Che incenso che fa. Il Papa, Fazio e l’intervista mancata

8 Febbraio 2022 dc, su Micromega.net, articolo del 7 Febbraio 2022 dc:

Che incenso che fa. Il Papa, Fazio e l’intervista mancata

Da Fabio Fazio nessuna vera domanda a Bergoglio. La conversazione è stata solo l’occasione per esprimere pensieri vaghissimi su questioni generiche.

di Marco Marzano

Non sarebbe potuto avvenire ovunque. Una conversazione (non chiamiamola intervista per favore) quale quella avvenuta tra il pontefice Francesco e il conduttore televisivo Fabio Fazio non si sarebbe potuta svolgere in un altro grande Paese europeo. Non certo in Germania, dove i cattolici discutono seriamente di riforma della Chiesa, di abolizione del celibato obbligatorio, del ruolo delle donne. Non in Francia, dove il tema del giorno nella Chiesa è la lotta contro gli abusi sessuali commessi dai membri del clero. Nemmeno in una delle conferenze stampa che si tengono sugli aerei al ritorno dai viaggi apostolici si sarebbe potuto assistere a uno spettacolo come quello di ieri sera.

Solo in Italia è potuta succedere una cosa del genere. Perché il nostro è il Paese degli “uomini della Provvidenza”, degli “unti del Signore”, dei salvatori immacolati, dei “divi”, degli eroi senza macchia e senza paura, dei santi in terra. E proprio come un santo in terra è stato presentato ieri sera, per l’ennesima volta, papa Bergoglio. Concludendo la conversazione Fazio ha rivelato di avere persino l’impressione che il papa gli legga nei pensieri, che legga nei pensieri di tutti noi, ovvero che sia dotato di quella onniscienza che i cristiani attribuiscono solo a Dio. L’intervista era iniziata con una domanda sulla capacità del papa di “abbracciare tutti”, di “farsi carico del peso del mondo”. Anche in questo caso era sottinteso che solo chi possedesse capacità extraumane potesse fare il papa nel modo in cui lo fa Bergoglio. Nello schema di Fazio (che poi è lo schema dominante) al pari di tutte le divinità, e al pari di Cristo, Bergoglio può essere solo infinitamente amato o infinitamente odiato: i giusti lo amano, i malvagi lo perseguitano. Tertium non datur.

Papa Francesco non può essere, come tutti gli uomini influenti al vertice di una grande e potentissima organizzazione, essere giudicato razionalmente per le sue capacità di governo, per la linea che ha scelto di seguire su questo o quel tema, per come ha affrontato questa o quella grana interna. No. Il papa dev’essere valutato esclusivamente per la sua affinità col divino. Questo è il motivo che spiega il fatto che nella conversazione non gli siano mai state poste delle vere questioni, ma che gli si sia piuttosto data l’occasione per esprimere dei pensieri vaghissimi su questioni generiche. Perché quello che conta, nello schema di Fazio e nel mainstream italico, è appunto di stabilire chi sia davvero il papa: se un santo o un impostore.

In altre parole, nello schema di Fazio, non è giudicando con la ragione l’adeguatezza delle sue risposte (banali quanto le domande) che si giunge a un giudizio su di lui, ma “odorando”, sentendo con l’intelligenza del cuore se dal suo corpo proviene un profumo di incenso o un tanfo di zolfo. Il conduttore, che della santità (o forse della divinità) del pontefice è convinto da tempo, ce lo ha presentato ripetutamente come il papa di tutti, il “padre di tutti”, come un uomo che ci salva con il suo sacrificio personale e la sua preghiera (Fazio lo ha detto esplicitamente riferendosi alla pandemia), come una creatura che non può non essere amata se non da qualche pazzo scriteriato o da qualche impunito criminale.

Un uomo in odore di una santità tutta maschile e proprio per questo paterna. Quella di ieri sera è stata una conversazione tra uomini, tra maschi. Il conduttore ha usato l’appellativo “Santo Padre” decine e decine di volte, in modo ostentato e deferente. Il papa ha evocato la paternità di Dio, la divinità di Gesù, ha citato San Paolo e i pontefici suoi predecessori. Ha menzionato i dirigenti della Chiesa e i suoi collaboratori. La stabilità e l’equilibrio dell’umanità e del pianeta sono stati rappresentati come dipendenti dal riconoscimento a ogni livello dell’autorità del padre: il pater familias, il padre vestito di bianco già santo che sta a Roma, il padre celeste che ci guarda da lassù. Per l’altra metà del cielo, per le donne, il momento non è ancora venuto. Almeno non nel mondo di Fazio e papa Francesco.

