Un guitto, bigotto e caldofilo

5 Marzo 2023 dc:

Un guitto, bigotto e caldofilo

di Jàdawin di Atheia

In un noto quiz televisivo, da molti anni più o meno un’ora prima del Tg1, il solito conduttore romano, che nasce come comico, per il secondo anno consecutivo dà mostra di essere caldofilo oltre ogni decenza.

Il nostro è un caciarone, urla a dismisura, vuole essere piacione, ed a furia di essere esagerato diventa un guitto, come l’altro suo pari, di toscana appartenenza. È anche fervente cattolico, come tutti i suoi colleghi televisivi, del resto, e le domande del quiz sono sempre improntate alla massima osservanza. Non compare la benché minima “variante” laica, per non dire atea.

Come se non bastasse, il buffone è anche caldofilo: non vede l’ora che venga l’estate, e non siamo nemmeno in primavera: l’anno scorso ha detto, più o meno nello stesso periodo, “non vediamo l’ora che arrivi l’estate”, e quest’anno “ormai siamo in primavera, e speriamo che venga l’estate”.

Ora, brutto stronzo, il fatto che tu lo dica così sfacciatamente in televisione mentre il Paese, per il secondo anno consecutivo, affronta temperature innaturalmente alte e siccità già avanzata adesso, con un inverno inesistente, già non sarebbe tollerabile, ma almeno usa la prima persona, imbecille, e non dare per scontato che tutti, proprio tutti, la pensino come te!

Non parliamo poi del servilismo verso i laureati. D’accordo, hanno tutta la mia ammirazione e invidia tutti coloro che hanno ed hanno avuto la forza di volontà e la perseveranza di studiare all’università e, magari, un poco realizzarsi anche nel lavoro: sono il primo a congratularmi con loro perché ho sempre saputo di non essere all’altezza di compiere questi studi così impegnativi, che pur avrei ogni tanto voluto intraprendere (e non certo per la carriera!). Ma il suo prostrarsi di fronte a loro, tesserne lodi sperticate e smisurate è veramente esagerato, poco dignitoso e poco rispettoso per la stragrande maggioranza che laureati non sono e che, spesso, hanno più cultura generale di questi “mostri” di culture specialistiche. E che sono, tra i concorrenti, stretta minoranza.

Riccardo Noury: Non lasciamo sole le donne iraniane che si ribellano al regime

14 Novembre 2022 dc, dal sito Left, 27 Settembre 2022 dc:

Riccardo Noury: Non lasciamo sole le donne iraniane che si ribellano al regime

di Arianna Egle Ventre

«Nel Paese si contano diverse decine di morti durante le mobilitazioni, centinaia di feriti, oltre 700 arresti» spiega a Left il portavoce di Amnesty International Italia. «Le autorità iraniane – aggiunge – parlano di proteste eterodirette dagli Usa, ignorando che da oltre quattro decenni la popolazione è stanca di privazioni della libertà e norme patriarcali»

Zan zindaghi azadi: le tre parole rosso fuoco sono dello stesso colore dello smalto della mano che sostiene il cartello in cui sono scritte. È uno dei principali slogan delle proteste che in questi giorni stanno attraversando l’Iran e le piazze solidali di tutto il mondo. Donna, vita, libertà. Tornano alla memoria le immagini delle rivoluzionarie curde che da anni cantano il corrispettivo in curdo, jin jiyan azadi nella loro lotta per la libertà. Il 13 settembre Mahsa Jina Amini è stata vittima degli abusi della polizia morale iraniana per non portare “correttamente” l’hijab, obbligatorio nei luoghi pubblici in Iran. È stata arrestata e picchiata. Fino alla morte, il 16 settembre. Le sue origini curde vengono onorate con questo coro, che al tempo stesso reclama l’urgenza di ribellione del popolo iraniano contro le repressioni quotidiane delle autorità in Iran.

«L’atroce assassinio di Mahsa Jina Amini per mano degli agenti della polizia morale è l’emblema di 44 anni di aggressione sistematica e di tirannia, che ha garantito la sopravvivenza del sistema attuale imponendo un clima di terrore nella società» si legge nel volantino che viene distribuito davanti all’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma, il 23 settembre, in occasione di una mobilitazione in solidarietà alle proteste in Iran che si è tenuta in contemporanea in varie piazze d’Italia e del mondo. È una lettera aperta delle studentesse e studenti del Politecnico di Teheran. Mentre qualche ragazza distribuisce questo e altri volantini, una mano si alza poco lontano dal cartello con la scritta “donna, vita e libertà”. L’indice e il medio formano una “V” di vittoria. Le voci dei manifestanti, membri della diaspora iraniana e non solo, sovrastano il rumore delle macchine del viale vicino. Tra i tanti, uno degli slogan attacca Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran (la massima carica amministrativa e religiosa).

