Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

Dal sito del PRC, articolo del 3 Febbraio 2024 dc:

Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

di Maurizio Acerbo

A nome del Partito della Rifondazione Comunista faccio i più calorosi auguri a Angela Davis per i suoi 80 anni – compiuti il 26 gennaio – di vita straordinaria e esemplare.
 
Nell’occasione vorrei ricordare un passaggio assai importante della sua lunga militanza comunista che forse non è nota a tutte/i quanto la sua epopea di rivoluzionaria afroamericana perseguitata e incarcerata dall’FBI. Per la liberazione di Angela Davis si mobilitò davvero tutto il mondo. Segnalo, come esempi della vastità del movimento, il carteggio tra il filosofo marxista ungherese Gyorgy Lukacs e Enrico Berlinguer e le canzoni che le dedicarono John Lennon e i Rolling Stones.
 
Angela negli ultimi anni si è autodefinita “una comunista con la c minuscola” e questo probabilmente deriva dalla sua presa di distanza di lunga data dalla tendenza a autonominarsi avanguardia e altre caratteristiche autoritarie e dogmatiche del marxismo-leninismo di matrice stalinista.
 
Nel 1992 Angela Davis, la più famosa esponente del Partito Comunista degli Stati Uniti, uscì dal partito con buona parte dei più autorevoli dirigenti e militanti in dissenso con le posizioni conservatrici dell’allora segretario bianco Gus Hall. Per capirci il segretario tifava per i golpisti russi anti Gorbaciov che, tra l’altro, diedero un formidabile assist a Eltsin che approfittò della crisi per assumere la guida del paese verso la restaurazione del capitalismo e la dissoluzione dell’URSS.
 
Angela Davis aveva una statura intellettuale e un dialogo con il meglio della cultura marxista del nord e del sud del mondo che difficilmente poteva ridursi alle posizioni “brezneviane” di Hall. Ricordo che Angela Davis non è stata solo la più famosa prigioniera politica del mondo, ma anche un’allieva del filosofo Herbert Marcuse.
 

Con Angela c’erano il folksinger Pete Seeger, lo storico vittima del maccartismo Herbert ApthekerCharlene Mitchell la prima donna nera candidata alla Presidenza degli Stati Uniti, il veterano degli anni ’30 Gill Green, l’attivista del Free speech Movement di Berkeley e del movimento contro la guerra del Vietnam Michael Myerson.

Uno dei casus belli della rottura fu il differente atteggiamento nei confronti di un saggio che Joe Slovo, leader del Partito comunista sudafricano e del braccio armato dell’African National Congress, aveva scritto sulla crisi del socialismo nell’Europa Orientale nel 1989.
 
Scriveva Joe Slovo: “è più che mai vitale sottoporre il passato del socialismo esistente [in URSS e Europa orientale] a una critica spietata per trarne le necessarie lezioni. Farlo apertamente è un’affermazione di giustificata fiducia nel futuro del socialismo e nella sua intrinseca superiorità morale. E non dovremmo lasciarci inibire solo perché la denuncia dei fallimenti fornirà inevitabilmente munizioni ai tradizionali nemici del socialismo: il nostro silenzio, in ogni caso, offrirà loro munizioni ancora più potenti.(…) Il socialismo può senza dubbio funzionare senza le pratiche negative che hanno distorto molti dei suoi obiettivi chiave. Ma la semplice fiducia nel futuro del socialismo non è sufficiente. Bisogna imparare le lezioni dei fallimenti passati. Soprattutto, dobbiamo fare in modo che il suo principio fondamentale – la democrazia socialista – occupi un posto legittimo in tutte le pratiche future” (Joe Slovo, Il socialismo ha fallito?)
 
Come raccontò Mitchell al giornale del South African Communist Party “invece di incoraggiare la discussione, i vertici del partito [Gus Hall] liquidarono le opinioni di Slovo definendole antisocialiste, antimarxiste e antimarxiste-leniniste”.
 