Di seguito un’articolo correlato:

Sommersi dalla papolatria

Il devoto Fazio ci ha ammannito un’ora di religione non dissimile da quella propinata nelle scuole. Più cala il suo consenso, più la chiesa cattolica si annette ogni angolo in Rai.

di Raffaele Carcano

Nessuno può sapere se, come sostengono i suoi fedeli, Dio sia realmente ovunque. Il sospetto è che a essere ovunque sia invece Bergoglio. È diventato il recordman delle prime volte per un papa, dal negozio di occhiali a quello di dischi. E non poteva quindi mancare la prima volta in un talk show: del resto, se ti fai intervistare per la Gazzetta dello Sport, perché non concedersi anche a Fabio Fazio?

Fazio non è un giornalista, ma un intrattenitore. Noto da anni per le domande concilianti che rivolge abitualmente ai suoi ospiti, poteva forse far eccezione proprio per il «Santo Padre»? A scanso di equivoci «il dono» era stato concordato preventivamente, e la registrazione è avvenuta in anticipo e successivamente montata. Nessuna sorpresa, quindi, per l’assenza di interrogativi sulla pedofilia, o sulle ingerenze politiche del Vaticano che hanno portato all’affossamento del ddl Zan. Così come sarebbe stato indelicato chiedere lumi al «Santo Padre» della sua incoerenza quando parla di equità fiscale (ma è il maggior beneficiario di esenzioni) o di povertà (ma è il più grande proprietario immobiliare del pianeta). Il devoto Fazio ci ha ammannito un’ora di religione non dissimile da quella propinata in tutte le scuole della Repubblica.

Il papa era stato posto così tanto a suo agio che si è persino permesso di definire il clericalismo «una cosa brutta», «una perversione» – e lo ha fatto nel preciso istante in cui ne godeva appieno (esigendolo 24/7, evidentemente intende per ‘clericalismo’ qualcosa di molto diverso dal significato attribuitogli dai vocabolari). Dopo aver ascoltato qualche banale dichiarazione su temi d’attualità, condivisibile da qualunque persona decente, ora però sappiamo che il papa ballava il tango, e che da piccolo voleva persino fare il macellaio. «Sgub!», avrebbe urlato Aldo Biscardi: e tali dichiarazioni sono state effettivamente enfatizzate da numerosi mezzi d’informazione, anche se erano note da diverso tempo. La stampa estera non ha mostrato particolare interesse per l’intervista, e i pochi che se ne sono occupati hanno sottolineato quanto sia stata compiacente.

Il problema è che la Rai è di proprietà pubblica, e dovrebbe quindi svolgere un servizio pubblico – laico e pluralista. E invece, dati incontrovertibili alla mano, è letteralmente occupata dai cattolici, con modalità così spudorate che l’aggettivo più idoneo alla descrizione del fenomeno è «totalitario». Vige infatti il pensiero unico. Non esiste un TG in cui non appaia il pontefice, eppure si riesce comunque a dargli spazio anche in altri programmi. Le critiche sono letteralmente vietate: è più facile che nevichi alle Maldive, piuttosto che un giornalista Rai si avventuri in qualche osservazione ficcante sul Vaticano. Tutti ricordano bene l’immediata rimozione di Roberto Balducci, ‘reo’ di aver ironizzato nel 2009 sullo scarso seguito di Ratzinger.

Più cala il consenso per la Chiesa Cattolica (Nota mia: nei fatti, questo consenso non mi sembra proprio che stia calando), più la Chiesa Cattolica si annette ogni angolo in Rai. Non è un paradosso. Il papa è ovunque perché ovunque la fede cattolica sta, se non scomparendo, quantomeno ridimensionandosi. Come un qualsiasi monopolista i cui articoli trovano sempre meno acquirenti, è costretta a moltiplicare gli sforzi per cercare di continuare a smerciarla. In un mercato concorrenziale pagherebbe a peso d’oro tale gigantesco product placement (Nota mia: qui una spiegazione). In un’emittente gestita da politici clericali si fa invece a gara a regalarglielo.

È questo, una volta di più, l’autentico problema di fondo. In Francia, l’unico candidato alle presidenziali che evoca apertamente il cattolicesimo è l’ultra-estremista Eric Zemmour. In Germania, la maggioranza dei ministri che compongono il nuovo governo ha scelto di non giurare su Dio. In Spagna, è lo stesso esecutivo a chiedere un’inchiesta sugli abusi sessuali del clero. Basta paragonarla a quella dei più importanti partner europei per comprendere quanto la nostra classe politica sia abissalmente imbarazzante: accertato il suicidio della sinistra, l’arco parlamentare si divide ormai tra gli adoratori centristi di Bergoglio e quelli che, a destra, idolatrano il suo predecessore.

