Una risata seppellirà i bigotti

20 Agosto 2022 dc, su Hic Rhodus il 27 Maggio 2022 dc:

Una risata seppellirà i bigotti

di Claudio Bezzi

Avevo appena visto lo spettacolo di Ricky Gervais, SuperNature, su Netflix, ridendo di gusto, e dicendomi “Ammazza, questo ha coraggio, a dire così chiaramente di essere ateo e liberista, a fare battute sulle donne e gli omosessuali, sui fanatici religiosi etc. Ma come fa a non beccarsi una di quelle serie infinite di insulti e denunce che oggi sono all’ordine del giorno per chiunque non sia politicamente corretto?” Ecco, ero a questo punto quando leggo che sì, infatti, Ricky Gervais è al centro di una feroce polemica, accusato di omofobia.

Io so benissimo che, per esempio per un credente, la satira su Gesù e la sacralità della sua religione è fastidiosissima: lui crede così profondamente in Gesù, costruisce una gigantesca struttura mentale e comportamentale su quella sua credenza, fa tanti sacrifici in nome di Gesù, si sente così male, nel profondo del suo cuore, se pensa che qualcuno offende Gesù, giuro, lo capisco! Però il suo vicino di casa è un indiano, perfettamente integrato nella comunità, sa solo grosso modo chi fu Gesù mentre manda a memoria i Veda, crede in maniera categorica nella reincarnazione e non passa giorno che non reciti il mantra mattutino. Il suo vicino cristiano lo tollera provando un po’ di pena per quello straniero così primitivo che non ha avuto il dono della vera fede, e ignora che il kebabbaro dell’angolo, musulmano, li disprezza entrambi per la loro così evidente impurità.

Torniamo alla satira: i fanatici islamici uccidono per vignette satiriche su Maometto; anche gli induisti, quando ci si mettono, non scherzano; i cristiani, purtroppo, non possono più mettere al rogo gli eretici e i blasfemi, peccato…

Quello che – credo con evidenza – sto cercando di dire, è che chiunque di noi ha una qualche credenza, senso di appartenenza, valore morale, politico, civico, animale preferito, tendenza sessuale, difetto fisico, sport praticato con passione, ideale di vita, colore della pelle, religione, hobby, per i quali si sente offeso nel caso voi lo prendiate in giro. Non lui personalmente, ma quella sua credenza, quel suo comportamento, quel suo valore.

Io sono un sociologo, e c’è stato un periodo, anni fa (oggi meno) in cui i sociologi erano presi in giro ed etichettati come “tuttologi”; la cosa mi infastidiva perché io credevo di essere un buon sociologo, studiavo, mi applicavo, lavoravo bene (o così pensavo). A una certa età ho iniziato a perdere i capelli, e quella santa donna di mia suocera – che cominciava a non starci più con la testa – ogni volta che l’andavo a trovare mi guardava sconsolata la zucca e diceva “Peccato per i capelli!”, la cosa mi seccava: sì, certo, stavo perdendo i capelli, ma perché sottolinearlo ogni volta, ma perché non mi lasci stare? Poi sono vegetariano: a un pranzo di conoscenti un tale con deficit relazionale mi ha detto, a un certo punto “Il mio cibo fa la cacca sul tuo cibo”, si credeva spiritoso, l’ho fulminato con lo sguardo ed evitato in seguito di incontrarlo.

Capite cosa dico? Tutti noi siamo decine e decine di cose differenti, differenti per genere e colore, ma differenti poi per scelte di vita, credenze, abitudini, comportamenti. Finché ognuno si fa i fatti suoi, tutto va bene: ma se qualcuno critica, ci arrabbiamo. Se poi la critica diventa invettiva, sarcasmo, satira, ah, beh, allora ci infuriamo, perché si mette in discussione la nostra identità profonda.

