghese, per creare un movimento in tal senso?

R. Una risposta affermativa alla vostra domanda mi sembra implicita: oltretutto «l’Orchestra» ha avuto una spinta enorme dopo i fatti del Cile, per l’importanza politica della proposizione della musica cilena nel suo complesso e anche per il fascino di questa musica che, oltre che essere piacevole dal punto di vista stilistico, è alla portata di tutti ed ha alti contenuti di classe.

Inoltre un’altra condizione di favore è stato il fatto che questa musica era già conosciuta da diverso tempo prima, grazie alla diffusione che hanno avuto le canzoni degli Inti Illimani, dei Tecun Uman e degli Yu Kung (gli ultimi due fanno parte de «l’Orchestra»). In Italia purtroppo, nel campo della musica popolare, ci sono sempre stati complessi o cantanti al servizio della discografia borghese, e utilizzati anche dal circuito revisionista per la loro fama, che hanno svalutato in campo internazionale la musica popolare italiana, mentre in realtà la musica popolare italiana, se riproposta ed eseguita seriamente e con coscienza di classe, non ha nulla da invidiare ad altre musiche popolari internazionali.

Attualmente c’è una situazione abbastanza povera, poiché finora l’esecuzione dei canti popolari è stata delegata a individui o gruppi di individui già famosi, borghesi e che nulla hanno a che fare con le classi sfruttate.

A cura di

Federico Porta

Arnaldo Demetrio

Nota: c’è stato un seguito. Sono andato con Mario Gamba, giornalista al Quotidiano, a cui ho chiesto di accompagnarmi perché molto più esperto di me sul jazz, a casa del musicista Guido Mazzon e lo abbiamo intervistato. A nome mio e di Gamba insieme sono certo che non è stato pubblicato nulla, a seguito della mia ignobile espulsione dal giornale. Non saprei se lorsignori abbiano pubblicato l’intervista col solo nome del pur ottimo Mario Gamba.


Articolo scritto tra l’autunno 1975 dc e la primavera 1976 dc e proposto al Quotidiano dei Lavoratori. L’allora direttore, Silverio Corvisieri, lo rifiutò quasi inorridito. E sapevo perché. Lo si capisce leggendo l’articolo…

Emmanuelle

di Arnaldo Demetrio

Di fronte al successo che negli ultimi anni ha riportato il libro Emmanuelle, e gli altri che lo hanno seguito, e il film omonimo che è uscito recentemente, e che ha riportato un successo senza precedenti, è necessario, a mio parere, vedere di fare il punto su questo fenomeno niente affatto trascurabile, naturalmente filtrato attraverso una critica impostata in senso materialistico.

Quando, molti anni fa (prima del ‘68), Emmanuelle Arsan scrisse il romanzo, provocò un vero e proprio terremoto letterario: il libro narrava le esperienze erotiche e “filosofiche” della moglie di un diplomatico inglese in Thailandia (dietro la protagonista si celava chiaramente il nome di Emmanuelle Arsan, che peraltro è uno pseudonimo).

In quel libro la scrittrice, oltre a uno stile letterario veramente impeccabile e accurato nel descrivere le vicissitudini erotiche della protagonista, aveva anche l’ardire, per quei tempi, di tentare di costruire una “filosofia erotica” o, meglio, “filosofia nuda” (come la rubrica che la stessa autrice curava sul mensile Playmen) che considerasse l’erotismo e il conseguimento del piacere come scopo essenziale dell’uomo e anche come l’unico modo completamente valido per la liberazione dell’uomo stesso. Con quali implicazioni filosofiche, morali e religiose si può ben facilmente immaginare.

Il romanzo suscitò molto scalpore, e ad esso seguì, per mano della Arsan, L’Antivergine e Il Terzo libro: opere in cui si continuava a esporre gli stessi concetti, ma in modo più avanzato e perfezionato.

Come succede sempre nel mondo capitalista in fatto di consumi di massa, questi libri crearono una moda e, con la scusa che il nome della Arsan non fosse apparso sulle sue opere, autori ignoti pensarono bene di continuare il filone. Con il beneplacito della società dei consumi uscì almeno una decina di altre brutte copie di Emmanuelle, quasi tutti intitolati Emmanuelle 2, Emmanuelle 3 e così via, e chiaramente, pur imitando lo stile letterario specialmente nella descrizione delle scene erotiche, non potevano essere paragonate minimamente, come stile e tematica di fondo, agli originali della scrittrice anglo-asiatica.

La scrittrice acquistò molta fama in tutto il mondo ma non concesse mai interviste e non rivelò mai il suo vero nome: da anni collabora stabilmente al mensile Playmen in cui vengono pubblicate due pagine di Filosofia nuda, e una pagina di corrispondenza. Ultimamente, per evitare ulteriori equivoci, la scrittrice ha denunciato la casa editrice che aveva pubblicato i falsi e ha specificato ufficialmente il numero e i titoli delle sue opere.

Il discorso sugli intenti e sulla particolare filosofia e concezione del mondo della Arsan sarebbe lungo e, tutto sommato, abbastanza riducibile: praticamente si può dire che l’Arsan, per natura e per collocazione sociale profondamente borghese, fa del piacere fisico dell’uomo un fattore con grande influenza su tutto il resto, e in ciò non ci sarebbe nulla da dire, Epicuro Freud e Reich possono insegnarci molte cose: la differenza sostanziale sta nel fatto che l’erotismo e il piacere diventano qui il mezzo più importante, per non dire l’unico, per il conseguimento della felicità, e con questo la liberazione dell’umanità da tutte prevenzioni, tradizioni, superstizioni e tabù che tutti i filosofi marxisti, dallo stesso Marx in poi, hanno analizzato e che noi marxisti rivoluzionari faremmo derivare senza dubbio dal sistema capitalistico e borghese, e di cui vedremmo l’eliminazione solamente attraverso l’avvento del socialismo.

Ma la Arsan non la pensa così: lei colloca tutto il suo discorso in un ambiente raffinato e ultraborghese, e la liberazione la vede, come già detto, solo come sessuale, morale e religiosa.

Come se ciò non bastasse, i cineasti statunitensi hanno offerto un’altra occasione alla scrittrice per rincarare la dose e per puntualizzare meglio questi concetti: l’uscita sugli schermi di tutto il mondo del film Emmanuelle, che chi ha potuto vedere nell’edizione integrale (cioè non italiana, ovviamente) non può non riconoscere i pregi nella sceneggiatura, svia però e snatura profondamente il significato dell’opera da cui è tratto, con una conclusione profondamente reazionaria e razzista.

Per reazione a questo vero e proprio oltraggio alla sua produzione, Emmanuelle Arsan ha scritto un libro fortemente polemico, in titolato Il mio “Emmanuelle”, il loro Papa, il mio Eros, in cui attacca pesantemente la speculazione attuata col film.

Questo libro costituisce senza dubbio la summa di tutta la sua concezione della vita e del piacere, e un’occasione forse irripetibile per ontologizzare il suo pensiero.