Qualcuno ha tirato sospiri di sollievo per le riconferme di Mattarella al Quirinale e di Draghi a Palazzo Chigi. Sarà. Insieme a Bergoglio, compongono la trinità di intoccabili che guida un Paese immobile, che ha ormai esaurito qualsiasi spinta propulsiva.

Nell’inferno del saccheggio africano

In e-mail il 27 Febbraio 2021 dc (questa volta non mi sono limitato a correggere alcuni errori, ma ho sostituito Santa Sede con Vaticano!):

Nell’inferno del saccheggio africano

di Marco Castaldo

L’uccisione nella Repubblica Democratica del Congo dell’ambasciatore italiano e del carabiniere che gli faceva da scorta offre l’occasione per riflettere su quello che è un vero e proprio inferno causato dalle potenze coloniali in quel continente in una fase di crisi, come quella attuale, del moto-modo di produzione capitalistico, aggravata per di più dalla pandemia del Covid-19.

Ovviamente si sprecano da una parte le parole di riprovazione e di orrore nei confronti dei responsabili del fatto di sangue, mentre dalla parte opposta si sprecano gli elogi per le qualità delle due vittime cadute nell’imboscata in quel paese. E il popolo “beve”.

Passano pochi giorni e tutto si dimentica, tutto riprende come prima. Eppure tutti quelli che devono sapere sanno, ma tutti fingono di non sapere. Tutti conoscono la verità, ovvero gli interessi da cui sono mosse determinate strutture statali e/o umanitarie, ma tutti mentono spudoratamente sapendo di mentire.

Eppure la verità è talmente evidente in certi ambienti che nel darne notizia – come nel caso del telegiornale delle 20 de La7, il suo direttore Mentana dice due cose in netto contrasto fra loro: «Diamo notizia del tremendo fatto di sangue avvenuto nel Congo, un paese poverissimo», per poi proseguire affermando, poche parole dopo: «una nazione ricchissima di materie prime di importanza strategica». Una realtà talmente forte che, come la tosse, non può essere contenuta e fuoriesce dalle labbra di un noto asservito al potere del capitale.

Due verità che vengono lasciate poi cadere nelle distratte cene degli italiani assopiti dai colori regioni attribuiti dal governo e dalle paure per la pandemia. Dalle parole di un altro noto giornalista e scrittore, come Domenico Quirico, vien fuori un quadro orrido nella sua descrizione delle varie tribù di disumani più simili alle bastie che al restante dell’umanità. Lui, “profondo” conoscitore dell’area subsahariana e dell’estremismo islamista, non perde occasione per sputare fango sui martoriati popoli africani schiavizzati da secoli dai popoli “civili” dell’Occidente sviluppato.

Eppure, nonostante le montagne di parole per imprigionarla, la verità emerge forte e potente quando sono costretti a dire: «Le guerre nel Kivu [regione del Congo che si affaccia sul lago Kivu] hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev: il coltan, l’oro, il tungsteno, il tantalio che resiste alla corrosione, o la cassiterite che serve per saldare e per leghe speciali».

A differenza degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in questi ultimi decenni è calato un silenzio tombale sulla rapina coloniale delle potenze occidentali in Africa e, quel che è peggio, è calato anche il silenzio nei confronti della Cina che in quel continente e in concorrenza con i Paesi occidentali sta facendo man bassa delle risorse minerarie di ogni tipo. E fa specie, lo diciamo senza veli, che a tale silenzio partecipano anche formazioni politiche che si autodefiniscono di sinistra e che guardano alla Cina come modello sociale centralizzato e possibile struttura sociale diversa dal capitalismo.

Non ci lasciamo impressionare neppure da incantatori di serpenti come certi padri missionari comboniani che si presentano con l’aspetto caritatevole, ma sono l’altra faccia della stessa medaglia del colonialismo capitalistico mondiale, che denuncia sì l’impotenza delle istituzioni internazionali come l’Onu o la stessa Fao, ma poi fungono da controllori della realtà.

Non ingannino perciò certe iperboliche espressioni come «Questo è il Congo di tutti i giorni! Un paradiso della natura, un inferno per gli uomini. Con una guerra civile da 20 anni, per prendersi le ricchezze minerarie. […] chi è il mandante di questo delitto? La gara per le commodities: il petrolio di Viruga e nei grandi laghi, il gas naturale a Kivu, il coltan per fare i telefonini, il cobalto in mano ai cinesi, il columbio, i diamanti, il rame, l’uranio, praticamente tutto … L’ordine è fregare al Congo tutte le materie prime. E far scappare la gente che ci abita sopra, pagando mercenari per ammazzare».