Angela Davis, che era stata con la componente afroamericana del partito in prima fila per decenni nel movimento antiapartheid, ovviamente aveva un legame assai solido e ben altra stima di combattenti come Slovo e Mandela.
 
L’area di cui era parte la Davis, e nella quale si riconosceva gran parte della militanza afroamericana e dei movimenti, poneva questioni relative a molti temi: dalla strategia sindacale alla mutata composizione di classe (con l’immigrazione che rendeva necessario rivolgersi non solo all’operaio maschio bianco) al ruolo del partito nei movimenti ambientalisti e femministi.
 
Con metodi alquanto stalinisti il numeroso gruppo di autorevoli dirigenti e militanti che aveva presentato il documento “L’iniziativa per rinnovare e unire il partito” fu epurato dalla direzione nel congresso del 1991 dopo che a molti sostenitori fu impedito di partecipare.
 
Ne seguì la scissione (con inevitabili liti su sedi e fondi) e la costituzione della rete dei Committee of Correspondence per tenere insieme i militanti. Il compito di questi comitati era quello di tenere in collegamento i militanti usciti e quelli rimasti nel partito. Oggi si chiamano ‘Committess of Correspondence for democracy and Socialism‘ e lavorano per l’unità consentendo il doppio tesseramento al Partito Comunista USA o ai Democratic Socialists Of America.
 
Le posizioni di Angela Davis e del suo gruppo nel 1991 sarebbero state definite in quegli anni in Francia o in Italia di rifondazione comunista.
 
In sintesi non rinunciavano al comunismo sulla base proprio di una critica radicale del “socialismo reale” e rivendicavano la necessità di un rinnovamento contrapposto sia al conservatorismo che all’abiura.
 
Insomma se si confrontano i documenti della Rifondazione italiana – prima nel no a Occhetto nel Pci e poi di movimento e partito – la sintonia è evidente anche se assai diversi storia e contesti.
 
Angela Davis ha proseguito, dopo la separazione dal partito che l’aveva candidata per due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il suo impegno come intellettuale militante e attivista dando un contributo pratico e teorico di straordinaria importanza negli USA e a livello internazionale.
 
Col tempo molte delle sue posizioni sono state fatte proprie anche dal suo vecchio partito con cui ha mantenuto rapporti non settari come testimonia il messaggio che ha inviato per il centenario del CPUSA esaltandone la gloriosa storia.
 
Il marxismo di Angela Davis è profondamente radicato nella storia afroamericana e nelle lotte dei popoli colonizzati. Non a caso sottolinea l’importanza del “black marxism” di autori come Cedric Robinson e il carattere razziale del capitalismo fin dalle origini nella tratta degli schiavi che fornì i capitali per la rivoluzione industriale (come d’altronde insegnava Marx nel libro I del Capitale).
 
Il suo femminismo nero critico di quello bianco mainstream ha anticipato l’approccio intersezionale e il cosiddetto “femminismo del 99%”: “”Il femminismo deve lottare contro l’omofobia, lo sfruttamento di classe, razza e genere, il capitalismo e l’imperialismo”.
 
Angela Davis ha tenuto una linea diversa dal CPUSA che dagli anni ’90 sostiene una sorta di fronte antifascista di sostegno critico al Partito Democratico. Angela Davis, come Chomsky, non ha rinunciato alla prospettiva della costruzione di un terzo partito effettivamente di sinistra che rompa il sistema bipartitico. Parlando ai giovani di Occupy Wall Street disse: “Il sistema bipartitico non ha mai funzionato, ma non funziona ora e abbiamo chiaramente bisogno di alternative. Personalmente credo che abbiamo bisogno di un forte, radicale, terzo partito. Nel frattempo, questo movimento, che non è un partito, può compiere molto più di quanto i partiti politici non siano in grado di realizzare e così mi sembra, che il modo migliore per esercitare pressioni su questo corrotto sistema bipartitico è quello di continuare a costruire questo movimento e di dimostrare che raggiunge non solo tutto il paese ma va al di là dell’oceano”.
 