La Arsan esordisce dicendo che l’Emmanuelle del film non la riconosce: il marito che gli sceneggiatori hanno dato alla mia Emmanuelle lei di certo non lo avrebbe sposato. Mario, misterioso iniziatore ai complessi riti dell’amore, è diventato un vecchio semi-paralitico, logorroico e travagliato dall’impotenza: la mia eroina ne avrebbe sicuramente riso; Emmanuelle, inoltre, io l’ho sempre immaginata con i capelli lunghi, e i movimenti improvvisi della sua nuca servivano a calare un momentaneo sipario d’ombra sulla bellezza dei seni spesso nudi, nel film persino i capelli sono diventati inopinatamente cortissimi. La scrittrice si domanda costernata perché abbiamo apportato tali cambiamenti al suo romanzo.

La Arsan risponde a questa sua domanda in maniera molto dura: perché mai il regista e lo sceneggiatore del film avrebbero dovuto corrispondere pienamente al suo libro se, in quel libro, non ci si rispecchiavano affatto? Basta leggere le loro dichiarazioni, guardare il loro comportamento nella vita, con la famiglia.

Il regista ha dichiarato apertamente che era profondamente avverso ai film erotici e che questa era la più triste esperienza della sua vita; il produttore ha detto che, per lui, farsi filmare in quel modo era profondamente disonorevole; la protagonista Sylvia Kristel, inoltre, per girare il film in Thailandia si è fatta accompagnare dal marito, ha affermato sfrontatamente di essere monogama e pudica, che non ama partecipare oggi a spettacoli erotici ed afferma, dulcis in fundo, che è favorevole alla censura della pornografia. Che cosa ci si può aspettare da gente simile, si chiede Emmanuelle Arsan. Ella dice, infine, che il grande successo del film è quindi in un certo senso ingiusto, perché si tratta di un’opera non sincera.

Tutto l’ultimo libro è profondamente segnato da questa specie di moralismo dell’eros: l’erotismo come pensiero e come azione, arte, missione, militanza, in cui non sono ammessi debolezze, compromessi e tentennamenti. Con sottigliezza da inquisitore si indaga senza pietà e si demoliscono eretici, deviazionisti e speculatori anche dove alcuni farebbero fatica a vederne: se si abbraccia la religione dell’eros, si afferma in pratica, bisogna essere coerenti fino in fondo, agire come si pensa, vestirsi come si agisce o, meglio, svestirsi come si vive e come si scrive. Io come vivo scrivo, afferma coraggiosamente la scrittrice: il mondo è pieno, ci dimostra, di molti falsi apostoli dell’erotismo, della moda, della politica, dappertutto. Ci sono donne che si comportano apparentemente con indipendenza e spregiudicatezza e poi seguono come ipocrite pecore i dettami della moda, rinunciando al valore provocatorio della nudità mostrata, limitandola ai ridicoli campi di nudismo, manifestazioni emblematiche di compromesso e autocensura: il nudo, infatti, ha il valore di provocazione in un mondo vestito, ha certo più valore in una chiesa che in una spiaggia recintata (di questo sembrano una conferma le manifestazioni di nudismo ultrarapido di questa estate, un po’ in tutto il mondo).

Altro fenomeno indicatore della doppia morale con cui molta gente si trastulla è l’amore: lo si fa al chiuso di stanze, lontano dallo sguardo e dai desideri degli altri; esclusione dal mondo diventa auto-esclusione, dice la Arsan. L’amore è come un’arte e come tale si realizza liberamente, dev’essere fatto con la gente e tra la gente.

Dopo il maggio del ‘68, afferma ancora, le istituzioni del potere, che sui tabù e le paure fondano il loro predominio e la loro sopravvivenza, sembrano riguadagnare terreno: qual’è la soluzione, quando anche coloro che affermano di voler cambiare le cose mostrano di essere coinvolti nella cupa logica dei divieti e delle costrizioni e guardano con sospetto l’arma del piacere, dell’amore, che più di ogni altra ci può condurre alla liberazione (e questa è l’affermazione più contestabile della Arsan)?

Afferma che l’erotismo introduce l’emozione dell’arte nell’amore, e quest’arte diventa civilizzatrice e anticipatrice: un’azione di moralismo controcorrente, come lei stessa la chiama, ed un ruolo che né il politico, né il moralista, né il sociologo e il filosofo sono in grado di svolgere, il loro compito non essendo quello di annunciare il sogno, che appartiene invece all’arte erotica, e cui è alla ricerca.

Nel volume, otre a tre nuovi racconti molto esemplificativi e in linea con il resto dell’opera, è di nuovo pubblicato il pamphlet contro l’enciclica anti pillola di Paolo VI del 1968: in esso la Arsan dice che la Chiesa concepisce l’amore come fedeltà e come strumento destinato esclusivamente alla riproduzione secondo natura. Da una parte il matrimonio, in cui la donna finisce praticamente per prostituirsi in cambio di una sorta di assicurazione a vita, e dall’altra un’opposizione medievale alle tecniche e ai mezzi meccanici inventati dall’uomo per evitare nascite e provare un piacere completo, se non altro. Gli organi sessuali destinati soltanto alla procreazione, si domanda indignata l’autrice di Emmanuelle, sarebbe come volere condannare la parola perché la bocca è fatta soprattutto per mangiare!

Sinceramente ci sarebbe molto da dire su tutto ciò, anche se personalmente non posso fare altro che condividerle: si può dire, come conclusione, che sarebbe certamente auspicabile che il messaggio della Arsan venisse sfrondato da tutta la paccottiglia tipicamente borghese e venisse invece valorizzato da tutto il patrimonio etico, politico, sociale, filosofico e rivoluzionario di cui sono capaci soltanto il marxismo e il materialismo dialettico anche se, ovviamente, bisogna stabilire delle priorità. La priorità attuale è, senza ombra di dubbio, il rovesciamento del sistema borghese e l’instaurazione di uno Stato socialista e autenticamente proletario.

La rivoluzione ideologica, filosofica e sessuale si può iniziare a costruirla adesso ma non si deve fare di ciò, come spesso è accaduto, un elemento deviante da quelli che sono i compiti attuali, e irrimandabili, del movimento operaio e popolare.


Lettera a Quotidiano dei lavoratori

circa luglio-novembre 1975 dc

Compagni,

questa non é una lettera che spera di essere pubblicata: ho ormai constatato che anche nel vostro gruppo, che a volte si definisce più rivoluzionario di altri, vige quel meccanismo di “autodifesa” opportunista per cui le lettere troppo scomode o presunte tali non vengono mai pubblicate.

Sul vostro giornale, che conosco bene, credo siano apparse molte lettere di elogio, che senza dubbio sono la maggioranza, ma ben poche di critica verso questo o quell’atro aspetto della vostra linea politica, che peraltro é stata modificata più e più volte, a scapito della coerenza.

Non voglio essere prolisso, per cui vi dico subito che il motivo di questa lettera risiede nell’affermazione fatta da tale Luigi Vinci alla fine del suo articolo su Quotidiano dei lavoratori del 8/7/75 dedicato agli “emmellisti” (che qualcuno, forse appartenente a qualche “setta”, ha la cocciutaggine di di chiamare ancora stalinisti).