Una fredda e lucida analisi dove però manca l’agente fondamentale, ovvero il soggetto vero di tale devastazione. Il missionario che scrive per L’Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano, rimuove totalmente il ruolo centrale dell’Occidente, ovvero di un mercato capitalistico originato dal colonialismo e che si è via via esteso in tutto il mondo, al punto da ingolfarsi, producendo una crisi per la produzione di valore che mette a confronto il continente asiatico, con la Cina che fa da traino, e l’Occidente con il suo centro maggiore, gli Usa, in una crisi senza precedenti nella storia moderna.

Ora, il padre missionario comboniano dice che «l’ambasciatore Luca Attanasio è morto da santo, mentre andava ad aiutare».

Non è questo il punto in discussione – è bene ripeterlo all’infinito – non è la persona fisica, che abbia studiato alla Bocconi di Milano o meno. Per il materialista si tratta del ruolo che va ad assumere in determinati rapporti che obbediscono a determinate leggi. È questa la questione che non si vuole o non si riesce a capire neppure dai cosiddetti intellettuali di sinistra che brancolano nel buio della democrazia tradita senza riuscire ad afferrare il senso storico del moto di produzione capitalistico di questa fase.

Quando il padre comboniano parla della «gara per accaparrarsi le commodity» da parte di gruppi locali, omette di dire che si tratta di una guerra che viene scatenata dalle grandi compagnie occidentali o/e – come negli ultimi anni – dai grandi gruppi cinesi statali o privati. Si tratta di licenze per lo sfruttamento delle risorse minerarie che lasciano solo briciole ai gruppi locali che equivalgono a misere rendite, mentre la produzione di valore, che avviene attraverso la trasformazione delle materie prime in prodotti destinati al mercato, va solo a beneficiare le potenze straniere, e l’insieme delle nazioni africane ricche di ingenti risorse minerarie rimangono povere.

Si tratta di un meccanismo semplice che Tom Burgis descrive in modo didascalico nel suo libro La macchina del saccheggio (Francesco Brioschi Editore, 2020), quando scrive: «L’esportazione di petrolio, gas e minerali in forma grezza contribuisce a tenere gli Stati africani ricchi di risorse all’ultimo gradino dell’economia globale, eliminando ogni possibilità di industrializzazione».

Sicché certe domande sono oziose: «Non è chiaro che cosa cercassero i killer. Soldi? Un’azione terroristica? O magari un’arma di ricatto sugli investimenti energetici, anche italiani, nel nord di Kivu?». È un modo per sviare dalla questione di fondo, ovvero per imbrigliare il lettore in vie di fuga e non affrontare la questione delle questioni: la presenza degli italiani nel Congo come nel resto dell’Africa per curare gli interessi del “nostro” capitalismo nazionale, cioè delle nostre imprese e delle nostre banche. Sic et simpliciter.

Che ruolo può assolvere anche il più buono, il più bravo, il più coraggioso, il più generoso, il più onesto degli uomini in simili meccanismi se non quello della piccola rondella d’ingranaggio funzionale agli interessi di società che sovrastano in modo impersonale la persona e l’individuo? È questo il punto teorico e politico che racchiude il senso del capitalismo neocoloniale, in modo particolare in questa fase. Divide et impera è la legge che regola i rapporti tra i Paesi capitalisticamente più forti nei confronti del continente africano, dove vengono letteralmente comprati e armati gruppi etnici per contrapporli ad altri gruppi e alimentare una guerra continua per avere buon gioco nella rapina coloniale.

Sul fatto specifico accaduto nelle foreste di Goma in Congo non ci interessa avventurarci in ipotesi investigative, non è nostro mestiere. Registriamo il fatto come riflesso di una accelerazione della crisi generale del modo di produzione capitalistico in quella zona, sia all’interno delle potenze occidentali, sia fra queste e quelle asiatiche, la Cina in modo particolare, sia come milizie sparse di ribelli locali in concorrenza fra loro per accaparrarsi le “commodities”. Dunque ha ragione Burgis sul punto cruciale d’analisi che espone nel suo libro quando scrive: «Esteriormente sono rivali, eppure tutti sfruttano la ricchezza naturale la cui maledizione danneggia le vite di centinaia di milioni di africani».

Due parole chiare sull’Onu.