Per questa ragione Angela Davis non si fece coinvolgere nella campagna di Bernie Sanders nelle primarie democratiche pur apprezzandone i contenuti. Va detto che Sanders riuscì a catalizzare, mobilitare e popolarizzare intorno al socialismo le nuove e vecchie generazioni di attiviste e soprattutto larghi settori popolari e di classe lavoratrice. Angela Davis però, di fronte al pericolo di una vittoria di Trump, fu costretta come Chomsky e tanti altri a dare indicazione per i democratici sottolineando sempre però che non è quello il partito su cui fare affidamento.
 
Un segno di attitudine non settaria. Angela Davis, come noi, pensa che “Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese” (forse uno dei motivi per cui fui allergico alla conversione della sinistra al maggioritario nei primi anni ’90 è che sono cresciuto leggendo autori e storie della sinistra radicale USA). Nel 2016 dopo la vittoria del miliardario fascistoide è stata tra le protagoniste della marcia delle donne contro Trump con un discorso memorabile.
 
Credo che Angela Davis sia stata lungo i decenni una delle più importanti figure a livello internazionale della rifondazione comunista (ovviamente come insegnavano Ingrao e Rossanda il compito storico di una rifondazione va molto al di là dei confini di un singolo partito come il nostro).
 
Lo è stata con l’attivismo e con un’elaborazione che è sempre stata intrecciata con la sua internità ai movimenti e alle lotte nel suo Paese e a livello internazionale come con la memoria storica della lunga “tradizione degli oppressi”. Per esempio segnalando sempre il carattere razzista degli USA e il legame tra la repressione della sua generazione di militanti neri e quella che continua a colpire i giovani afroamericani in maniera sistemica e trasmettendo alle nuove generazioni l’eredità di figure come Martin Luther King e Malcolm X. Oppure rendendo omaggio alla storia del mitico sindacato dei marittimi della costa occidentale (a cui dedicò tanta parte di Noi saremo tutto Valerio Evangelisti) durante il movimento Black Lives Matter nell’intervento allo sciopero dei portuali di Oakland.
 
È una leader del sessantotto globale che, al contrario di tante/i altre/i, non si è rifugiata nel reducismo né è passata dalla parte delle classi dominanti.
 
Angela è una delle voci più autorevoli dei movimenti e della sinistra radicale negli USA e nel mondo.
 
Il comunismo democratico e internazionalista, marxista nero, femminista e intersezionale di Angela Davis è un punto di riferimento imprescindibile.
 
Dirsi comunisti con la c minuscola è una buona cosa.
 
La compagna lesbica Angela Davis è la dimostrazione di come il rozzobrunismo sia un’attitudine reazionaria e di destra. La sinistra può essere fucsia rimanendo – anzi essendo più coerentemente -anticapitalista e antimperialista come insegna la straordinaria biografia militante e intellettuale di Angela Davis.

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

26 Maggio 2023 dc, da Left, articolo del 19 Maggio 2023 dc:

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

di Noemi Ghetti

Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, diceva Bobbio rimane non risolto in tutta la sua gravità. L’affascinante ideale dell’eguaglianza, aggiungeva, è stato la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato

In occasione della nuova edizione di Destra e sinistra  di Norberto Bobbio ripubblichiamo la recensione di questo importante testo firmata da Noemi Ghetti che uscì su Left nel 2010 in occasione del centenario della nascita del filosofo e pensatore politico. Riproposto dall’editore Donzelli con una nuova prefazione di Nadia Urbinati, a trent’anni dalla prima fortunata edizione il testo di Bobbio non cessa di stupire per la persistente attualità della ricerca e per l’ottimismo di fondo che la anima.