Le informazioni giungono a tratti dal Paese, dove l’accesso a internet è limitato dal regime. Le poche notizie che arrivano dimostrano la natura repressiva del governo iraniano. Si cominciano a contare i morti, che giorno dopo giorno aumentano. Gli arresti e le violazioni dei diritti umani sono pratica sistematica di risposta alle proteste. Abbiamo parlato della situazione con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, cercando di capire cosa stia avvenendo in Iran e quali sviluppi ci si possa aspettare.

Il 16 settembre è arrivata la notizia della morte di Mahsa Amini e subito sono iniziate le proteste che si sono velocemente diffuse in tutto il Paese. Che natura hanno queste proteste?
In Iran ciclicamente ci sono proteste di massa, nel 2009, 2017, 2019 e adesso 2022, scatenate da diversi fattori. L’obbligo di indossare il velo negli spazi pubblici è una norma che esiste da 44 anni, quando è stata istituita la Repubblica islamica. Già nel 2019 si era diffusa una campagna virale che consisteva nel condividere sulle piattaforme social dei video di donne che si toglievano il velo in luoghi importanti delle città. Questa campagna ha prodotto decine e decine di arresti di attiviste accusate e condannate per reato di prostituzione o induzione alla prostituzione. Quest’anno la scintilla non è stata neanche la storia di un’attivista, ma una vicenda vergognosa di un capello fuori posto, che avrebbe spinto la polizia morale a intervenire con la detenzione della 22enne Mahsa Amini, torturandola e uccidendola. Parliamo di una vittima che non è un’attivista, che potrebbe essere chiunque, una vittima casuale: le persone scese in piazza si identificano con lei. Inoltre bisogna ricordare che già il 12 luglio di quest’anno erano state introdotte norme restrittive sul velo e che hanno dato alla polizia morale un motivo per intensificare l’osservazione e il pedinamento in strada, punendo anche con frustate, con richiami e con arresti e pestaggi. Sono proteste contro il regime, contro la sua interpretazione radicale dell’islam, contro la discriminazione di genere strutturale nelle poliche della Repubblica islamica. Le persone in piazza non pongono un problema di religione, ma criticano un’interpretazione retrograda di essa.

Quali sviluppi possiamo aspettarci?
In passato in Iran, quando i movimenti di piazza sono stati lasciati soli o strumentalizzati per qualche ragione politica diversa da quella dei diritti umani, ha vinto la repressione. Ad oggi (27 settembre, ndr) il numero dei morti è di diverse decine, probabilmente oltre 70. Si contano centinaia e centinaia di feriti, molti dei quali non vanno in ospedale perché temono di essere arrestati. Ci sono stati oltre 700 arresti, tra cui anche giornalisti. La guardia rivoluzionaria, i basiji (una forza paramilitare), e gli agenti in borghese si aggirano in motocicletta con una persona alla guida e un’altra con il fucile pronta a sparare. Una novità è l’uso di determinate munizioni come i pallini di metallo che sono vietati a livello internazionale. Se non uccidono, producono ferite terribili. C’è un’ammissione parziale da parte delle autorità iraniane sul numero di vittime, però il loro dato è minore di quello reale. Inoltre si attribuisce la responsabilità della mobilitazione a cosiddetti nemici della Repubblica islamica, dando la solita narrazione ufficiale per cui sarebbero proteste dirette dall’esterno e in particolare dagli Stati Uniti, ignorando che sono più di quattro decenni che la popolazione è stanca di privazioni della libertà e di norme patriarcali, misogine e discriminatorie oltre che di una situazione economica sempre più difficile. Quindi la preoccupazione è che le autorità proseguano in quest’azione repressiva e noi, comunità internazionale, rischiamo di saperne sempre meno perché parte delle piattaforme social e internet sono già da ora bloccate.