Da più parti (negli ambienti dell’establishment) ci si lamenta del fallimento dell’Onu, incapace cioè di mettere ordine in un’area immensa come il continente africano. Ci vuole una bella faccia tosta a sostenere una tesi tanto assurda quanto stupida, perché l’Onu può mettere ordine, e lo ha messo, quando col suo consenso sono partiti gli eserciti comandati da generali di potenze imperialiste, come nel 1991 in Iraq contro Saddam Hussein che aveva osato sfidare l’impero del male, come gesto di autodifesa delle proprie risorse petrolifere, occupando il Kuwait, oppure nei Balcani contro il ribelle “dittatore” Milosevic e per ridurre a miti consigli il popolo serbo.

Ora, illudersi che una istituzione, costituita dagli imperialisti per tenere sotto scacco l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, possa fare da tappo alle esplosive contraddizioni che tale accumulazione sprigiona, può rappresentare solo la foglia di fico sulle tragedie causate dalla rapina coloniale.

E le stesse organizzazioni cosiddette umanitarie, laiche o religiose che siano, si possono ammantare di pacifismo, ma al dunque, quando si tratta di precisare e definire i ruoli, non fanno sconti.

Si vuole un esempio?

Bene. L’organizzazione Nigrizia, di padre Zanotelli, in un documento del 2003 scriveva: «L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di tutti i diritti umani per tutti e per un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli Stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possono far sentire la loro voce. Quale istituzione può perseguire i molteplici e conplessi obiettivi dello “human development” e della “human security” se non l’Onu messa in condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione se non gli Stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?»

Ecco la vera ragione, espressa a chiare lettere, della costituzione di una istituzione sorta allo scopo di garantire l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, ad opera dei più potenti. Non a caso venne tenuta fuori da quel consesso la Cina di Mao, la nazione più popolosa al mondo, mentre vi veniva accolta Taiwan. Ecco spiegata la ragione per cui si bombardò l’Iraq, per lesa maestà, perché si era annesso il Kuwait e perché da oltre 70 anni si tollera che lo Stato di Israele criminalizzi il popolo palestinese, dopo averlo espropriato delle proprie terre.

Signori, siamo seri, ma veramente vorreste farci credere che il vero volto degli occidentali sia la faccia sorridente del povero Luca Attanasio circondato dai bambini neri e sorridenti con il lecca lecca in mano, oppure le suorine che insegnano l’italiano ai bambini nelle comunità missionarie? Quella è la maschera del rapinatore dietro cui si nasconde il brigante. Come si fa a mantenere le Missioni religiose? Come si finanziano? Chi le deve finanziare? Oppure: come si mantengono le cosiddette organizzazioni non governative, le Ong? Come si tiene una nave in mare con l’equipaggio, il carburante e la manutenzione, pronta per “soccorrere” in mare i poveri disperati, i naufraghi fatti arrivare nel mare nostrum per essere buttati sul mercato del lavoro in competizione con i lavoratori autocton, per abbassarne il costo e reggere la concorrenza delle merci prodotte?

Come si tiene in vita una Comunità, tipo S. Egidio, presente in più parti del mondo? Col solo volontariato? Ma allora veramente si dà da bere al popolo “sovrano” che la befana vien di notte a portare i doni calandosi dai comignoli delle case. Suvvia, d’accordo che bisogna costruire le notizie, ma c’è un limite a tutto.

Sicché il tutto, tradotto, ci dice che nel Congo, come nel resto dell’Africa, è in atto un saccheggio da parte delle potenze economiche maggiori e che questo produce delle reazioni uguali e contrarie da parte di gruppi sociali che si difendono come possono.

Sono questi i criminali? Si, ma in sedicesimo rispetto a chi, lontani migliaia di chilometri dalle loro terre, le ha invase prima ed ha continuato a rapinarle poi con i mezzi della finanza e della corruzione.

Sicché i veri responsabili dell’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, del povero carabiniere Iacovacci e di Mustafa Milambo stanno a Roma, a Milano, a Torino, a Parigi, a Berlino, ad Anversa, a Bruxelles, a Londra, a New York, a Pechino, a Shangai e così via, ed è fuorviante cercarli nelle foreste del Kivu.

Il governo neo-democristiano di Mario Draghi

In e-mail il 15 Febbraio 2021 dc:

Il governo neo-democristiano di Mario Draghi

di Lucio Garofalo

Ricordo che i golpe, un tempo, venivano attuati dai militari, oggi li ispirano i grandi banchieri e i tecnocrati dell’alta finanza, emissari della Confindustria ed alti referenti del Vaticano.

Tuttavia, in modo ipocrita li chiamano “governi tecnici”. Lungi da me l”intenzione di formulare un’analisi dietrologica: qui mi limito ad una presa d’atto, ad una mera constatazione di quanto è accaduto sotto i nostri occhi nell’ultimo mese.