Non voglio condannare totalmente e a priori l’articolo e quelli che lo hanno preceduto anche perché non ho avuto occasione di leggerli con attenzione, e anzi diro l’impostazione generale di analisi del movimento “m-l” nel suo complesso è buona. Ciò che non mi va giù è che Ao comincia a considerare se stessa, LC e il Pdup come veri e propri partiti, anche se la prima affermazione di questo genere nell’articolo in questione mantiene le virgolette alla parola “partiti” (questa modestia però la perde subito dopo).

Da quel punto in poi Vinci si lascia andare a una esaltazione di gruppo addirittura vergognosa, tanto da far venire il dubbio che l’oggetto dell’articolo non sia la crisi del movimento m-1, bensì l’espandersi del vero marxismo-leninismo, naturalmente incarnato da AO.

Mi sta bene il giudizio positivo che si dà dei compagni militanti di questi gruppi, che poi é lo stesso giudizio che si dà dei compagni del Pci, però stiamo attenti a non generalizzare e non facciamo di ogni erba un fascio: sono difficilmente recuperabili i compagni che persistono in certi atteggiamenti anacronistici, settari e dogmatici.

Del resto, a spiegazione di ciò, é abbastanza nota la disinvoltura con cui AO, per accumulare militanti, rinuncia a verifiche ideologiche teoriche e di pratica di massa per quei compagni che, lasciati altri gruppi, specie m-l, chiedono di confluire in AO: é chiaro che, in mancanza di tale verifica, questi compagni stalinisti continueranno a esserlo all’interno di AO, influenzandone di conseguenza la linea, e questa può essere una spiegazione della svolta centrista dell’Organizzazione negli anni ‘72-’73.

Si raggiunge però il colmo quando si critica la parola d’ordine di molti m-1 “1’MSI fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge”, dicendo che é in “perfetta unità d’azione con un’altra pessima setta, la IV Internazionale”. Tralasciando la grossolanità di tale affermazione (evidentemente i compagni di AO, in mancanza di argomenti, passano agli insulti, e qui é davvero stile m-l), dovrei precisare che la parola d’ordine riportata é perfettamente spiegabile: non vuole esprimere altro che la sfiducia nel parlamentarismo borghese e l’affermazione che il vero antifascismo é quello praticato direttamente dai rivoluzionari e dalle masse. Infatti la IV Internazionale, pur partecipando a tutte le iniziative attuate durante la campagna per il MSI fuorilegge, non ha partecipato direttamente alla raccolta di firme proprio per l’evidente subordinazione alla logica parlamentaristica che ha inficiato tale raccolta di firme, anche per quanto riguardo LC.

Se AO ed LC avessero spiegato alle masse lo scopo reale della raccolta di firme (agitazione e sensibilizzazione), come in principio era stato fatto, senza illuderle su una improbabile votazione positiva, in Parlamento, come invece é stato fatto credere sempre e dovunque , la IV Internazionale avrebbe sicuramente aderito a tutti gli effetti al comitato promotore. Che poi anche gli stalinisti la pensino così, è una cosa che non ci riguarda: a volte si possono dire le stesse cose, ma alle spalle ci sono sempre due linee politiche completamente antitetiche!

Un’ultima cosa: non mi sembra che la IV Internazionale sia una “setta” quando propone la più ampia unità d’azione con tutta la sinistra rivoluzionaria e, in linea di proposta almeno, anche con i rifornisti. Forse che gli opportunisti di varie sigle hanno paura di confrontarsi tutti insieme in un vasto e combattivo Fronte Unico Popolare, unico strumento valido in questa situazione politica e stadio di preparazione verso il partito rivoluzionario? Del resto, non ho mai sentito di stalinisti espulsi da AO (semmai il contrario!), ma sento sempre più frequentemente di trozkisti espulsi da AO per il solo fatto di essere tali, magari con pretesti ignobili (per quanto riguarda il Quotidiano, posso testimoniare personalmente).

Saluti comunisti

Arnaldo Demetrio, simpatizzante della IV Internazionale (membro esterno del Cub Cattaneo Serale)


Relazione su un abbandono

3 Maggio 1978 dc

Relazione alla sezione di Milano dei GCR-Gruppi Comunisti Rivoluzionari-Sezione italiana della IV Internazionale

Innanzitutto, il perché di queste righe.

Non credo che l’importanza della mia collaborazione alla IV Internazionale sia talmente notevole da giustificare, in caso di interruzione, un serio e pretenzioso discorso, quasi un intervento.al congresso nazionale. Non sono neanche formalmente in cellula, non intervengo in modo concreto in nessuna situazione, quindi un mio abbandono non dovrebbe suscitare un vasto interesse.

Tuttavia, ritengo che anche nel mio caso si debba agire in maniera politica, giudicando positivo che anche il lancio della spugna da parte di un compagno debba essere il più possibile motivato.

Quando ho abbandonato i Cub e l’area di Ao alla fine del ‘76 ponevo termine a un tentennamento durato un anno e mezzo, al prezzo dell’abbandono di tante amicizie, che credevo sincere e che invece si rivelarono legate alle convinzioni politiche.

Lo feci in sordina, ma alcuni mesi dopo arrivai al ridicolo, consegnando ai superstiti del Cub alcuni fogli in cui spiegavo le mie ragioni. Era ridicolo che lo facessi a distanza di mesi dal mio reale allontanamento, ma lo feci ubbidendo a un imprecisato senso della dignità e della coerenza.

Adesso mi ritrovo nella stessa situazione, ma per motivi diversi.

Un complesso di circostanze e di caratteristiche personali mi hanno portato a nutrire un’incompatibilità quasi fisica con l’attività politica come é praticata. Attualmente. È difficile da spiegare, ma il fatto che non credo più che il fine della rivoluzione socialista, che é rimasto il mio, giustifichi il mezzo dell’attività politica, diventata per me sempre più avvilente, illusoria, deviante, incompatibile con quelle mie convinzioni che, forse, sono riaffiorate a distanza di anni, riportate a galla da una situazione senza sbocchi, da una mancanza di prospettive, da deficienze personali.

Forse il mio modo “aristocratico” di intendere l’azione politica, e i rapporti con quelli che da sempre si ritengono i “soggetti rivoluzionari” per eccellenza, gli operai, mi ha portato a ritenere che la IV Internazionale fosse per me la casa ideale in cui rifugiarmi, trovare condivisione alle mie posizioni e più forza per confrontarmi con l’esterno, gli altri, gli amici e i compagni di diverse scelte politiche. Non dico la gente, perché con questa non sono mai riuscito ad avere un rapporto che non fosse subordinato alla ideologia. Con chi non la pensa a sinistra non riesco tuttora a parlare senza scontrarmi o, alla meno peggio, andarmene ostentando disprezzo.

Evidentemente, ora che ho avuto modo di portare più attenzione alle idee e alle opinioni dei compagni della IV Internazionale, devo ammettere di avere sbagliato. La IV Internazionale pur restando a difesa del marxismo rivoluzionario con l’apporto del trozkismo, pur conducendo una battaglia controcorrente, pur avendo degli obiettivi quanto mai validi, resta una organizzazione di sinistra come altre, con una serie di tare, preconcetti ed illusioni comuni a tutto il movimento operaio che, secondo me, più di altri fattori ne rendono vani gli sforzi per raggiungere il fine preposto, il socialismo.

Ma prima di parlare di questo é necessario spiegare come la penso IO.