Quali sono i fattori che influiranno negli sviluppi delle proteste?
Ci sono più questioni da cui dipende l’evoluzione delle prossime settimane. Intanto, la dimensione e la portata delle proteste, che per ora proseguono e sono sempre più numerose come partecipazione. Ci sono tanti giovani, essendo l’Iran un Paese giovane, ma le età sono comunque varie. Vale la pena sottolineare che tanti uomini scendono in piazza accanto alle loro mogli, figlie e sorelle. Un altro fattore è l’appoggio dato ai manifestanti da personalità molto popolari. Il calcio è popolarissimo in Iran e calciatori molto noti nel Paese hanno preso posizione a favore della mobilitazione. Bisogna poi capire se quelle voci all’interno del sistema sul frangente riformista (quello legato all’ex presidente Khatami), che chiedono l’abolizione della polizia morale e l’abrogazione delle leggi sul velo, abbiano la forza per portare avanti questa richiesta politica e se questa verrà accolta o meno.

Quali azioni sta intraprendendo Amnesty e con quale metodologia state registrando le violazioni dei diritti umani?
Abbiamo messo a disposizione un numero che può essere raggiunto attraverso messaggi sulle varie piattaforme social in cui chiediamo di ricevere video, testimonianze e altro ancora, chiaramente garantendo la sicurezza di chi ci contatta. Abbiamo inoltre promosso un appello mondiale che si rivolge al presidente Raisi chiedendogli di cessare la repressione. A ciò si accompagna la richiesta agli Stati membri del Consiglio Onu dei Diritti umani (la cui sessione è in corso a Ginevra) di istituire un meccanismo indipendente di indagine internazionale. Infatti non crediamo alla dichiarazione del presidente Raisi secondo la quale ci sarà un’indagine. Non ci crediamo e non sarà così. C’è grande attenzione e tanta solidarietà sia online sia in piazza, in Italia come altrove. Le persone in Iran non devono essere lasciate sole. L’attenzione internazionale deve rimanere alta.

Come dovrebbe comportarsi la comunità internazionale?
Gli Stati devono pretendere dall’Iran che rispetti il diritto di protesta pacifica, che sospenda immediatamente questa repressione e indaghi sulle morti che ci sono state. Questa richiesta è doverosa, però resta la necessità di un’indagine internazionale.

Il fatto che Mahsa fosse curda influisce in qualche modo nelle proteste e nella reazione delle autorità ad esse?
Direi che una relazione c’è: storicamente il governo centrale ha avuto un approccio molto duro o punitivo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e questo è confermato dal fatto che il numero maggiore di vittime di questi giorni si conti nelle province a maggioranza curda. Per la popolazione il fatto che Mahsa fosse curda non cambia, la percepiscono come una di loro.

Questa vicenda potrebbe alimentare ulteriori discriminazioni verso le minoranze?
Può essere, anche perché è già stato così in altre situazioni. Penso all’uso della pena di morte che quest’anno sta registrando un record. Si sono verificate già 415 impiccagioni e non è neanche finito il nono mese dell’anno. Se si divide per gruppo etnico di appartenenza il numero delle persone messe a morte, si nota che per esempio i balouchi, che sono il 5% della popolazione, hanno una percentuale altissima tra i condannati. Lo stesso può riguardare il rischio di discriminazione contro i curdi o contro la minoranza araba. La rivolta in sé non mi sembra che abbia una prospettiva etnica particolare, essendo contro l’obbligo del velo.

Pensa che le proteste avranno un impatto nella regione e negli Stati delle zone limitrofe?
Può essere. Ogni movimento di protesta a partire dal Libano nella prima metà del primo decennio di questo secolo ha avuto un effetto galvanizzante nella regione. Ed è quello che i regimi di quella zona temono ora. Sicuramente queste proteste non li lasciano indifferenti perché quando si scende in piazza in uno Stato prendono coraggio anche i movimenti per i diritti umani negli Stati confinanti.

Benvenuta Shangai

20 Agosto 2022 dc, dal sito Noi non abbiamo patria 12 Aprile 2022 dc:

Benvenuta Shangai

Shanghai e la Guerra in Ucraina

Le scene da Shanghai di ventenni e trentenni che spontaneamente in molti quartieri violano il lockdown e rivendicano il cibo, rifornimenti alimentari e in taluni casi se lo vanno a prendere in massa, tutti rigorosamente con la mascherina al volto, qualche cosa ci trasmette per il futuro:

Benvenuta Shanghai nella lotta di classe all’epoca del coronavirus!

Nel frattempo ci induce ad un paio di riflessioni.