Ad insinuare dubbi non sono i “perfidi bolscevichi” ed i “sovversivi rossi”, bensì pennivendoli al servizio degli apparati di potere, alti funzionari organicamente inseriti nei Palazzi del potere da anni. Viceversa, stupisce (non più di tanto) che i soggetti di un fantomatico e vago “centro-sinistra”, in cui si riconoscono oggi il PD, il M5S e vari “cespuglietti”, non abbiano mai battuto ciglio, né proferito verbo, per denunciare, né per stigmatizzare una congiura di palazzo in piena regola, che è stata orchestrata da elementi politici che fanno capo al potere economico sovranazionale ed “anonimo”, vale a dire il capitalismo cosmopolita, che non è più tanto occulto ed agisce in modo eversivo.

Una trama in cui il doppiogiochista Renzi ha fornito il ruolo dell’ariete di sfondamento, per rovesciare Conte e insediare un nuovo esecutivo, di tipo “tecnico”, che dai nominativi di alcuni ministri “riesumati” alla stregua del dottor Frankenstein (Brunetta e Gelmini, giusto per citare un paio di nomi che ci fanno rabbrividire), si preannuncia già tetro e sinistro.

Mi viene in mente una vignetta disegnata da Vauro ai tempi del governo Monti, che apparve su il Manifesto, in cui un tizio chiedeva: “E la democrazia?”, e un altro rispondeva: “L’hanno pignorata le banche!”. È una sintesi geniale di quanto è accaduto ancora nella realtà odierna.

Anzitutto, la squadra del neonato esecutivo Draghi concentra una serie di figure legate a doppio filo con i poteri forti e tradizionali, che da anni condizionano il triste destino del nostro Paese: le banche d’affari, la Confindustria, il Vaticano, i vertici militari. Tali poteri sono rappresentati nel governo Draghi in modo completo, usando il vecchio “manuale Cencelli”.

Infatti, figurano vari portavoce della Confindustria e dei poteri economici di regime, bocconiani, nonché docenti di università private, più alcuni fiduciari delle alte gerarchie ecclesiastiche, ed infine vecchi arnesi del berlusconismo,che credevamo, in modo ingenuo, che fossero ben riposti in una soffitta, e via discorrendo.

Il loro compito sarà di ordine prettamente tecnico-esecutivo, più che politico, in quanto dovranno tradurre in atti ed in provvedimenti di legge immediati le direttive dettate dai vertici del mondo confindustriale: si tratta di una linea politica sposata in pieno dalle più alte istituzioni globali, come il FMI e tutto l’establishment al completo, bancario e finanziario, di tipo sovranazionale.

Si potrebbe azzardare l’ipotesi che Draghi sia solo l’esecutore di un “disegno” di commissariamento del governo del nostro Paese.

Si è passati ad un tipo di esecutivo in cui figurano i referenti delle grandi banche d’affari, i “tecnici” confindustriali ed i referenti della curia pontificia, nonché lo “stato maggiore” berlusconiano. È arduo scegliere il “meno peggio” in un calderone pieno di personaggi a dir poco discutibili, di cui già abbiamo sperimentato le “capacità”: ricordo solo l’operato del già citato Brunetta.

L’esecuzione dei principali punti programmatici, prescritti dall’alto al governo del nostro Paese, da parte dei soggetti che in vari modi costituiscono l’emanazione più diretta delle più alte oligarchie del mondo finanziario, comporterà forse ulteriori violazioni dei diritti e principi di tipo democratico e sindacale, ovvero delle residue tutele sociali che ancora hanno garantito il mondo del lavoro nei comparti della Scuola e Pubblica Amministrazione in Italia.

È assai lecito paventare il rischio che incasseremo ulteriori sacrifici in quanto lavoratori. Dalle enunciazioni ancora piuttosto vaghe e generiche, direi ambigue, a tal punto che Mario Draghi si potrebbe ribattezzare come “democristiano”, si evince una palese assenza di rottura rispetto alla linea seguita dai governi negli ultimi lustri. Al contrario, si coglie una linea di aperta continuità con la politica adottata in passato da diversi governi sul fronte economico-sociale, e in particolare sul tema dell’istruzione scolastica e della Pubblica Amministrazione.

Da commistione a simbiosi

In e-mail da Democrazia Atea il 6 Novembre 2017 dc:

Da commistione a simbiosi

Fino al Medioevo la Chiesa, intesa unicamente come organismo religioso, esplicava il suo ruolo di guida per le questioni in materia di fede.

Si occupava delle interpretazioni dei testi religiosi, si occupava dei fedeli e delle regole morali da impartire, in sintesi si occupava della spiritualità.