Adesso immaginate un mondo ipotetico in cui siamo tutti di colore uguale, diciamo marroncino chiaro: tutti rigorosamente di 1,75 cm., tutti credenti nello stesso dio; i partiti politici sarebbero stati aboliti da un pezzo perché, avendo tutti la stessa idea, non sarebbero necessari. In questo mondo ipotetico tutti vestiamo uguale, abbiamo la stessa macchina, scopiamo nello stesso modo e andiamo in vacanza (a rotazione, immagino) nello stesso posto. In questo mondo nessuno avrebbe alcunché da dire sui suoi simili (più che “simili”, identici), nessuno farebbe ironia sugli altri, certo, ma neppure ci sarebbero i talk show (però… solo per questo potrebbe valere la pena…) le braciolate con gli amici e i viaggi di gruppo, non avremmo nulla da criticare perché non avremmo proprio nulla da dire. Se in questo mondo, all’improvviso, arrivasse un gruppetto di persone azzurre, alte 1,73, con stravaganti idee su un essere magico e invisibile, potentissimo, che ci guarda dall’alto dei cieli, credo che la nostra amorfa popolazione marroncina troverebbe subito molto da dire: quell’azzurrino della pelle sarebbe apostrofata in innumerevoli modi, e sai le battute su quel protettore magico?

Insomma: è la diversità che ci divide, quella che ci tiene uniti; ci troviamo interessanti perché siamo diversi. Ma la gamma di “diversità” che accettiamo senza battere ciglio è molto ristretta, mentre la vastità delle molteplici possibili differenze prima ci stupisce poi ci spaventa. A me stupisce la mutilazione ai genitali maschili imposta dagli ebrei, ma mi spaventa l’odio di massa che sanno esprimere i musulmani, a me stupisce la variabilità dei comportamenti sessuali, ma mi spaventano le patologie pedofile, mi stupisce l’ignoranza dilagante, ma mi terrorizza la sua trasformazione in eversione, suprematismo, fascismo.

Sulle cose che mi spaventano cerco di realizzare delle azioni politiche (nel mio piccolo: scriverne su Hic Rhodus, parlarne con coerenza nelle occasioni in cui posso farlo), ma su quelle che – senza che mi creino particolari allarmi – mi stupiscono, mi inquietano sociologicamente, allora posso anche fare dell’ironia, che è un modo – sia chiaro – per indicarne i limiti, per stabilire dei confini, per evidenziare una possibile deriva.

Fare ironia sull’ignoranza può essere un modo per indicarne le derive populiste, gridare “Ehi, attenti, con questo modo assurdo di pensare si finisce nel baratro!”. Fare ironia sulla religione è un modo per marcare dei confini oltre i quali le religioni diventano settarie e fanatiche. Fare ironia su comportamenti sessuali (una cosa che si fa dalla notte dei tempi) è un modo, paradossalmente, per integrare e includere: lo so che per qualcuno è difficile da capire, e c’è ironia ed ironia, satira e satira, quelle garbate e quelle feroci, quelle liberatorie e quelle distruttive. Ma chi decide? Fare ironia è un modo per pensare, considerare, tracciare confini (allargandoli), ristrutturare cliché, abbattere luoghi comuni.

Le comunità LGBT dicono che queste offese incitano l’odio. Lo dicono loro. Se sono frasi che incitano l’odio, certamente incitano l’odio e sono riprovevoli. Se fanno una leggera ironia, è solo satira, fanno solo ridere, e chi non vuole ridere ok, non rida.

Quando ero giovano erano in voga le barzellette sui matti: non mi pare abbiano scatenato un clima d’odio sui malati mentali. La barzelletta sul matto era un modo per ragionare sulla diversità: immaginarla, incorporarla, inserirla nel mondo “normale”, anzi denunciando la normalità del mondo.

Il contrario dei bigotti, quelli “politicamente corretti”, che nella rincorsa al rispetto di tutte, ma proprio tutte, le diversità, impongono un silenzio lessicale inquietante, una censura continua, una sostanziale esclusione, il fascismo del silenzio. Non si può dire, non si può alludere, non si deve neppure pensare.

Nel mondo dei bigotti tutti devono essere marroncini, indossare la stessa grammatica, professare gli stessi sintagmi. Il mondo degli uguali non calpesta nessuna differenza, e quindi le calpesta tutte: pretende il rispetto formale, lessicale, per tutto e tutti, e annulla le persone e le idee, un bigottismo prodromico del peggiore assolutismo orwelliano.

Gervais è un comico e fa satira. Sale sul palcoscenico e dice cose – ridendo – che pensa la gran massa della gente: non offende (non dice “finocchio”, per capirci) ma crea situazioni comiche che indicano delle verità, o almeno una visione di verità – quella di Gervais – che può confortare chi la pensa uguale e può far riflette chi pensa in maniera un po’ dissimile. Sapete chi si offende delle battute di Gervais? Il chierico fanatico, chi si difende dal mondo, chi si contorce nei sensi di colpa, chi si sente afflitto e si arrocca in piccole verità marginali e vorrebbe che tutti gli altri soffrissero, cambiassero, tacessero.