Uno, la propaganda e l’ideologia “orientalista” in salsa razzista si rafforzerà, anche a partire del conflitto in Ucraina, contro “gli orchi Russi”, contro i “dragoni Cinesi” da contenere con le armi del civile occidente.

Due, che non abbiamo mai capito nulla degli atteggiamenti delle forze impersonali del capitale nei confronti della pandemia.

Laddove la composizione organica del capitale è alta e a sfavore del capitale variabile, il fermo delle produzioni ha un impatto maggiore dei milioni di ore perse per malattia. È ovvio che la perdita delle ore di lavoro alla fine incide sulla produttività. Risultato, lockdown equilibrato, campagna vaccinale (quarta dose?) e green pass.

Laddove come in Cina il rapporto ancora non è così elevato, e l’accumulazione si trova nella sua curva più alta basata sulla estorsione del plusvalore assoluto attraverso l’utilizzo estensivo del capitale variabile, ossia l’uso estensivo di un numero eccezionalmente vasto di forza lavoro operaia, il lockdown rigido ristretto nel tempo per la Cina è l’equilibrio migliore per affrontare la crisi, ma fame per i proletari come in Occidente.

È la composizione organica e tecnica del capitale che determina le strategie anti covid dei diversi governi e nazioni presi in una competizione mondiale di mercato sempre più agguerrita, dove la subordinazione dei Paesi ricchi di materie prime e di quelli produttori delle stesse fonti primarie minerarie e agricole è fattore vitale per gli USA e la decadente Europa che non hanno più l’esclusivo appannaggio della rapina imperialista delle risorse naturali della terra.

Benvenuta sia la Cina nella contesa generale da ambo i lati: dal lato delle forze del capitale, perchè il loro emergere è possibile solo in virtù dello scricchiolio e della crisi generale di un sistema di sfruttamento mondiale che si trova prigioniero delle sue stesse contraddizioni, ma soprattutto dal lato dell’immenso mare proletario composto da cinesi e milioni di immigrati di tutta l’Asia, di cui le scene di Shanghai potrebbero segnare una svolta verso un preludio di un futuro anche nel breve periodo di lotte improvvise, spontanee e generalizzate.

Se questi sono i prodromi del tempo che sta per precipitare velocemente, la durata della attesa sul bordo del fiume giallo nel veder scorrere il cadavere del concorrente capitalista occidentale si accorcia per le forze del capitalismo cinese. Necessariamente tanto più se le scene di Shanghai si ripeteranno altrove nel dormiente Paese e subcontinente cinese determinando il presupposto che i margini di compensazione della crisi del capitalismo anche lì si stanno esaurendo.

Benvenute siano queste scene nonostante non conosciamo chi si batte contro i lockdown, quali convinzioni abbiano, quali le determinazioni del rapporto del capitale spinge a rompere il coprifuoco anti pandemico: se per “ripristinare” il libero mercato interrotto cui ceti medi produttivi e lavoratori si sono determinati, o per sperimentare una lotta proletaria che necessariamente deve confrontarsi con la schiavitù del mercato e dello scambio di valore tra le merci prodotte, che non consente più come prima la riproduzione delle condizioni della vita proletaria e in generale.

Come le persone sfruttate lì si dislocheranno a breve, se per difendere la “casa comune” cinese contro cui l’occidente già ora rivolge le sue attenzioni armate, oppure la lasceranno bruciare, non è dato sapere.

Tantomeno non è dato sapere come si dislocherà il proletariato europeo, occidentale e statunitense (anch’esso multirazziale e meticcio che insieme a quello black, bipoc e immigrato si è manifestato nella George Floyd Rebellion), se intenderà difendere la casa comune “culla della civiltà” democratica liberale occidentale minacciata dagli orchi dell’Oriente, oppure anche esso la lascerà scricchiolare e poi franare perchè anche in questa sacra culla la condizione della vita è sempre meno resiliente alla legge del modo di produzione del valore capitalistico.

Dal coprifuoco anti pandemico a quello della legge marziale di guerra, la cui sostanza medesima è la difesa della determinazione della “casa comune” capitalistica sul mercato mondiale come dominatori a difesa della propria contrastata supremazia, o come ascari asserviti ad esso, oppure come resistenti reazionari all’interno di una legge del valore capitalistico da non oltrepassare.