Nel Medioevo è cominciata la metamorfosi e le questioni terrene, relative alla amministrazione politica, alla legislazione, al governo dei territori, questioni che fino ad allora erano appannaggio dei governi, sono cominciate ad entrare nelle mire della Chiesa che, forte di un patrimonio accumulato soprattutto con lasciti, pretendeva di incarnare anche il potere temporale insieme a quello spirituale.

Il Pontefice pretendeva, dunque, di esercitare sovranità piena con emanazione di leggi civili, con l’amministrazione della giustizia e con la difesa militare.

Lo Stato Pontificio ebbe secoli di dominio politico, condannando le popolazioni sottomesse ad un oscurantismo malvagio.

Le storture potere temporale furono criticate da Dante, da Machiavelli, da Guicciardini, per proseguire fino a Leopardi.

Il 1870 segnò una svolta storica e l’unità d’Italia si completò con la conquista dello Stato Pontificio.

Il potere temporale della Chiesa subì una regressione che durò fino al 1929 ovvero fino a quando il potere dittatoriale fascista cercò la sua legittimazione etica e la Chiesa Cattolica gliela offrì con evidente contropartita.

Il prezzo lo pagò l’Italia con la stipula dei Patti Lateranensi.

Da quel momento prese l’avvio una inesorabile infiltrazione del potere religioso nel potere politico, una costruzione lenta e capillare, compresa da pochi e osteggiata da pochissimi.

Dal 1929 in poi la Chiesa ha ripreso ad amministrare l’Italia, non più in modo diretto, ma usando la mediazione degli uomini dello Stato italiano, fedeli alla Chiesa.

Si mantenne tuttavia, per molti decenni, una parvenza di separazione.

Anche i politici più cattolici, come ad esempio De Gasperi, si posero nel rispetto del principio di laicità e nell’accortezza di mantenere separate le sfere di reciproca competenza.

Per arrivare fino a Rosy Bindi la quale, nel rivendicare il cattolicesimo in politica, si avventurò in diatribe linguistiche (o meglio semantiche) tra laicità e laicismo, utilizzando il secondo termine come se fosse una degenerazione del primo.

L’attacco al principio di laicità, attraverso i distinguo tra laicità e laicismo, fu reso facile perché la finalità evidente era proprio quella di fornire una giustificazione a chi voleva negarlo.

Il principio di laicità, per sua natura, non può avere graduazioni tra laicità e laicismo, o si accetta o si nega.

Tutte le battaglie di laicità vennero tacciate di laicismo, e il giochetto semantico raggiunse il suo obiettivo.

Scuola, lavoro, sanità, migrazione, niente in questi anni è stato lasciato al caso e il potere religioso ha dettato l’agenda politica delle questioni prioritarie per l’Italia.

La commistione tra potere religioso e potere politico si avvia al totalitarismo ideologico, i partiti politici sono arrivati finanche ad invocare il pontefice come loro capo politico.

La commistione oggi è diventata simbiosi sicchè accade che in questo rinnovato Medioevo un parroco, nella tornata amministrativa di questo novembre 2017, si è candidato, mentre il segretario del partito di Governo è andato a fare un comizio in chiesa.

E nessuno sembra comprendere che in tutto questo si è concretizzato un deficit democratico irreversibile.

Democrazia Atea denuncia la grave compromissione democratica sottesa a questi fenomeni, ed avvierà l’iter di richiesta di audizione alla Commissione europea per le libertà civili, posto che il Principio di laicità è il principio fondante delle democrazie europee, e in Italia non sanno più cosa sia.

http://www.democrazia-atea.it

Tra benedizioni e società civile a scuola muore la laicità

da Italialaica 1 Marzo 2016 dc:

Tra benedizioni e società civile a scuola muore la laicità

di Giovanni Fioravanti

Mentre a Parigi si va a scuola di laicità, a Bologna la laicità della scuola necessita di una sentenza del TAR per essere tutelata. Ma Parigi val bene una messa, come si sa, così l’Ufficio Scolastico Regionale ha affidato all’Avvocatura di Stato il compito di vagliare le possibilità di un ricorso contro la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale che tiene lontana dalle scuole la benedizione pasquale.

È come dire che lo Stato, laico per Costituzione, faccia causa contro se stesso e la propria laicità. Schizofrenia istituzionale? Disturbo della personalità statale? Non c’è da stupirsi se non siamo un Paese normale.

I sostenitori della benedizione delle aule scolastiche hanno deciso che, se l’aspersione d’acqua benedetta non può essere compiuta all’interno dell’edificio scolastico, si procederà comunque con il rito dall’esterno, dal marciapiede antistante la scuola.