Il fanatico del politicamente corretto non è un gendarme della tolleranza contro gli abusi dei volgari, dei blasfemi e degli intolleranti. Al contrario, è un intollerante ignorante e insicuro che vorrebbe un mondo plasmato sulla sua piccineria morale.

Viva la satira, viva la blasfemia, viva la differenza!

Le origini cristiane dell’Europa tra retorica e mistificazioni

4 Aprile 2022 dc, dal sito Italialaica, articolo del 15 Marzo 2022 dc:

Le origini cristiane dell’Europa tra retorica e mistificazioni

di Marco Comandè

Avevamo scampato l’elezione dell’integralista Marcello Pera a Presidente della Repubblica, ma ci ritroviamo con un despota che ha attuato tutti i punti programmatici della sua battaglia contro il relativismo religioso, per poi scatenare una guerra contro l’Ucraina: le origini cristiane nella costituzione russa nell’art. 71, la difesa della tradizione con l’inaugurazione della mostra “I Romanov e la Santa Sede: 1613-1917” nel mese di dicembre del 2017, l’imposizione della festività patriottica il 7 novembre (in ricordo della cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612).

C’è una certa macabra ironia nel citare il pensiero di Marcello Pera e Joseph Ratzinger, sul rischio della mancata trascrizione delle origini cristiane nella Costituzione europea: “il rischio che il timore delle scelte induca i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio affievolire la fede o abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto”.

E il politologo si riferiva alla possibilità di uno scontro con l’Islam, non con il cristianesimo ortodosso russo, il cui Patriarca ha di recente giustificato il conflitto in Ucraina con la crociata contro i gay!

Tanto medievale è l’ultima giustificazione, da ricordare una celebre frase del monaco Arnaud Amaury prima del massacro contro gli eretici gnostici a Béziers, dove il 22 luglio 1209 avrebbe detto: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi!”, per significare che era preferibile avere morti un cristiano giusto ed uno sbagliato piuttosto che salvarli entrambi. La frase è stata messa in dubbio dagli storici, ma il senso della frase è realmente condiviso dai fanatici cattolici ed ortodossi, come dimostra la battaglia contro i relativisti-materialisti-democratici-gay ucraini.

Tutti questi giri di parole non possono lasciare inevasa la questione di fondo sulle reali, autentiche origini del cristianesimo in Europa, se il nuovo zar Putin rinnega il dialogo con l’Occidente cristiano per affermare la supremazia dell’Oriente cristiano. Ben lungi dall’essere una rivendicazione del ruolo della religione nel mondo multipolare, l’ostinazione nell’attribuire alla Divina Provvidenza il ruolo preponderante nella storia universale ha un che di minaccioso, che non si arresta nemmeno di fronte alla minaccia atomica. Esistono tante soluzioni per un’Ucraina neutrale che non contemplano la guerra, ma tutte devono necessariamente passare attraverso le regole laiche della democrazia pluralista.

Vorremmo infine sollevare il velo sulla polemica innescata dagli integralisti cattolici, contro l’Europa relativista che censura il Natale e le persecuzioni cristianofobe nel mondo. I vari Marcello Pera, Marcello Veneziani, Antonio Socci, Magdi Allam ogni giorno elencano le stragi compiute nelle civiltà “altre” contro i cristiani, disinteressandosi poi degli equivalenti genocidi contro i musulmani, dall’India governata dal fanatico indù Narendra Modi alla Birmania del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ora, è innegabile che le vittime in Ucraina siano cristiane. Questo non significa affatto che esista una cristianofobia nel mondo, bensì che il fanatismo religioso rigetta ovunque i principi laici della tolleranza e della pace e giustifica le violenze con la presunta supremazia culturale tanto cara ai Marcello Pera e Vladimir Putin.