Rileggere le cose non fa mai male: si capiscono meglio. Mai come in questi tempi suona opportuno l’invito, rivolto nei giorni scorsi da un professore agli studenti in un’affollata aula universitaria. L’iniziativa dell’editore Donzelli di proporre, nell’ambito delle celebrazioni per il contenario della nascita di Norberto Bobbio, una nuova edizione del saggio Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica con un’introduzione di Nadia Urbinati, appare di attualità e offre un forte stimolo di riflessione, anche alla luce degli avvenimenti che investono la vita pubblica italiana in questi giorni.

Filosofo e politologo, per molti decenni impegnato nell’insegnamento universitario, pubblicò all’età di ottantacinque anni la prima edizione del «libretto» destinato a restare, tra tutti i suoi lavori, il testo più discusso e famoso. Uscito in libreria il 26 febbraio 1994, fu un successo editoriale senza precedenti: diecimila copie vendute in tre giorni, centomila in due mesi, più di trecentomila nel primo anno. E poi, traduzioni in ben 27 lingue straniere.

Il muro era caduto da cinque anni, l’Italia era immersa nella prima stagione di Tangentopoli e assistevamo attoniti la “discesa in campo” del cavaliere che, a fine marzo, conseguì la prima vittoria elettorale. A maggio dello stesso anno Bobbio, che non cessava di stupirsi dell’imprevedibile fortuna del libro, in una lettera a Carmine Donzelli notava con amaro umorismo: «Andiamo avanti con l’Italia berlusconizzata e con questo governo, per il quale ho scritto: Sì, ci ho riflettuto: / avvenga quel che avvenga. / La gente l’ha voluto / ed ora se lo tenga». Parole sulle quali ci tocca interrogarci ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2004.

Ma più impressionante ancora è l’attualità della ricerca che Bobbio svolge sulla dicotomia tra destra e sinistra, «civettando» continuamente, come egli stesso scrive, con la logica. Una logica deduttiva limpida e mai astratta sostiene l’argomentazione, che compone una straordinaria precisione linguistica con una fine capacità di osservazione, anche psicologica. Perché, come scrive a sorpresa il filosofo che fu definito un illuminista del Novecento, «non c’è ideale che non sia acceso da una grande passione. La ragione, o meglio il ragionamento che adduce argomenti pro e contro per giustificare le scelte di ciascuno di fronte agli altri, e prima di tutto verso se stessi, viene dopo. Per questo i grandi ideali resistono al tempo e al mutar delle circostanze, e sono l’uno all’altro, ad onta dei buoni uffici della ragione conciliatrice, irriducibili».

Quando cadde il fascismo, ricorda Bobbio, la destra sembrò essere quasi scomparsa: con la dissoluzione dei regimi comunisti la sinistra scende e sale la destra. E tuttavia i termini antitetici della diade hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. La questione discussa è dunque se la distinzione storica tra destra e sinistra, metafora spaziale che dalla Rivoluzione francese per due secoli è servita a dividere l’universo politico in due parti opposte, nel tempo della cosiddetta crisi delle ideologie abbia ancora ragione di essere utilizzata, nonostante le argomentazioni tese a negarla.

E nonostante la confusione della sinistra con la destra e della destra con la sinistra, verificatasi a più riprese nel Novecento. Come quando agli inizi del secolo intellettuali socialisti si fecero teorici del fascismo. O quando nel ’68 furono adottati a sinistra “maestri del pensiero” come Heidegger, dal passato di chiara compromissione nazista. O quando, fallito quel movimento, intellettuali ex-sessantottini passarono alle file della destra. O da quando, recentemente, politici di destra hanno preso ad appropriarsi di posizioni tradizionalmente proprie della sinistra. Fenomeno che, per alcuni, sarebbe indicativo del fatto che non esistono più differenze che meritino di essere contrassegnate con nomi diversi.

Eguaglianza e libertà: i due termini hanno un senso emotivamente fortissimo, ma un significato descrittivo generico, e un contenuto spesso antitetico, che Bobbio indaga da diverse angolazioni.