LE PROSPETTIVE DEL CAPITALISMO E LE PREVISIONI DI MARX

Restando fermo il punto delle mie pur limitate cognizioni teoriche ritengo tuttavia di potere affermare quanto segue. Marx in molti suoi scritti ha analizzato la società capitalistica più che altro in senso economico, giudicando più importanti i rapporti di produzione tra le classi piuttosto che altri tipi di rapporti come quelli sociologici, culturali etc. E questo era senz’altro vero considerando il periodo in cui Marx visse, l’ottocento.

Sui concetti di plus-valore e di valore della forza-lavoro non credo sia il caso di parlarne anche se, sia detto per inciso, molte di queste teorizzazioni sarebbero da riverificare alla luce delle modificazioni strutturali del capitalismo, avvenute durante il suo sviluppo dopo la morte di Marx.

Quello che conta é che Marx ha affermato che, nel caso che la classe operaia nella sua lotta rivoluzionaria non riuscisse nell’intento di abbattere il potere borghese per instaurare la dittatura del proletariato e dare il via alla marcia verso l’instaurazione del comunismo, in caso di fallimento cioè, il sistema capitalistico sarebbe arrivato a un punto tale di contraddizioni interne e di contrasto e scompenso che sarebbe crollato disastrosamente e definitivamente, dando così la possibilità alla classe operaia di riprendere vittoriosamente la lotta. Credo che Marx intendesse parlare, a proposito di crollo, di una grande crisi economica, che distruggesse la struttura stessa del sistema, oppure di una tragica guerra, anche questa causata dallo scontrarsi delle grandi nazioni imperialiste che, non potendo portare a un vincitore, avrebbero finito per annientarsi a vicenda.

Ebbene, se questa é la giusta interpretazione: di quanto Marx intendeva, si può constatare che ci sono stati almeno tre grandi eventi, la prima guerra mondiale, la crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale. Ad ognuna di queste crisi é succeduta un epoca di ristabilizzazione e riconsolidamento del capitalismo internazionale e si può constatare a livello mondiale, e non solo italiano, che nel secondo dopoguerra il capitalismo ha saputo trarre le debite conclusioni dalle precedenti catastrofiche esperienze, sviluppandosi a livello internazionale con le multinazionali, quindi superando le ristrette barriere nazionali ed elevando anche il livello generale di vita delle masse legandole, così, al proprio destino.

Questo periodo ha avuto il suo culmine negli anni ’50 col cosiddetto “boom” economico, che vedeva accanto ad un illusorio buon tenore di vita delle masse una contemporanea spoliticizzazione delle stesse. Come a dire: fai credere alla gente di stare bene e questa abbandonerà ogni istanza rivoluzionaria.

In seguito, quando gli scompensi non individuati durante la frenesia del boom produssero i loro effetti nella congiuntura degli anni ‘60 e nella crisi di questi anni, si avrà una conferma del giudizio più sopra esposto, con il crescente malcontento delle masse, la ripresa della attività della classe operaia e l’esplosione rivoluzionaria, contraddittoria ma vivificatrice, del maggio ‘68.

Dovendo trarre delle conclusioni, diremmo che Marx, analizzando la società capitalistica del suo tempo, ha fatto delle previsioni, vedendo giusto, ma non ha potuto andare al di là del 1883, anno della sua morte, e di questo, naturalmente, non gli si può fare alcuna colpa.

Il capitalismo del mondo occidentale ha garantito un livello di benessere ed alcune soddisfazioni alle masse, legandole a sé, rendendole compartecipi del suo sistema di vita, e di conseguenza togliendo loro parte dei presupposti di una possibile presa di coscienza rivoluzionaria e successiva ribellione. Dicendo questo non voglio certamente affermare che le masse nuotino nell’abbondanza, perché ciò é evidentemente falso, ma invece voglio affermare che, a livello culturale e di costume, sopratutto la classe operaia e i lavoratori in genere sono stati integrati nella società capitalistica e quindi, dando forse ragione a un Marcuse che andrebbe riletto più obiettivamente, private della qualifica di “soggetto rivoluzionario”, aprioristicamente attribuita.

Ora, non é dato a me fare previsioni sulla fine del capitalismo, ma mi sembra che le valutazioni sopra espresse mi autorizzino a ritenere impossibile la rivoluzione e, naturalmente, anche a la trasformazione della società in senso riformistico, proposta dalla sinistra storica, nient’altro che una integrazione nel capitalismo stesso, nel tentativo di accontentare padroni e lavoratori.

Questo lo dico perché non mi si venga ad accusare di revisionismo.

Sembra che, infatti, agli occhi di gran parte dei rivoluzionari sfiducia significhi scegliere il riformismo. Per me, tengo a precisarlo, così non é. E sono così arrivato a una delle motivazioni del mio abbandono, la sfiducia nella possibilità della rivoluzione o, perlomeno, la mia indisponibilità personale di nutrirmi per tutta la vita di illusioni, di cui ritengo di nutrirmi già abbastanza per conto mio, già da prima di diventare comunista.

IL MODO DI FARE POLITICA PER LA RIVOLUZIONE

Questo secondo punto si riferisce in particolar modo a come si caratterizza l’attività politica dei rivoluzionari per raggiungere il fine proposto.

Premettendo che, in questa società, non si possono neanche pensare di proporre soluzioni che hanno come loro presupposto fondamentale proprio l’abbattimento della società capitalistica e borghese, bisogna chiedersi: che fare?

Fino ad ora la risposta é stata che le masse debbano lottare per miglioramenti in questa società, lavorando contemporaneamente ad acuire quelle contraddizioni che, in caso di situazione rivoluzionaria, possano portare alla presa del potere da parte della classe operaia. Come a dire: portiamo avanti le rivendicazioni economiche, senza però dimenticare tutto il resto e in particolar modo l’armamento e la preparazione per l’evento finale, di massa, della rivoluzione.

Sul piano teorico non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma, se riteniamo valide le analisi del punto precedente, é veramente possibile tutto ciò? È la società occidentale odierna così simile alla Russia del ‘I7, alla Cina del 1949, all’Indocina degli ultimi 30 anni, alla Cuba del ‘6I, alla Corea, allo Yemen del Sud?

Detto in altri termini, ci vogliamo finalmente rendere conto che le rivoluzioni finora attuate, indipendentemente dal loro sviluppo e degenerazione, riguardavano Paesi arretrati, generalmente contadini, in cui il capitalismo, dove era presente, era appena agli inizi e dove gli squilibri erano molto più forti ed evidenti?

Ci vogliamo rendere conto che solo condizioni di capitalismo arretrato, di società contadine o feudali, di condizioni di sfruttamento più che evidenti rendono possibile ai rivoluzionari avere un consenso considerevole delle masse, il solo possibile per una rivoluzione senza mezzi termini? Ci vogliamo accorgere, insisto, che in una società come la nostra, capitalisticamente avanzata e culturalmente integrata, ogni speranza poggia certamente su una volontà di lotta più che legittima ma anche su illusioni fuori dalla storia e dall’obiettività?