Marco Comandè
Reggio Calabria

Crocefisso mobile, religione cattolica stabile

30 Novembre 2021 dc, da Italialaica.it, 22 Settembre 2021 dc:

Crocefisso mobile, religione cattolica stabile

di Marcello Vigli

Per tredici anni un docente di una scuola superiore di Terni, Franco Coppoli, ha tenuto duro resistendo all’Amministrazione scolastica, che lo aveva condannato a restare un mese senza stipendio, per aver rimosso il crocefisso dall’aula in cui insegnava. La Corte di Cassazione, che lo ha assolto, ha così sancito che il crocefisso può essere esposto nelle aule scolastiche solo allorquando la comunità scolastica valuti e decida in piena autonomia di esporlo nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocefisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della comunità scolastica. All’interno di una pluralità di simboli il crocefisso non ha più un valore discriminante.

Questo significativo pronunciamento non risolve però il problema della presenza della religione cattolica nella scuola pubblica “statale” italiana: l’inserimento dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) all’interno dell’ordinamento scolastico costituisce il vero problema.

A dire il vero, questo inserimento ha una sua storia fatta di varie tappe. Ai tempi del Concordato fascista era stato inserito con un’ora in tutti gli ordini scolastici e affidato ad insegnanti nominati dai vescovi responsabili esclusivi anche dei programmi.

Col nuovo Concordato l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) è diventato materia curriculare con differenziazioni fra i vari ordini.

Nella scuola elementare le due ore settimanali previste, senza un programma definito, sono affidate alle stesse maestre e ai maestri che si sono dichiarati disponibili. Nella scuola media c’è un’ora sola con un programma complesso, spalmato nel corso del triennio e definito in sede ministeriale d’intesa con l’autorità ecclesiastica. Per le superiori non sono previsti programmi definiti.

Sia nella scuola media che nelle superiori i docenti di religione cattolica sono diventati di ruolo, un ruolo molto speciale: se un/a docente della materia non intende più insegnarla ha diritto a scegliersene un’altra, per la quale sia abilitato/a, o passare alla segreteria di una scuola, anche altra, sempre con il consenso del vescovo che ne aveva consentito la nomina.

Questi aspetti rendono secondaria la soluzione della facoltatività della frequenza dell’ora di religione cattolica, mentre evidenziano lo status privilegiato della presenza della religione cattolica nella scuola pubblica.

Roma, 22 settembre 2021

L’insegnamento come “vocazione”

In e-mail il 16 Settembre 2019 dc:

L’insegnamento come “vocazione”

di Lucio Garofalo

Ogni tanto si riaffaccia la teoria dell’insegnamento come una “vocazione”.

A fasi alterne riemerge l’antica disputa tra chi reputa gli insegnanti una sorta di “fannulloni” ed una categoria privilegiata, e chi li concepisce come “missionari”.

Due estremi antinomici, ma entrambi non rendono giustizia a noi docenti.

Per cui c’è chi ha l’ardire di ipotizzare ulteriori incrementi dell’orario di servizio, a parità di retribuzione salariale. Sorvolo sul fatto (da molti ignorato) che un notevole carico di lavoro e di studio è già sopportato ogni giorno da qualsiasi insegnante scrupoloso, nei tempi extra-scolastici ed in forma gratuita.

Mi riferisco agli adempimenti individuali aggiuntivi e volontari, un lavoro che si presenta oltre l’orario di lezione, necessario e funzionale all’attività didattica quotidiana: preparazione delle lezioni e correzione dei compiti, compilazione dei registri ed altri documenti burocratici, cartacei e digitali, e via discorrendo.

Mi preme evidenziare un aspetto essenziale della professione docente, vilipesa da campagne ideologiche infamanti. In base alla mia memoria, ed alle mie esperienze professionali, ho avuto modo di riscontrare come nella scuola italiana prevalga una corrente di pensiero e di prassi clericaleggiante: è una visione quasi religiosa che, con malcelata ipocrisia, concepisce la funzione pedagogica nei termini di una “missione”.

In base ad una simile congettura, i docenti dovrebbero lavorare di più, animati da una “vocazione”, offrendo  prestazioni di lavoro a titolo gratuito.

Ma quale strana e bizzarra visione, inerente solo agli insegnanti, bensì non, ad esempio, ai presidi o ai bidelli. Pardon, dirigenti e collaboratori scolastici. Idem per gli avvocati, i notai, o i medici, e tutti gli altri professionisti.

Insomma, a tutti i lavoratori del comparto sia pubblico che privato, tranne gli insegnanti, le ore eccedenti (gli straordinari) vengono retribuite in modo decente. Gli unici ad essere offesi, bistrattati e derisi sono proprio i “missionari” della scuola, che per altri sarebbero dei “lavativi privilegiati”. Ebbene, si mettano d’accordo tra di loro: sono missionari o nullafacenti? Né l’uno, né l’altro. Molto più laicamente, dovremmo essere qualificati come professionisti, da onorare e retribuire in quanto tali, cioè in termini più dignitosi!