La tesi centrale del saggio è che sinistra e destra restano tuttora irriducibili l’una all’altra alla luce dell’opposizione di eguaglianza-diseguaglianza, mentre la coppia oppositiva libertà-autoritarismo serve piuttosto a distinguere i moderati dagli estremisti.

Fascismo e bolscevismo, accomunati da concezioni egualmente «profetiche» della storia, condividono infatti per Bobbio il disprezzo democratico e l’uso della violenza, teorizzato come positivo. La teoria degli “opposti estremismi”, che prima della caduta del comunismo molti intellettuali trovavano inaccettabile, è secondo lui dimostrata in modo inoppugnabile dalla professione autoritaria e antilibertaria di quelle dottrine. Una dialettica democratica, dunque non violenta, tra destra e sinistra, non può dunque che svolgersi tra liberalismo e socialismo. E Bobbio non esita a dichiarare di essersi sempre dimostrato un uomo di sinistra.

Ma che cosa si intende per eguaglianza?

L’eguaglianza radicale di tutti in tutto, che è il nerbo del pensiero degli utopisti, è una formulazione non solo astratta, ma che storicamente si è rivelata funesta, l’«utopia capovolta» del comunismo reale. Un contenitore vuoto, come del resto l’idea della libertà assoluta. Con la differenza che la libertà è sempre in relazione con un altro termine. «Posso dire: io sono libero, ma non: io sono eguale» è la semplice ma fondamentale osservazione di Bobbio.

L’idea dell’eguaglianza implica sempre il rapporto con altri esseri umani. E tuttavia il metodo del pensiero razionale, che nello studio della realtà umana si ferma alla coscienza e al comportamento, pur nell’assoluta onestà d’intenti mostra, anche in questo saggio, un suo limite. E, nell’impossibilità di comporre eguaglianza e diversità degli esseri umani secondo un criterio universale, deve accontentarsi di definire l’eguaglianza come “tendenza” specifica della sinistra. Un limite evidente se si consideri il rapporto uomo-donna, che necessita di comporre i termini uguale-diverso: sul piano razionale un paradosso, una sfida all’aristotelico principio di non contraddizione, a cui Bobbio mostra di sapersi avvicinare per altra via.

L’indagine offre infatti, alla fine del millennio scorso, molte folgoranti premonizioni.

Come quando ad esempio il politologo pone, ad una sinistra operaista sorda, la questione dell’immigrazione. Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, egli avverte, rimane non risolto in tutta la sua gravità.

L’affascinante ideale dell’eguaglianza è stato, egli conclude, la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato. L’umanità, affermava ottimisticamente Bobbio nel 1998, non è giunta alla “fine della storia”, ma è forse soltanto al suo principio. Il processo di emancipazione delle donne era infatti, per lui, la più grande rivoluzione del nostro tempo: «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali della disuguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare, poi nella più grande società civile e politica, è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». Di questa sua lungimiranza, tra le altre la più generosa, noi donne gli siamo particolarmente riconoscenti. (Da Left n. 10, 12 marzo 2010).

Riflessione sulla scomparsa di Ciriaco De Mita

In e-mail il 29 Maggio 2022 dc:

Riflessione sulla scomparsa di Ciriaco De Mita

di Lucio Garofalo

Seppur volessi, non riuscirei ad associarmi alla “canea” delle dichiarazioni di cordoglio, al coro quasi unanime delle condoglianze, più o meno sincere ed ipocrite che siano, per il lutto che ha investito la comunità di Nusco, in particolare la famiglia De Mita, nonché il territorio dell’Irpinia e dintorni.

Non riesco ad avvertire alcun dolore autentico.

Si potrà obiettare che “il sentimento del cordoglio è per l’uomo, non per il politico”…  In verità, l’uomo e il politico sono inscindibili da circa 70 anni, se non oltre, da quando, nel 1953, se non erro, la “buonanima” esordì sulla scena politica aderendo alla corrente della “Sinistra di Base” che apparteneva alla “Balena bianca”, la Democrazia Cristiana.