Si dice, in questi tempi, che i valori tradizionali della sinistra sono in crisi, posti in discussione, riverniciati: vogliamo che a farlo siano solo gli intellettuali borghesi, i “freakkettoni”, gli anarcoidi delle nuvole di fumo, i cosiddetti “creativi”, gli “sballati”, gli “indiani”, gli autonomi e in genere tutti coloro che a un male ne sostituiscono altri? 0 non vogliamo piuttosto prendere seriamente in esame questi problemi e cercare di fare proposte che non siano campate in aria?

Mi viene in mente il: compagno Caronia che se ne va perché, tra le altre cose, la IV avrebbe sottovalutato le potenzialità del movimento del ‘77. Ora siamo nel ‘78 e anche i Gcr hanno scritto e detto dove é finito quel movimento, confermando quello che pensavo io proprio durante quel casino, circoscritto peraltro ad alcune città

e regioni, e cioè che era un avvenimento interessante e nuovo ma episodico, che sarebbe presto rifluito, così come é stato per altri avvenimenti di minor portata, come l’autoriduzione delle bollette, quella dei cinema (durata non più di un mese), il fenomeno delle occupazioni di case quello dei centri sociali e via di seguito.

Forse che il mio pessimismo avesse ragione?

RIVOLUZIONARI E SINDACATI

Veniamo ora al più concreto.

La IV Internazionale considera i sindacati ancora come un momento valido di lotta e, anzi, raccomanda ai compagni di iscriversi in massa, di intervenire in essi e creare una tendenza di classe all’interno di essi. Ciò é stato ulteriormente confermato dal ciclostilato introduttivo alla commissione operaia allargata di pochi giorni fa.

Nonostante che la linea e la natura stessa dei sindacati si siano rivelate per quello che forse sono sempre state, la difesa della classe lavoratrice ia all’interno del sistema capitalistico, che non viene messo in discussione ma anzi assurto a valore da difendere, la sinistra rivoluzionaria e anche la IV Internazionale continuano a ritenere che il sindacato sia comunque un fenomeno positivo, da cui non prescindere. A mio parere invece i sindacati sono interamente integrati nel sistema sociale capitalistico e non lasciano alcuno spazio per simili tentativi.

Secondo me non si tratta di burocrazie che impongono una linea che in fondo non é sentita come propria dalla maggioranza degli iscritti, ma di un sistema che in sé stesso globalmente ricopre la funzione di arbitro dei contrasti sociali, delle controversie economiche tra imprenditori e lavoratori, volto a bloccare le esagerazioni di entrambe le parti. E le masse degli iscritti e coloro che lottano in generale con essi sono ancora più aiutati dal sindacato a inserirsi nel sistema, rispettandone le regole.

L’unica alternativa mi sembra il confluire di una azione all’interno del sindacato, anche nei termini formulati dalla IV Internazionale, con una azione all’esterno di esso che miri a legare le masse dei lavoratori più strettamente alle organizzazioni rivoluzionarie senza intermediari, lavorando anche per fare in modo che questa azione sia la più omogenea ed unitaria possibile, ma il più possibile decentrata ed indipendente.

Lo scopo dovrebbe essere la costituzione di una forte organizzazione dei lavoratori che appoggi le istanze della rivoluzione anticapitalistica, senza patteggiamenti e compromessi.

ECONOMICISMO E RIVOLUZIONE

E l’aspetto più importante é proprio l’economicismo rivendicativo, caratteristico dei riformisti, a cui tutte le formazioni rivoluzionarie per ragioni di sopravvivenza si adeguano, trascurando il lavoro culturale e teorico, volto a creare ex-novo o ad aumentare la coscienza rivoluzionaria delle masse.

È la vecchia questione del massimalismo e del minimalismo, due modi di vivere ed intendere la lotta di classe, il primo tutto teso al fine ultimo, la rivoluzione e la società socialista futura, atteggiamento a volte ultra teorico ed elitario che isola dal contesto sociopolitico del presente, il secondo calato a forza nella realtà dei rapporti esistenti, ma proprio per questo privo di una comprensione strategico-teorica globale, e addirittura autogratificantesi di una razionalità e praticità che molto spesso é solo cecità.

La stessa dualità é sempre stata presente nella mia esperienza personale ma, mentre il massimalismo veniva quasi allontanato dall’entusiasmo dei periodi “caldi” del post ‘68 in momenti isolati di dubbi e riflessioni, ora che il movimento é finito da un pezzo, la restaurazione borghese e riformista sta mietendo successi e i rivoluzionari superstiti scivolano sempre più la china del democraticismo borghese, questo massimalismo mi rispunta fuori assumendo la caratteristica di unico sostegno che mi rimane per affrontare la realtà in cui mi trovo a vivere ma che, oltre ad essermi sempre più estranea, mi vede anche sempre più incapace ad affrontarla.

Il fatto é che la maggioranza dei gruppi alla sinistra del Pci, dopo i1 periodo immediatamente successivo al ‘68, caratterizzato da rigore teorico e polemica serrata ma anche da colossali abbagli e madornali errori teorico-tattici, si sono adeguati alla realtà, che si dimostrava meno malleabile del previsto, e hanno adottato le stesse forme di lotta prima criticate. La lotta rivendicativa per miglioramenti economici é indispensabile nella società borghese ma non esclusiva, é solo lo strumento discriminante delle varie impostazioni attraverso il quale, come ho già detto, accelerare il processo di crescita della classe nella prospettiva che per i marxisti rivoluzionari deve essere l’unica, la rivoluzione violenta.

Invece, riducendo tutto alle vertenze aziendali, si abituano le masse al gioco dei riformisti, che é quello del sistema, e, fatto ancora più grave, al momento in cui ci saranno da prendere gravi decisioni contrarie a quelle dei riformisti, gli operai non saranno del nostro parere e non ci seguiranno, a meno che non siano ridotti alla miseria più nera e non possano permettersi nemmeno di andare alla partita di calcio domenicale, che ora come ora sembra essere la loro maggiore preoccupazione.

Non mi sembra di dire cose totalmente campate in aria, dato che anche Lenin e Trotzki si sono scagliati contro questa piaga, sin d’allora causata dalla socialdemocrazia riformista. e legalitaria.

Aggiungo, a rigor di onestà, che molte di queste considerazioni possono pure essermi derivate da un’antipatia viscerale per la fabbrica, in genere per il mondo del lavoro e anche, lo confesso, per gli operai stessi che, lungi dall’essere quegli scogli granitici della rivoluzione temporaneamente traviati dal Pci e dai sindacati, sono invece a mio parere profondamente borghesi e psicologicamente, se non ideologicamente, reazionari, per esprimermi con Reich.

IL GIUDIZIO SUI RIFORMISTI

Nodo centrale della politica dei rivoluzionari, questo problema ha causato liti e scissioni, convergenze e alleanze, accuse e diatribe per molti anni. I mao-stalinisti, pronti ad accusare i riformisti in blocco con gli iscritti come social-fascisti ed avere di conseguenza comportamenti aberranti, i centristi, che con diverse sfumature strizzano l’occhio e sottovalutano la capacità di critica delle basi di questi partiti verso i loro vertici, i trotzkisti che parlano di “linea di destra” nel Pci (Bandiera Rossa n° 8), nell’inconscio tentativo di salvare il salvabile.