Perché la sinistra non sceglie la laicità?

Su MicroMegaa il 21 Febbraio 2019 dc:

Perché la sinistra non sceglie la laicità?

di Matteo Gemolo

A Ginevra è stata di recente confermata con un referendum la legge sulla laicità che vieta ai funzionari pubblici di esibire simboli religiosi nell’esercizio delle loro funzioni. Una norma di buon senso eppure fortemente contrastata dalle forze politiche di sinistra che, annebbiate da un malinteso multiculturalismo, hanno perso completamente la barra della laicità e dei diritti.

Col 55,05% dei voti favorevoli, attraverso un referendum domenica 10 febbraio Ginevra ha dato la propria benedizione alla nuova legge sulla laicità (LLE 11764), voluta e approvata nel maggio del 2018 dal Consiglio di Stato. Dopo due anni di approfondimenti e studi da parte della Commissione dei diritti dell’uomo e sotto l’impulso in particolare del magistrato e consigliere liberale Pierre Maudet, gli 11 articoli che compongono questa legge si ripromettono di aggiornare e ricontestualizzare la precedente normativa che Ginevra aveva adottato agli inizi del ‘900 e rivisto l’ultima volta nel 2012.
La legge del 2018 si staglia sul panorama multiculturale svizzero attuale con l’obiettivo chiaro e netto di osteggiare la sempre più forte diffusione di fenomeni in contrasto col convivere democratico, quali radicalismo, fanatismo, proselitismo e comunitarismo religioso.
In modo particolare, questa legge rappresenta un passo importante proprio nel processo di secolarizzazione della Svizzera stessa, la cui carta costituzionale (vale la pena ricordarlo) si apre ancora con l’originario motto risalente al 1848: “Au nom de Dieu tout-poussant”, retaggio di un passato calvinista mai realmente dimenticato. Se, da un lato, la Costituzione federale della Confederazione svizzera enuncia esplicitamente principi come la libertà di coscienza e di culto, dall’altro, quella stessa carta non impone una neutralità religiosa che altre democrazie nel continente europeo hanno ritenuto necessario implementare (prima fra tutte la Francia), lasciando di fatto aperta la possibilità ai singoli cantoni di determinare la propria religione “ufficiale”. Non stupirà dunque constatare che tra tutti i 26 cantoni svizzeri, le sole Ginevra e Neuchâtel rimarcano in Costituzione la propria natura “laica”.
Come enunciato in testa al progetto di legge, gli obiettivi dell’LLE 11764 sono i seguenti: 1) proteggere la libertà di coscienza, di credenza e non credenza; 2) preservare la pace religiosa; 3) definire la cornice appropriata alle relazioni tre le autorità e le organizzazioni religiose.

 