La carriera politica di De Mita decollò grazie anche alla moglie, che era la segretaria di Fiorentino Sullo, esponente di spicco della DC, anch’egli originario dell’Irpinia, precisamente di Paternopoli…

Negli anni ’80 il figlio del sarto di Nusco riuscì a diventare uno degli uomini politici più potenti d’Italia, costituì il punto di riferimento, il perno centrale attorno a cui ruotava un ceto dirigente democristiano che annoverava numerosi elementi provenienti dall’Irpinia: Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, Salverino De Vito, Lorenzo De Vitto ed altri.

Fu l’unico leader DC a ricoprire nello stesso tempo la carica di Presidente del Consiglio, dal 1988 al 1989, e quella di segretario nazionale del partito, dal 1982 al 1989. Ciriaco De Mita è stato un astuto ed abile politico, nonché un intellettuale colto e raffinato, provvisto di una mente acuta, capace di elaborare un pensiero progettuale di ampio respiro, ma tali qualità politiche ed intellettuali furono subordinate ad un disegno egoistico di accrescimento e mantenimento del potere, per sé e per la propria cerchia familiare, amicale e clientelare.

Ma il fallimento storico-politico del demitismo è testimoniato da numerosi fatti ed elementi concreti, alcuni dei quali appaiono in una dimensione drammatica e raccapricciante: dallo spopolamento crescente ed inarrestabile delle comunità dell’entroterra irpino, la zona del cratere sismico in maniera particolare, alla chiusura di numerose fabbriche (alcune erano già decotte in partenza) ed di intere aree industriali, costruite durante la lunga stagione della ricostruzione post-sismica, grazie agli ingenti fondi pubblici erogati dalla Legge n. 219 del 1981, ben 60 mila miliardi di lire, di cui una percentuale assai cospicua è stata dirottata per finanziare la camorra e rimpinguare le attività illecite ed il malaffare.

Senza omettere che la nostra terra, l’Irpinia, detiene il lugubre primato dei suicidi in tutto il Meridione d’Italia.

Potrei proseguire qui nel “dipingere” il macabro e desolante quadro storico-politico ed esistenziale, ma ritengo che la sintesi che ho formulato basti. Sorvolerei sul caso, arcinoto (ma non ai più), dell’Irpiniagate, sul quale venne scritto e pubblicato un libro nel 1989.

Insomma, con la dipartita di Ciriaco De Mita è scomparso un “nemico di classe” per il movimento comunista ed antagonista irpino (o, almeno, per i soggetti sopravvissuti, per i “cani sciolti”, tra cui il sottoscritto)… De Mita è stato un avversario politico per intere generazioni di comunisti e dissidenti che hanno osteggiato il suo sistema di potere, instaurato soprattutto in Irpinia e nel Sannio. Un sistema di potere molto ramificato e radicato principalmente nel settore della sanità regionale, delle imprese industriali, delle banche e dovunque si allungassero i suoi tentacoli voraci.

In futuro si dovrà contrastare il “demitismo senza De Mita”, cioè il sistema di potere imposto ed esercitato dagli epigoni del “podestà” di Nusco. Perciò, temo che si rischi di rimpiangere (!) il “demitismo” con De Mita.

Le origini cristiane dell’Europa tra retorica e mistificazioni

4 Aprile 2022 dc, dal sito Italialaica, articolo del 15 Marzo 2022 dc:

Le origini cristiane dell’Europa tra retorica e mistificazioni

di Marco Comandè

Avevamo scampato l’elezione dell’integralista Marcello Pera a Presidente della Repubblica, ma ci ritroviamo con un despota che ha attuato tutti i punti programmatici della sua battaglia contro il relativismo religioso, per poi scatenare una guerra contro l’Ucraina: le origini cristiane nella costituzione russa nell’art. 71, la difesa della tradizione con l’inaugurazione della mostra “I Romanov e la Santa Sede: 1613-1917” nel mese di dicembre del 2017, l’imposizione della festività patriottica il 7 novembre (in ricordo della cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612).