Gli sfruttati dell’India, Bangladesh, Pakistan, Sud Africa e soprattutto di quelle nazioni Africane che sono altrettanto ricche di materie prime, in questa guerra in Ucraina e nella escalation che si prepara non vorrebbero entrarci. Come non lo vorrebbero i contadini nativi e poveri dell’America Latina ed il proletariato meticcio, attualmente tutti mal rappresentati dai loro governi agli ordini della legge del mercato, che all’ONU non si uniscono alla condanna della Russia, oppure lo fanno davvero malvolentieri.

Il minimo che possiamo fare, ma che è il massimo, è chiarire che non vi è pace per gli sfruttati proletari, i razzializzati e gli oppressi in generale nel riconoscere una strumentale causa e principio di “autodeterminazione delle nazionalità”, che non può che essere altro dall’uso strumentale dall’Occidente in cui viviamo per la Ucraina (e del Donbass incluso) sottomessa al dominio ed allo sfruttamento del mercato in agguerrita competizione, tantomeno quella per la sovranità di Taiwan, che insieme rappresentano la misura della difesa e della offensiva della “casa comune” del capitale occidentale che bisognerebbe qui contrastare.

Benvenuta Shanghai, che i venti della crisi possano spingere verso una determinazione di un nuovo mostro proletario meticcio e multirazziale contro le sirene dell’Orientalismo occidentale e di un impossibile mercato multipolare tutte a difesa della barbarie capitalista!

Referendum (San) Siro: pronti a ripartire

In e-mail il 27 Giugno 2022 dc:

Referendum (San) Siro: pronti a ripartire

Buongiorno a tutte e tutti,

Nell’attesa di parlare della risposta da parte del Comune di Milano sull’ammissibilità o meno dei nostri referendum, attesa a breve, pensiamo sia importante concentrarsi su tutte le azioni in corso in difesa dei diritti dei cittadini.

Al momento i riflettori si sono concentrati sull’organizzazione del Dibattito Pubblico che l’Amministrazione sta cercando palesemente di condizionare e indirizzare a suo piacimento.

Dibattito Pubblico che noi, come Comitato Referendario, riteniamo utile sia per la possibilità di un risultato positivo e soprattutto come momento di conoscenza e consapevolezza da parte della cittadinanza in vista del successivo Referendum.

È necessario quindi vigilare perché il Dibattito Pubblico si svolga con la reale e fattiva partecipazione della cittadinanza

Una possibilità che l’attuale indirizzo dell’amministrazione sta vanificando.

Per questo, sotto la supervisione legale dell’avvocata Veronica Dini, è stato redatto un documento di denuncia di tutte le irregolarità e imprecisioni con cui si sta definendo il percorso del Dibattito.

Ve lo alleghiamo e vi invitiamo quindi a sottoscriverlo individualmente cliccando sul link sotto

per sottoscrivere

nota bene: il link per firmare è personalizzato per ogni destinatario, condividendo questa email, altri destinatari non potrebbero aggiungere la propria firma.

Raccolte le adesioni è nostra intenzione, entro fine settimana, pubblicizzarlo con una conferenza stampa/assemblea pubblica o con gli strumenti che condivideremo essere i più efficaci per mantenere alta l’attenzione sull’area di (San) Siro.

Pensiamo sia importante continuare a denunciare, ed evidenziare, come l’amministrazione continui a boicottare la partecipazione cittadina nelle scelte che condizionano la vita e la vivibilità, e come questa azione di denuncia possa essere utile a convincere la cittadinanza che il referendum sarà l’unico strumento efficace ad evitare la speculazione a cui ci stiamo opponendo.

In attesa delle vostre considerazioni in merito vi preannunciamo che a breve organizzeremo un incontro con la cittadinanza in cui riprendere tutti i nostri temi e definire i successivi passi ed azioni.

I portavoce del Comitato per Il Referendum per (San) Siro

La guerra in Ucraina e i “nazisti bravi” del battaglione Azov

24 Maggio 2022 dc, da Micromega, articolo del 20 Aprile 2022 dc:

La guerra in Ucraina e i “nazisti bravi” del battaglione Azov

L’ampio consenso che i paramilitari di estrema destra stanno raccogliendo è l’ennesimo errore di lettura che porterà allo sdoganamento di forze reazionarie. In Italia ne sappiamo qualcosa. Per questo è utile ricordare chi sono veramente i “ragazzi” di Azov.

di Valerio Nicolosi

“Questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà” recita Bella ciao, canzone della resistenza italiana conosciuta in tutto il mondo e tradotta in oltre 40 lingue, anche in ucraino. A inizio marzo la cantante Khrystyna Soloviy ha riadattato il testo contro l’invasore russo e l’ha fatta diventare una delle canzoni della resistenza ucraina. Il testo recita: “Uccideremo i boia maledetti senza pietà (…) nella Difesa territoriale ci sono dei ragazzi migliori, nelle nostre forze armate combattono veri eroi”.