E proprio nel momento in cui, a mio parere, non si tratta nel Pci di una linea di destra in contrasto con altre “linee” che pesa su una base recalcitrante, ma invece in un blocco quasi monolitico che comprende vertici e medi militanti e semplici iscritti, i primi perfettamente coscienti di quello che fanno e gli altri che, nella loro scarsa lungimiranza o per nascosto conformismo, ritengono come proprie elaborazioni e scelte che non lo sono.

Il voler a tutti i costi individuare una linea di destra per esorcizzarla e sentirsi più tranquilli pensando a una base sta col Pci e il Psi solo perché grandi partiti é, oltre che sbagliato, profondamente dannoso per l’azione di recupero che si vuole condurre verso questi compagni. Soltanto un’azione chiara, a volte anche dura, nei confronti di questi “compagni che sbagliano” può essere pagante, nella misura in cui si mettono sul tappeto i nodi fondamentali che dividono i trotzkisti, e più generalmente i rivoluzionari, dai riformisti.

Per quanto riguarda i socialisti il discorso é diverso in quanto che questi compagni, mi riferisco alla base, sembrano più coscienti del loro programma e del loro ruolo e sembrano accettarlo per quello che é: una via democratica di sinistra nel contesto di un modello capitalista accettato in sé, di cui si vogliono raddrizzare le storture mantenendone intatti i presupposti. Bisogna notare che a sostegno di ciò entrambi i partiti pongono come valore discriminante la resistenza partigiana di cui questo stato sarebbe la diretta conseguenza. Un alibi senza dubbio efficace, visto che resiste da 33 anni e trova tra i suoi sostenitori anche i gruppi rivoluzionari, quasi che vogliano rifarsi una verginità di cui si sente la mancanza.

La verità é che i riformisti sono responsabili totalmente della linea dei loro partiti e non vi può essere nessuna attenuante per essi. Se si volesse dare un giudizio per i due partiti, farebbe una più degna figura certamente il Psi, per le ragioni sopraddette e per la cautela, non certo disinteressata peraltro, con cui si muove nei riguardi dell’estrema sinistra.

IL GIUDIZIO SUI GRUPPI ARMATI E IL CASO MORO

Anche se la IV Internazionale si é sempre distinta dalle altre formazioni nel trattare il problema dei gruppi armati in maniera politica e non da caccia alle streghe, cercando il confronto senza abbandonarsi agli esorcismi e agli aut-aut opportunistici dei restanti gruppi, con l’escalation dell’attività “terroristica” e sopratutto col caso Moro c’é stata una svolta grave e degna di nota.

Praticamente i Gcr si sono uniti al coro di condanne delle Br da parte di tutti i partiti, tornando indietro di almeno quindici anni, per paura del coinvolgimento repressivo, in nome di un richiamo a prassi politiche definite democratiche che sarebbero prerogativa da sempre del movimento operaio.

Conosciamo tutti le aberranti formulazioni di Lotta Continua sul “caso umano”, sulla vita di Moro che é “pur sempre un uomo”, sul dramma della sua famiglia e altre amenità di stampo beceramente cattolico. Quello che stupisce é come mai anche la IV, che in passato stimavo proprio per cercare di dare un giudizio politico delle Br senza troppo curarsi, giustamente, di quelle “vittime” responsabili di crimini ben più moralmente esecrabili di quelli delle Br, finisca per fare lo stesso discorso di chi, in nome del rapporto con le masse, delle conseguenze, del lato umano etc, si schierano con i partiti borghesi, se non a difesa del sistema, perlomeno a difesa di un metodo politico “democratico” che in altri tempi non si definiva così.

“Nonostante tutto, un po’ di democrazia c’é ancora, quindi difendiamola”, questo dice il Movimento Lavoratori per il Socialismo, questo dice Democrazia Proletaria e sembra dire anche la IV pur con i dovuti “distinguo”, un po confusi, per la verità.

Evidentemente, stiamo andando verso l’opportunismo più bieco.

Secondo me, oltre a comprendere le pur deliranti posizioni ideologiche delle BR come una comprensibile reazione a un sistema che si avverte sempre più soffocante e senza alternative, bisogna anche chiedersi se valga più la vita di un lavoratore ucciso sul lavoro, nelle piazze o avvelenato lentamente da un’esistenza incatenata al profitto dei padroni, o la vita di questi ultimi, di questi democristiani, di questi dirigenti industriali fino all’altro ieri minacciati, offesi e sputtanati dagli stessi che ora ne piangono la memoria. E se di queste vite di sfruttatori non ce ne importa veramente niente, dovremmo avere almeno la dignità e il coraggio di dire che abbiamo paura delle conseguenze di queste azioni armate e solo di queste, e che scendiamo opportunisticamente nelle piazze per non essere scambiati per conniventi, accanto ai nemici di classe.

È ormai sicuro che la reazione popolare al caso Moro é stata motivata più che altro dall’uccisione della scorta, e che la folla corsa ai funerali fosse più di democristiani che di comunisti.

Ma anche per quanto riguarda i cinque agenti devo dire che me ne importa meno di quei circa 300 operai e studenti uccisi dai loro colleghi, in 33 anni di Stato democratico nato dalla Resistenza.

Anche a costo di apparire cinico debbo ribadire questo concetto: non si può dire peste e corna della Polizia quando le vittime siamo noi e poi piangere la loro morte quando sono loro a soccombere. Questo mi sembra opportunismo. Da qui discende che sono contrario anche al sindacato di Polizia, proprio perché tale misura ricompone la figura angelica degli sbirri come difensori della democrazia, mentre per anni sono stati definiti giustamente difensori dell’ordine costituito e del regime di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Questo non toglie che anche loro siano sfruttati ma, alienati come sono, credono di compiere un dovere e questo potere lo esercitano a danno dei lavoratori e dei rivoluzionari, come é ovvio. Che si prendano dunque le proprie responsabilità, dunque, anche quando per fame si arruolano nella Polizia o nei Carabinieri. Non pretendano di trovare aiuto proprio da noi, che siamo i loro naturali, oggettivi, avversari.

A mo’ di conclusione, dirò che il giorno della morte di Moro io, insieme a un altro compagno, sono rimasto sul luogo di lavoro non partecipando ad uno sciopero non sentito e non condiviso, come altri compagni hanno fatto all’ufficio postale di Linate il giorno del rapimento. E non ho paura di ciò che mi si potrà obiettare: tra Moro e le BR, difendo le BR! E non perché la loro ideologia mi sembri giusta, anzi, ma per una questione di coerenza, di dignità rivoluzionaria!

LOTTA DI CLASSE, CULTURA E “PERSONALE”

Riguardo alla questione culturale, non vi sono notevoli critiche al modo di affrontare questo problema da parte della IV Internazionale, anche perché uno dei motivi che in passato mi hanno fatto scegliere i Gcr era anche l’obiettività, la stretta aderenza alla concezione marxista della altura e il rifiuto degli schematismi infantili degli stalinisti e degli altri gruppi (cultura proletaria come attualmente la esprimono le masse contrapposta al restante, cioè la cultura “borghese”). Sappiamo bene che questa é una falsa questione, poiché il proletariato può possedere delle tradizioni inserite in un panorama generale che rimane legato alla società ma non una cultura propria, che coscientemente contrappone a quella dell’avversario, può interpretare il fatto culturale con una precisa ottica, può sviluppare una critica, ma al di là di questo c’é solo presunzione, arroganza e miopia, oltre che un opportunismo di fondo, comune anche per gli altri problemi prima affrontati, la tendenza cioè a gratificarsi di una qualità che invece é da conquistare prima, durante e dopo la rivoluzione.