C’è una certa macabra ironia nel citare il pensiero di Marcello Pera e Joseph Ratzinger, sul rischio della mancata trascrizione delle origini cristiane nella Costituzione europea: “il rischio che il timore delle scelte induca i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio affievolire la fede o abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto”.

E il politologo si riferiva alla possibilità di uno scontro con l’Islam, non con il cristianesimo ortodosso russo, il cui Patriarca ha di recente giustificato il conflitto in Ucraina con la crociata contro i gay!

Tanto medievale è l’ultima giustificazione, da ricordare una celebre frase del monaco Arnaud Amaury prima del massacro contro gli eretici gnostici a Béziers, dove il 22 luglio 1209 avrebbe detto: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi!”, per significare che era preferibile avere morti un cristiano giusto ed uno sbagliato piuttosto che salvarli entrambi. La frase è stata messa in dubbio dagli storici, ma il senso della frase è realmente condiviso dai fanatici cattolici ed ortodossi, come dimostra la battaglia contro i relativisti-materialisti-democratici-gay ucraini.

Tutti questi giri di parole non possono lasciare inevasa la questione di fondo sulle reali, autentiche origini del cristianesimo in Europa, se il nuovo zar Putin rinnega il dialogo con l’Occidente cristiano per affermare la supremazia dell’Oriente cristiano. Ben lungi dall’essere una rivendicazione del ruolo della religione nel mondo multipolare, l’ostinazione nell’attribuire alla Divina Provvidenza il ruolo preponderante nella storia universale ha un che di minaccioso, che non si arresta nemmeno di fronte alla minaccia atomica. Esistono tante soluzioni per un’Ucraina neutrale che non contemplano la guerra, ma tutte devono necessariamente passare attraverso le regole laiche della democrazia pluralista.

Vorremmo infine sollevare il velo sulla polemica innescata dagli integralisti cattolici, contro l’Europa relativista che censura il Natale e le persecuzioni cristianofobe nel mondo. I vari Marcello Pera, Marcello Veneziani, Antonio Socci, Magdi Allam ogni giorno elencano le stragi compiute nelle civiltà “altre” contro i cristiani, disinteressandosi poi degli equivalenti genocidi contro i musulmani, dall’India governata dal fanatico indù Narendra Modi alla Birmania del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ora, è innegabile che le vittime in Ucraina siano cristiane. Questo non significa affatto che esista una cristianofobia nel mondo, bensì che il fanatismo religioso rigetta ovunque i principi laici della tolleranza e della pace e giustifica le violenze con la presunta supremazia culturale tanto cara ai Marcello Pera e Vladimir Putin.

Marco Comandè
Reggio Calabria

Giorno del ricordo, Eric Gobetti: “È diventata la giornata di rivalutazione del fascismo”

5 Marzo 2022 dc, da Micromega, pubblicato il 10 Febbraio 2022 dc:

Giorno del ricordo, Eric Gobetti: “È diventata la giornata di rivalutazione del fascismo”

Per lo storico dovremmo ricordare anche i partigiani italiani che hanno combattuto in Jugoslavia, erano 30.000 e ne sono morti 10.000. Invece è stata fatta una scelta politica e ricordiamo solo i 5.000 morti delle foibe.

di Valerio Nicolosi

Come ogni 10 febbraio le polemiche attorno al “Giorno del ricordo” per le vittime delle foibe iniziano con qualche giorno d’anticipo e anche quest’anno sono arrivati attacchi, minacce e diffamazioni contro Eric Gobetti, storico e autore del libro “E allora le foibe?” edito da Laterza.