Scorrendo la bacheca Facebook di Khrystyna Soloviy, esattamente sotto al post in cui lancia la rivisitazione di Bella ciao, c’è una foto dei suoi anfibi in cui spicca la scritta “Батько нaш Банде́ра” che tradotto significa “Nostro padre Bandera”. Il riferimento è a Stepan Bandera, il capo dei nazionalisti ucraini durante la Seconda guerra mondiale che giurò fedeltà a Hitler e che oggi continua a essere ricordato in Ucraina nei settori di estrema destra e nazionalisti, che nel 2012 con la formazione Svoboda hanno raggiunto il 10% dell’elettorato e che hanno cavalcato il movimento di Piazza Maidan del 2014, entrando a far parte del governo provvisorio. Una parabola poi discendente: Poroschenko li caccia rapidamente dal governo e alle elezioni del 2019 ottengono poco più del 2% dei voti.

Dell’estrema destra ucraina fanno parte anche Pravy Sector e il Corpo Nazionale, gruppo politico legato al Battaglione Azov: entrambi si rifanno al nazismo e, dopo aver partecipato alle manifestazioni del 2014, hanno perso parte del consenso elettorale ma si sono rafforzati su quello militare, combattendo in Donbass contro i separatisti filorussi acquistando prestigio militare, tanto che nel gennaio 2015 il Battaglione Azov viene integrato alla Guardia Nazionale Ucraina.

Con l’inizio della guerra abbiamo assistito a quello che potremmo chiamare un’operazione di pulizia dell’immagine di questi gruppi, in particolare del Battaglione Azov, con interviste da parte dei media in cui dichiarano di non essere nazisti, di leggere Kant e di combattere per la libertà. Versione che confligge con il loro simbolo, la runa Wolfsangel, utilizzata da un battaglione delle SS e ripresa in Italia dall’organizzazione eversiva neofascista Terza Posizione, operativa dal 1978 al 1982 e sciolta dopo una serie di arresti e processi.

Fino a poco tempo fa invece il Battaglione Azov era collegato alle inchieste giornalistiche e giudiziarie sul suprematismo bianco e all’antisemitismo: nell’autunno 2019 in Campania sono stati arrestati alcuni membri di un’associazione spirituale che secondo gli inquirenti funzionava da base per il reclutamento e l’addestramento paramilitare di singoli militanti, spesso fuoriusciti dalle organizzazioni neofasciste italiane. Secondo le indagini c’è un filo che collega questa attività al Battaglione Azov e alle altre organizzazioni neonaziste e suprematiste internazionali. Sempre nel 2019 negli Stati Uniti c’è stata la richiesta da parte di alcuni deputati del Congresso di Washington di inserire i Azov nella lista delle organizzazioni terroristiche, anche per i rapporti con i suprematisti d’oltreoceano che spesso si sono arruolati nelle sue fila.

Ma non c’è solo Azov nell’estrema destra ucraina paramilitare, ci sono anche Aidar, Donbass, Dnepr 1 e Dnepr 2, tutti battaglioni sostenuti economicamente dallo stesso oligarca, Ihor Kolomoyskyi, tra le prime tre persone più ricche d’Ucraina, dal 2021 ospite non gradito negli Usa, con un mandato di cattura sulla sua testa da parte dei tribunali russi. Personaggio molto controverso, è stato ex-governatore dell’oblast di Dnipropetrovsk, presidente della maggiore banca ucraina “Privat Bank”, proprietario della squadra di calcio FC Dnipro Dnipropetrovsk nonché dell’emittente televisiva 1+1, quella che ha trasmesso la serie tv “Servant of the People” in cui Vlodomyr Zelensky interpretava proprio la parte del presidente dell’Ucraina.