Gli articoli 2 e 3 definiscono la “neutralità religiosa dello Stato” e rimarcano il seguente principio: “Lo Stato è laico. Esso osserva una neutralità religiosa. Non finanzia né sponsorizza alcuna organizzazione religiosa.” Sulla falsariga di questi primi tre articoli, i restanti 8 precisano come questa laicità “teorica” si possa e debba concretamente esplicitare.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tutte queste norme hanno entusiasmato i sedicenti progressisti seduti nel ramo sinistro del parlamento ginevrino.
Alcune di esse, in particolare l’articolo 6 e 7, hanno dato aria all’ennesima tromba “islamofobica”, suonata in perfetta sincronia dai soliti rappresentati delle comunità religiose e, come da copione un po’ più stonati, anche dai membri del Partito Socialista, dei Verdi e di Ensemble à gauche. Ad essere contestate sono le misure che impongono una rinnovata neutralità religiosa, obbligando i funzionari in contatto col pubblico e gli eletti dei consigli cantonali e municipali a non ostentare alcun simbolo religioso durante l’esercizio delle proprie funzioni.
Dunque: via le grosse croci appese al collo, via kippah e via pure i veli… ma mentre per quel che riguarda i primi due casi, la sinistra ginevrina non sembra aver lamentato alcun attentato alla libertà religiosa (con buona pace dei vari cattolici ed ebrei ortodossi in città), un gran baccano si è creato intorno alla tanto vessata questione del velo islamico.
Tra le varie voci, il socialista Cyril Mizrahi ha rimarcato sprezzante quanto questa nuova legge sulla laicità, al contrario della precedente del 2012, tenda ad “imporre la laicità a tutti”, rappresentando una “negazione del fenomeno religioso” tout court. Come se “negare il fenomeno religioso” ed “imporre la laicità” in quello stesso spazio pubblico in cui cittadini si recano per ricevere dei servizi da parte dello Stato (comuni, scuole ecc.), rappresentasse un fatto antidemocratico e liberticida.
La socialista Carole-Anne Kast ha rincarato la dose con queste preoccupanti parole: “Se passerà la legge, sarò costretta a separarmi da cinque donne che indossano il velo. (…) Queste donne aiutano i bambini a scuola o si prendono cura di loro dopo la scuola. Cosa dirò ai genitori?”
Tra le fila di una certa sinistra dal laicismo a giorni alterni si dà ormai per scontato che quelle donne non potranno che scegliere di tenersi il velo; si dà ormai per consumato lo scontro tra laicità e comunitarismo e nel farlo la si dà vinta di fatto a quell’idea razzista, bigotta e coloniale che vuole rappresentare le donne musulmane come appartenenti ad una comunità religiosa incapace di trasformarsi, evolvere e mettersi in discussione.
Quello che sembra non venire colto da coloro i quali continuano a confondere i diritti degli individui con i diritti delle comunità è che, al contrario di alcune pratiche comunitariste sul corpo delle donne realmente violente, l’esercizio della laicità richiesto ai rappresentati pubblici in questa nuova legge non ha un carattere invasivo, non amputa e non recide, non lede in alcun modo la persona, né tanto meno priva l’individuo della libertà di professare il proprio culto.
La rimozione di un velo o di un kippah dalla testa di chi rappresenta lo Stato è meramente temporanea e segue questo basilare principio: vi è il diritto del cittadino a vedersi garantita una neutralità religiosa nello spazio pubblico che precede ed è prioritario rispetto al diritto dei singoli funzionari pubblici e rappresentati delle istituzioni di vestirsi come diavolo gli pare.
Una questione seria ed incredibilmente attuale si apre dunque di fronte a noi: perché lasciare ai soli fedeli religiosi la possibilità di ostentare i propri simboli mentre quella stessa libertà non viene concessa, per esempio, ai tifosi di una squadra di calcio o ai membri di un club di poker? Perché i crocefissi sui muri delle scuole sì e gli educatori con le magliette da hooligan o i berretti con visiera di protezione no? All’interno di un contesto laico, perché la religione continua ad avere dei canali preferenziali rispetto ad altri accorpamenti tra individui di natura culturale, sportiva o artistica?
Stupisce che la nuova e rinnovata neutralità che questa legge sulla laicità chiede ai funzionari pubblici e agli eletti di rispettare sia interpretata da più voci sedicenti laiche e progressiste come un’offesa e un attacco nei confronti delle congregazioni religiose ed in modo particolare di quella musulmana. A coloro che in nome del multiculturalismo si dichiarano indignati di fronte ad un presunto torto fatto a una minoranza religiosa (senza rendersi conto che questa restrizione vale anche per gli appartenenti ai culti di maggioranza) ricordo che non vi sarebbe alcun torto se un privilegio ingiustificato non fosse stato precedentemente concesso.
Sabine Tiguemounine, deputata municipale dei Verdi, l’unica politica fino a questo momento ad indossare lo hijab in consiglio a Meyrin ha dichiarato al quotidiano svizzero Le Libre: “La gente mi conosce come quella lì!”, facendo riferimento al proprio copricapo. Ora che la nuova legge sulla laicità è definitivamente passata, sarebbe interessante capire se l’agenda politica che ha portato Sabine Tiguemounine a sedere tra i banchi dei Verdi sia o meno prioritaria e/o in contraddizione rispetto alla propria personale rivendicazione d’appartenenza ad una comunità religiosa. Delle due l’una: si può sposare la laicità senza indugio, mettendo da parte anche la propria fede e i dettami che essa impone per spirito di servizio, o si può fare come fanno i sindaci leghisti in Italia che, invocando una fantomatica libertà di coscienza, decidono di contravvenire alla legge, non celebrando per esempio le unioni di fatto, perché in contrasto con i propri “valori religiosi”.