Gobetti, sono tornate le minacce e lo screditamento pubblico del suo lavoro, come lo vive?
Come ogni anno sono vittima insieme ad altri studiosi di minacce, dicono che siamo “negazionisti” perché questo termine è legato alla Shoah e quindi è chiaramente diffamatorio.

Da chi arrivano questi attacchi?
Arrivano sempre dalla stessa parte politica, quella fascista e i motivi sono chiarissimi: non hanno interesse a parlare di storia, perché se parlassimo di fatti storici nel loro complesso emergerebbero le responsabilità fasciste per l’invasione della Jugoslavia e per le violenze agite sulla popolazione locale, senza di queste non ci sarebbero state le foibe e l’esodo, del quale invece si parla poco.

Dell’esodo degli italiani se ne parla effettivamente poco, perché secondo lei?
Vogliono concentrarci solo sulle foibe perché possono essere strumentalizzate meglio: se togli il contesto politico e storico diventano un crimine compiuto dai comunisti contro gli italiani e questa associazione getta discredito anche sulla resistenza italiana.

Nel suo libro smonta la narrazione che si è fatta delle foibe, può darci qualche elemento?
Ce ne sono diversi, ogni capitolo smonta una parte del racconto che si è fatto in questi anni. Il primo fra tutti è sicuramente la complessità dei quei territori che vengono raccontati come italiani mentre sono meticci e la coabitazione tra italiani e slavi prima dell’invasione era pacifica.

Quindi una “reconquista” che nei fatti è un’invasione. Poi ci sono i numeri che non tornano…
Sicuramente. Hanno gonfiato il numero delle vittime con l’intento di renderlo un genocidio e associarlo alla Shoah. Però la matematica non è un’opinione e le foibe non sono una pulizia etnica o genocidio, questo non le giustifica ma cambia il punto di vista storico. La Shoah ha ucciso 6 milioni di ebrei, le foibe sono un episodio di violenza politica che riguarda qualche migliaio di persone in un contesto come quello della seconda guerra mondiale, durante la quale ci sono stati numerosi fatti simili a questo.

In cosa ha sbagliato la politica in questi anni nella celebrazione di questa commemorazione?
Dovrebbe evitare toni nazionalisti e razzisti nei confronti di Slovenia e Croazia, evitando fratture con Paesi confinanti e membri dell’Unione Europea. Su questo punto Mattarella ha fatto qualche passo in avanti negli ultimi anni, però va fatto molto di più. E poi avrebbero dovuto evitare che diventasse la giornata di rivalutazione del fascismo, attribuendogli le proprie responsabilità nell’iniziare queste violenze. Non vanno nascoste queste pagine di storia ma dobbiamo dare un contesto storico per capirle meglio.

Però intanto la Rai ha co-prodotto “Red Land”, un film che capovolge la storia.
Per evitare quella retorica nazionalista e fascista dovrebbero cancellare questo film dalla programmazione Rai, in questo modo (Nota mia: quello del film) si esaltano le camicie nere e si scredita chi è stato dalla parte giusta della storia: gli antifascisti. In quel contesto i nazisti, che nel film salvano le camicie nere, hanno compiuto una strage di 2500 persone, 5 volte i morti delle foibe del 1943. Per questo è importante il contesto storico.

Quindi un “Giorno del ricordo” di parte?
Si. In pratica è diventata la giornata privata dei fascisti, nessuno ne può parlare al di fuori di loro e il resto della popolazione deve subire questa propaganda. Dovremmo parlare degli aspetti positivi del confine, perché prima dell’invasione c’era convivenza e commistione. Dovremmo ricordare anche i partigiani jugoslavi che dopo l’8 settembre furono liberati e formarono delle bande partigiane e parteciparono alla liberazione dell’Italia dal fascismo. Infine, cosa ancora più importante, dovremmo ricordare i 30.000 italiani che hanno combattuto come partigiani in Jugoslavia, ne sono morti 10.000, il doppio delle foibe. perché non li ricordiamo? Abbiamo scelto di ricordare solo le 5.000 vittime delle foibe.