Secondo il giornale “Politico” Kolomoyskyi avrebbe finanziato il battaglione Dnepr con 10 milioni di euro, costituendo di fatto un suo esercito privato che ha respinto le truppe separatiste, mantenendo la regione in pace. “Mentre il Donbass brucia, la nostra città è tranquilla come un cimitero. E questo è grazie al nostro governatore Kolomoisky” è una frase attribuita a un ristoratore di Dnipro sempre da Politico.

Durante la campagna elettorale gli altri candidati accusavano Zelensky di essere il burattino di Kolomoisky e che di fatto sarebbe stato lui il vero presidente in caso di vittoria del comico.

Aldar, uno dei battaglioni che il magnate ucraino avrebbe sostenuto dal 2014, si è reso protagonista di una serie di violazioni dei diritti umani denunciati da un rapporto di Amnesty International. “Sono stati coinvolti in abusi diffusi, inclusi rapimenti, detenzioni illegali, maltrattamenti, furti, estorsioni e possibili esecuzioni” accusa l’organizzazione umanitaria mentre una donna di Donetsk ha raccontato a Newsweek di aver ricevuto la testa di suo figlio, combattente filo-russo, in una scatola di legno.

Complessivamente dopo il 2014 in Ucraina sono nati circa 30 battaglioni indipendenti che sono andati a colmare le falle che l’esercito nazionale aveva lasciato nell’Est e nel Sud del Paese, tanto da essere comunque coordinati dal Ministero della Difesa di Kiev e, con tempi e modalità differenti, inseriti nella Guardia Nazionale ucraina, a eccezione del battaglione Alder che, dopo una serie di provocazioni e interferenze con la politica di Kiev, è stato sciolto nel 2015 e di fatto trasformato nel 24° battaglione d’assalto. “In connessione con la necessità di una regolamentazione legislativa dell’esistenza di battaglioni di volontari, nonché di prevenzione di azioni illegali da parte di alcuni rappresentanti di formazioni di volontari, lo Stato maggiore delle forze armate dell’Ucraina ha deciso di formare unità militari delle forze armate sulla base dei battaglioni di volontari”, ha dichiarato Vladislav Seleznev, all’epoca capo del servizio stampa dello stato maggiore ucraino.

Stessa sorte è toccata al Battaglione Azov dopo aver riconquistato la città di Mariupol, strategica per l’affaccio sul Mar d’Azov e oggi tornata centrale in questa guerra, tanto che proprio i militari dell’Azov stanno resistendo all’interno del plesso industriale della città, cosa per la quale sono stati paragonati da Giuliano Ferrara agli spartani alle Termopili, con un editoriale intitolato “Ora che sta per soccombere, il battaglione Azov merita solo rispetto” e nel quale dice: “Qualche curvaiolo della Dinamo Kyiv, tatuato con la svastika, fa parte di un battaglione nazionalista chiamato battaglione Azov. E dunque?”.

L’editoriale di Ferrara non è un caso isolato, anzi. Come sottolineato in apertura i media europei, soprattutto italiani, stanno facendo un’operazione di pulizia dei “ragazzi”, come spesso vengono definiti, del battaglione Azov, sminuendo la rilevanza che potrebbero avere a livello politico dopo questa guerra. Non è un caso, infatti, se Zelensky in conferenza con il parlamento greco li ha fatti presenziare insieme a lui. La comparsata degli “eroi di Mariupol” ha creato molte polemiche ad Atene, dove appena un anno e mezzo fa è stata messa al bando l’organizzazione neofascista Alba Dorata che con il Battaglione Azov ha condiviso l’esperienza del Forum “Iron March”, chiuso nel 2017, e che è stato un punto di aggregazione dei neofascisti e neonazisti a livello internazionale.

Al momento Azov ha due battaglioni nell’Oblast di Kiev, è presente a Zaporižžja e ha circa 1.500 uomini a Mariupol, dove si trova anche “l’eroe d’Ucraina” Denis Prokopenko, il comandante del Battaglione che è stato insignito da Zelenski della più alta carica del Paese. Dalla loro postazione  hanno affermato attraverso un video che i russi stanno usando armi chimiche, notizia ripresa dai giornali italiani come fonte attendibile mentre il governo di Kiev non si sbilanciava e i servizi d’intelligence occidentali davano la notizia come non verificata.

La centralità di Azov e degli altri gruppi neonazisti è quindi cresciuta nel corso della guerra, l’attenzione mediatica che ricevono e l’attendibilità come fonte conferisce loro anche una credibilità politica, potenzialmente pericolosa per il futuro.