Quello che invece voglio rimproverare alla IV Internazionale é che, malgrado gli sforzi di distinguersi dal resto dell’estrema sinistra, anch’essa trascura l’attività di emancipazione culturale, sessuale, morale e sociale tra i suoi militanti e tra le masse che, lasciate in mano agli specialisti borghesi, vengono private delle loro potenzialità rivoluzionarie e appaiono anzi invise alle masse, sentite come estranee e respinte.

Mi riferisco in particolar modo a quanto diceva Reich affermando che ba sinistra marxista si era fossilizzata, nella sua azione, sulla struttura economica, ritenuta la principale, senza occuparsi della struttura caratteriale delle masse, che invece riveste una enorme importanza nei rapporti tra le ideologie, tra le categorie di pensiero, tra i modi comportamentali di vita, nei comportamenti sessuali e nei meccanismi di oppressione da parte del sistema, oltre che nella formazione del consenso di massa alla cultura dominante e alle ideologie autoritarie, come il fascismo e lo stalinismo, nonché a tutte le deformazioni autoritarie del comunismo, laddove questa parte politica é al potere.

Tutto ciò é stato trascurato, se non definito controrivoluzionario (!!), non solo dai borghesi e dagli stalinisti, ma anche da gran parte dei marxisti. Ciò, naturalmente, se ha causato gravi danni alla causa della rivoluzione, ha favorito lo snaturamento di queste tematiche anche da parte dei settori di avanguardia degli psicologi, dei pedagogisti e dei medici in generale che ne hanno fatto niente più che un’altro aspetto, innocuo, della cultura dominante.

Esempi concreti se ne possono fare tanti, ma il più importante riguarda forse riguarda proprio i reichiani che, salvo alcune eccezioni che andrebbero valutate caso per caso, risultano ideologicamente vicini ai radicali, ai borghesi in genere o più in generale a chi rispetta l’ordine costituzionale e non si prefigge di cambiarlo nel suo complesso.

L’importanza della psicologia, dello studio della struttura caratteriale dell’uomo è ancora maggiore se si pensa che lo stesso Reich, inizialmente attivo militante del partito comunista tedesco, in seguito alla sua espulsione, alla sua persecuzione da parte di comunisti e fascisti, alla difficile esistenza in Germania fino al tragico epilogo della sua vita in un manicomio americano, voluto dal sistema, abbandonò progressivamente la politica in generale e il marxismo in particolare, rassegnandosi a ipotizzare una rivoluzione attuata professionalmente dagli specialisti delle varie materie scientifiche e culturali, senza capire come ciò, oltre che essere impossibile, costituisse un ripiegamento, da quella che era stata la sua giusta e battagliera polemica contro gli sclerotici interpreti del marxismo, rinnegatori del vero significato della rivoluzione sociale, intesa da Marx come un tutto strettamente interconnesso, da non separare per nessun motivo. Le conseguenze di queste separazioni sono visibili in tutta la storia del movimento operaio, fino ai nostri giorni.

Quello che i marxisti rivoluzionari prima degli altri dovrebbero sforzarsi di capire é che la rivoluzione socialista é impossibile se non si emancipano ADESSO le masse, se non le si libera ADESSO dalla “paura della libertà”, dalla incomprensione di ciò che potrebbe essere la loro vita in una società egualitaria e sessualmente naturale. Come a un abitante del Tibet che non si é mai mosso dal suo villaggio é impossibile fare apprezzare la bellezza del mare se non glielo si descrive o possibilmente glielo si fa vedere e toccare e conoscere, direttamente.

“Le masse, in seguito a una millenaria deformazione sociale ed educativa, si sono irrigidite biologicamente e sono divenute incapaci di essere libere: non sono in grado di organizzare una pacifica convivenza”: questa frase di Reich, tratta da “Psicologia di massa del fascismo”, lo stesso autore ci invita a non interpretarla pessimisticamente, ma ci sprona a riappropriarci della scienza in funzione rivoluzionaria e a non tralasciare nella nostra attività nessun aspetto utile alla rivoluzione, che deve essere insieme politica, economica,, culturale, sessuale, educativa, morale. E questo lo dovrebbero fare i marxisti e non i vari radicali, creativi o incoscienti apostoli dell’irrazionale, che snaturano gravemente l’importanza di queste cose.

C’é un certo fermento in una parte della sinistra rivoluzionaria e specialmente nell’ambiente delle radio, su tutte queste tematiche, ma ci si gira attorno, si producono fiumi di parole, si banalizza tutto e si finisce in molti casi per allinearsi a a modi di pensare dei nuovi “hippie” o di certe femministe, entrambi false alternative a un problema serio.

CONCLUSIONI

Per tutte queste considerazioni personali, politiche, culturali, certamente schematiche, e volte superficiali ma in ogni caso sentite e sofferte, e per altre che forse non ricordo, ritengo che i tre livelli di attività rivoluzionaria che danno ancora qualche speranza sono:

I) un’attività teorica di aggiornamento del marxismo alla realtà del dopoguerra e allo sviluppo del capitalismo (che Mandel si ostina a definire decadente, pur dicendo molte altre cose positive), e contemporaneamente un ritorno del marxismo al suo carattere scientifico e sociologico, come Marx stesso intendeva, senza dimenticare che egli, significativamente, non si definiva “marxista”, proprio a significare che il socialismo, nella sua elaborazione, non si doveva fossilizzare intorno alla sua persona;

2) un’attività volta alla creazione di un movimento POLITICO-CULTURALE di LOTTA ANTICAPITALISTA, una lotta dura all’economicismo, una lotta per l’emancipazione culturale, sessuale, caratteriale delle masse, senza dogmatismi ed accademismi;

3) un’attività di preparazione alla lotta armata, aspetto indispensabile per la rivoluzione, che non deve trovare impreparati i rivoluzionari al momento del bisogno. Resta inteso che vanno battute le posizioni ideologicamente assurde delle attuali formazioni armate, BR in testa, non scendendo a compromessi con l’avversario di classe ma, anzi, se é il caso, condurre già da adesso un’attività armata fatta di sabotaggi alla produzione, di attentati o di esecuzioni di personaggi profondamente reazionari e ritenuti tali da larghi settori delle masse*.

Per tutte queste ragioni ritengo incompatibile una mia collaborazione alla IV Internazionale, come anche qualsiasi forma di attività politica come adesso é concepita. Resta inteso che se i compagni dei Gcr accettassero una mia collaborazione pratica, come propaganda verbale, volantinaggi, manifestazioni, fotografie, vignette umoristiche od altro, io sono fin da ora sempre disponibile. Questo lo dico perché, forse, non voglio isolarmi del tutto dai compagni fin qui conosciuti e cui, dal punto di vista umano, mi sento tuttora vicino.