Viene da chiedersi cosa aggiunga o cosa tolga alla scuola la benedizione pasquale. Forse rende più intelligenti alunni ed alunne, forse li preserva dai pericoli di un crollo, considerato lo stato della nostra edilizia scolastica, chissà. Per non dire delle profonde perplessità sul valore formativo per bambini e adolescenti chiamati a fare da pubblico ad un rito che nulla ha da invidiare alle antiche rogazioni nelle campagne.

La senatrice Pd, Francesca Puglisi, dichiara: “Non credo che sia la benedizione a violare la laicità dello Stato” e il parroco che avrebbe dovuto impartirla sostiene che la benedizione pasquale non è un rito religioso, ma una tradizione civile del nostro popolo.

A questo punto verrebbe da chiedersi cos’è dunque laico e cosa religioso, cosa razionale e cosa irrazionale. Ma soprattutto perché debba essere sempre la scuola a Natale e a Pasqua oggetto di polemiche religiose spacciate per tradizioni civili che non offenderebbero la laicità dei laici.

Ora, che non si voglia vedere strumentalità in tutto questo bisogna essere davvero delle anime belle.

Nella nostra società, sempre più secolarizzata e sempre più multietnica, certi credenti si sentono minacciati da quanti praticano la propria religione con una coerenza che loro hanno perduto ormai da tempo. Di qui la risposta in difesa: affermare la propria identità ricorrendo alla tradizione, alle forme esteriori di una fede che non ha più radici nella vita interiore delle persone.

Per legge sono i Consigli di Istituto che nei loro regolamenti devono prevedere le condizioni per concedere l’uso degli spazi scolastici in orario extrascolastico. Non mi risulta che rabbini, imam o pastori protestanti abbiano mai fatto richiesta d’uso delle aule scolastiche per le loro funzioni religiose, perché i preti sì allora? E perché solo per la benedizione pasquale e non per la messa tutte le domeniche?

È dunque chiara la volontà di portare la scuola su un terreno molto pericoloso. In tutto questo c’è più uno spirito di crociata, che di pietà religiosa.

Lo esprimono chiaramente i promotori delle benedizioni scolastiche, chiedendosi perché le moschee sì e le benedizioni no, paventando il rischio di dover cancellare le chiese per non disturbare i musulmani o che sia impedito ai loro figli di sentirsi italiani e cristiani anche a scuola, fino a vedere calpestata la propria religione.

Eppure la sentenza del tribunale amministrativo emiliano romagnolo, nel suo buon senso, non solo pare laica, ma direi anche cristiana. Non fa altro che affermare come il principio costituzionale della laicità non significhi indifferenza rispetto all’esperienza religiosa, ma comporti piuttosto equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.

Questi signori della benedizione prêt à porter, che semmai si scandalizzano delle madrasa, le scuole coraniche altrui, non si scandalizzano che nelle nostre scuole statali, pubbliche e aconfessionali si manipolino le menti dei più piccoli, perché si sa più assorbenti e plasmabili, a partire dalla scuola dell’infanzia, con la narrazione confessionale della religione cattolica.

È la questione di sempre, per cui ci si preoccupa più di educare che di istruire. Del resto educare pare essere più facile che istruire, come è più facile trasmettere il dover essere che il divenire. La scuola da sempre offre un terreno molto favorevole a quanti sono preoccupati di plasmare le coscienze anziché formare le intelligenze, perché raduna tutti i giovani quando sono facilmente manipolabili, condizionabili e suggestionabili, perché le loro menti ancora devono maturare e quest’ultima possibilità difficilmente la nostra scuola gliela offre.

La scuola è terreno estremamente delicato, perché luogo di formazione della parte più fragile della nostra società: le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi. Tutti si dovrebbe fare un passo in dietro, essere molto attenti ad evitare interferenze, tenersi distanti con le proprie idee e convinzioni da chi le idee e le convinzioni deve conquistarsele da sé, con la propria testa e non con quella degli altri.

“È decisivo abbandonare l’attuale modello istituzionale statalista per sostituirlo con uno nuovo, espressione delle più vive dinamiche sociali”, scriveva nel 2002 l’attuale direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna in un testo da lui curato, “La scuola della società civile tra Stato e mercato”, forse questo spiega la sua intenzione di ricorrere contro la sentenza del TAR.

Il tema che la benedizione pasquale delle scuole ripropone è sempre quello da tempo caro a certi ambienti cattolici del nostro paese, del rapporto tra scuola e società civile. Un tema da interferenze e corto circuiti, fino a quando cattolici e teorici del libero mercato dell’istruzione anche nel nostro paese non saranno in grado di provvedere da soli a farsi le loro scuole, senza ricorrere allo Stato, ai bonus scuola e, ovviamente, alle benedizioni pasquali.