Molte o tutte le formulazioni da me fin qui esposte saranno criticate, condannate o semplicemente ignorate e, anche se forse sono solo degli alibi ad una mia pigrizia costituzionale, spero che siano considerate con la dovuta attenzione.

Se i compagni lo ritengono opportuno, possono pure disporre di questo materiale ai fini di una eventuale pubblicazione, per illustrare come un rivoluzionario dà “forfait” e getta la spugna. Da parte mia sarebbe giudicato un contributo positivo.

Arnaldo Demetrio

*Per quest’ultima parte, in caso di pubblicazione, é facoltà dell’organizzazione fare in modo che non risulti compromettente dal punto di vista giuridico, come istigazione a delinquere o apologia di reato. (Nota mia ulteriore del 7 Maggio 2021 dc: questo articolo è di pura documentazione, tutto quanto vi è scritto fa ormai parte del passato).


Proponimenti per il nuovo anno

dicembre 1983 dc

Non dare più importanza ai pareri degli altri su di te poiché agli altri non importano i tuoi pareri su di loro.

Se la tua compagnia è solo occasione di scherno e di facezie dirada le visite, e poi verifica se qualcuno nota la tua mancanza.

Se non ti riesce qualche gioco “intelligente” o hai troppa sfortuna smetti, pensando che è il gioco a non meritare te, e non il contrario: non è la verità, però è una giustificazione.

Il detto popolare sulla gatta e il lardo rancido è una sacrosanta verità e va fatto proprio: infatti non è tanto importante la realtà, in questo mondo, quanto l’apparenza.

Se qualcuno scopre che ci comportiamo come la gatta con il lardo, per la sua intelligenza merita che gli si dica: sì, è vero!

Se non riesci a portare a termine tutto quello che fai non rammaricartene e pensa che sei un’intelligenza dispersiva e che le cose definitive non sono per te.

Se non riesci a fare bene quello che ti piace non crucciarti, pensa che i tuoi interessi sono troppo vasti per poter andare al fondo di essi.

È meglio un’individualità frustrata e cosciente in una collettività incosciente che una collettività cosciente formata da individualità incoscienti.

Il mondo è talmente stupido che succede questo: per gli altri se non la pensano come te è questione di opinioni, mentre se sei tu che non la pensi come loro è perché sbagli, se lo rinfacci ti rispondono che non è vero, quindi comportati nello stesso modo.

Se le carte sono troppo mischiate e c’è confusione bisogna pronunciare alcuni basta e operare qualche scelta, o confermare quelle già fatte:

basta con Neil Young, troppo famoso, e basta con i suoi fans, come lui vanagloriosi ed arroganti

viva David Crosby, quasi dimenticato, e i suoi fans, pochi, modesti, silenziosi degustatori

basta con Francesco Guccini, le sue angosce e il suo anarchismo della domenica

viva Fabrizio De André, la sua morale da “liceale” e la sua individualità senza compromessi

basta con il folk pedissequamente tradizionale

viva il folk rock ben fatto, brillante ed innovatore

basta con i Mark-Almond, colti e soporiferi

viva l’Incredible String Band, esuberante e naif

basta con Janis Joplin e le donne che imitano gli uomini

viva Joni Mitchell e le donne con voce femminile

basta con John Wayne, Frank Zappa, la NCCP, Paolo Conte, Alberto Arbasino, l’opera lirica, Radio Popolare, Enzo Gentile, Riccardo Bertoncelli, Ivan Della Mea, Franco Trincale, il Festival de l’Unita, Bertold Brecht, il falso cosmopolitismo, l’autentico nazionalismo, il culto del progresso, il culto della tradizione, il carrierismo senza limiti, l’agonismo portato all’eccesso, la competitività estrema, il disprezzo per gli omosessuali, la musica classica noiosa, Renato Pozzetto, Diego Abatantuono (degli inizi), Adriano Celentano, il reggae, Bob Marley, Demetrio Stratos, gli Area, Eugenio Finardi, Alberto Fortis, i borghesi proletarizzati, i proletari imborghesiti…


Questo è uno scritto scaturito dalla mia intolleranza al caldo (già a 24° per me lo è) e alla mia passione per il freddo, la pioggia, la neve e la nebbia.

Elogio del freddo

gennaio 1984 dc

È costume comune ritenere che le stagioni “belle” siano la primavera e l’estate e gli aspetti a loro collegate: il caldo, il sole, il cielo azzurro e sereno, i fiori in boccio, le nuove foglie verdi etc., le stagioni “brutte”, al contrario, sarebbero l’autunno e l’inverno e, conseguentemente, il freddo, il buio, il cielo grigio e nuvoloso, la pioggia, la neve, le foglie gialle e cadenti, la nebbia etc..

Premesso che tali valutazioni sono senz’altro soggettive, per cui i gusti variano da individuo ad individuo, bisogna anche dire che definire brutta o bella una cosa in modo così totalizzante come avviene da parte della maggioranza della gente, degli speakers della televisione e dei bollettini meteo, dei giornali e dei mass-media in genere, assume una connotazione talmente banale da arrivare quasi al ridicolo luogo comune.

Infatti, se può essere comprensibile che in quasi tutte le civiltà sia esistito un culto del sole come fonte di vita e di forza, e di riflesso un abbinamento dei concetti di freddo e pioggia come manifestazioni di morte e debolezza, è anche vero che l’autunno specialmente, ma anche l’inverno, con i loro vari aspetti, sono sempre stati fonti di ispirazione e riflessione per le più alte personalità poetiche e filosofiche.

Asserire, inoltre, che il freddo offende la persona che se ne deve difendere chiudendosi in sé stesso mentre il caldo è benefico e apre la gente al prossimo favorendo i contatti non significa altro che limitarsi alla esteriorità più banale senza approfondire veramente il significato recondito della questione. Mentre dal freddo più acuto ci si può sempre difendere coprendosi, dal caldo torrido ed afoso ci si può contrapporre tuttalpiù spogliandosi, ma di certo non ci si può levare la pelle di dosso cercandone un ultimo sollievo.

Per gli annunciatori del meteo, soprattutto, esiste evidentemente una terminologia dalla quale non si può prescindere: nuvole in cielo, anche se chiaramente non portatrici di pioggia, sono comunque “maltempo”, e il “beltempo” è sempre e solamente col sole splendente. Non parliamo se piove, o addirittura nevica!

Vorrei ricordare ai fanatici del caldo e del sole, (mi vengono in mente, oltre che gli italioti, gli abitanti della California, così orgogliosi che là “c’è sempre il sole”) che l’acqua dei loro rubinetti, delle loro docce, delle loro vasche con idromassaggio, delle loro piscine, dei loro WC e dei loro bidet provengono dalle falde acquifere sotterranee o dai fiumi di montagna, guarda caso alimentati dai ghiacci, sempre meno eterni, e dalle piogge! Anche tutto quello che mangiano, e che spesso sprecano vergognosamente, che sia vegetale o animale, vive e prospera grazie all’acqua e, quindi, a quello che loro chiamano maltempo.

E poi, in definitiva, si può essere insensibili, è la parola giusta, al fascino di una passeggiata in campagna, in montagna o in un bosco con la nebbia e, perché no, sotto la pioggia? Io credo proprio di no.

Anonimo Naturale