Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

Dal sito del PRC, articolo del 3 Febbraio 2024 dc:

Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

di Maurizio Acerbo

A nome del Partito della Rifondazione Comunista faccio i più calorosi auguri a Angela Davis per i suoi 80 anni – compiuti il 26 gennaio – di vita straordinaria e esemplare.
 
Nell’occasione vorrei ricordare un passaggio assai importante della sua lunga militanza comunista che forse non è nota a tutte/i quanto la sua epopea di rivoluzionaria afroamericana perseguitata e incarcerata dall’FBI. Per la liberazione di Angela Davis si mobilitò davvero tutto il mondo. Segnalo, come esempi della vastità del movimento, il carteggio tra il filosofo marxista ungherese Gyorgy Lukacs e Enrico Berlinguer e le canzoni che le dedicarono John Lennon e i Rolling Stones.
 
Angela negli ultimi anni si è autodefinita “una comunista con la c minuscola” e questo probabilmente deriva dalla sua presa di distanza di lunga data dalla tendenza a autonominarsi avanguardia e altre caratteristiche autoritarie e dogmatiche del marxismo-leninismo di matrice stalinista.
 
Nel 1992 Angela Davis, la più famosa esponente del Partito Comunista degli Stati Uniti, uscì dal partito con buona parte dei più autorevoli dirigenti e militanti in dissenso con le posizioni conservatrici dell’allora segretario bianco Gus Hall. Per capirci il segretario tifava per i golpisti russi anti Gorbaciov che, tra l’altro, diedero un formidabile assist a Eltsin che approfittò della crisi per assumere la guida del paese verso la restaurazione del capitalismo e la dissoluzione dell’URSS.
 
Angela Davis aveva una statura intellettuale e un dialogo con il meglio della cultura marxista del nord e del sud del mondo che difficilmente poteva ridursi alle posizioni “brezneviane” di Hall. Ricordo che Angela Davis non è stata solo la più famosa prigioniera politica del mondo, ma anche un’allieva del filosofo Herbert Marcuse.
 

Con Angela c’erano il folksinger Pete Seeger, lo storico vittima del maccartismo Herbert ApthekerCharlene Mitchell la prima donna nera candidata alla Presidenza degli Stati Uniti, il veterano degli anni ’30 Gill Green, l’attivista del Free speech Movement di Berkeley e del movimento contro la guerra del Vietnam Michael Myerson.

Uno dei casus belli della rottura fu il differente atteggiamento nei confronti di un saggio che Joe Slovo, leader del Partito comunista sudafricano e del braccio armato dell’African National Congress, aveva scritto sulla crisi del socialismo nell’Europa Orientale nel 1989.
 
Scriveva Joe Slovo: “è più che mai vitale sottoporre il passato del socialismo esistente [in URSS e Europa orientale] a una critica spietata per trarne le necessarie lezioni. Farlo apertamente è un’affermazione di giustificata fiducia nel futuro del socialismo e nella sua intrinseca superiorità morale. E non dovremmo lasciarci inibire solo perché la denuncia dei fallimenti fornirà inevitabilmente munizioni ai tradizionali nemici del socialismo: il nostro silenzio, in ogni caso, offrirà loro munizioni ancora più potenti.(…) Il socialismo può senza dubbio funzionare senza le pratiche negative che hanno distorto molti dei suoi obiettivi chiave. Ma la semplice fiducia nel futuro del socialismo non è sufficiente. Bisogna imparare le lezioni dei fallimenti passati. Soprattutto, dobbiamo fare in modo che il suo principio fondamentale – la democrazia socialista – occupi un posto legittimo in tutte le pratiche future” (Joe Slovo, Il socialismo ha fallito?)
 
Come raccontò Mitchell al giornale del South African Communist Party “invece di incoraggiare la discussione, i vertici del partito [Gus Hall] liquidarono le opinioni di Slovo definendole antisocialiste, antimarxiste e antimarxiste-leniniste”.
 
Angela Davis, che era stata con la componente afroamericana del partito in prima fila per decenni nel movimento antiapartheid, ovviamente aveva un legame assai solido e ben altra stima di combattenti come Slovo e Mandela.
 
L’area di cui era parte la Davis, e nella quale si riconosceva gran parte della militanza afroamericana e dei movimenti, poneva questioni relative a molti temi: dalla strategia sindacale alla mutata composizione di classe (con l’immigrazione che rendeva necessario rivolgersi non solo all’operaio maschio bianco) al ruolo del partito nei movimenti ambientalisti e femministi.
 
Con metodi alquanto stalinisti il numeroso gruppo di autorevoli dirigenti e militanti che aveva presentato il documento “L’iniziativa per rinnovare e unire il partito” fu epurato dalla direzione nel congresso del 1991 dopo che a molti sostenitori fu impedito di partecipare.
 
Ne seguì la scissione (con inevitabili liti su sedi e fondi) e la costituzione della rete dei Committee of Correspondence per tenere insieme i militanti. Il compito di questi comitati era quello di tenere in collegamento i militanti usciti e quelli rimasti nel partito. Oggi si chiamano ‘Committess of Correspondence for democracy and Socialism‘ e lavorano per l’unità consentendo il doppio tesseramento al Partito Comunista USA o ai Democratic Socialists Of America.
 
Le posizioni di Angela Davis e del suo gruppo nel 1991 sarebbero state definite in quegli anni in Francia o in Italia di rifondazione comunista.
 
In sintesi non rinunciavano al comunismo sulla base proprio di una critica radicale del “socialismo reale” e rivendicavano la necessità di un rinnovamento contrapposto sia al conservatorismo che all’abiura.
 
Insomma se si confrontano i documenti della Rifondazione italiana – prima nel no a Occhetto nel Pci e poi di movimento e partito – la sintonia è evidente anche se assai diversi storia e contesti.
 
Angela Davis ha proseguito, dopo la separazione dal partito che l’aveva candidata per due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il suo impegno come intellettuale militante e attivista dando un contributo pratico e teorico di straordinaria importanza negli USA e a livello internazionale.
 
Col tempo molte delle sue posizioni sono state fatte proprie anche dal suo vecchio partito con cui ha mantenuto rapporti non settari come testimonia il messaggio che ha inviato per il centenario del CPUSA esaltandone la gloriosa storia.
 
Il marxismo di Angela Davis è profondamente radicato nella storia afroamericana e nelle lotte dei popoli colonizzati. Non a caso sottolinea l’importanza del “black marxism” di autori come Cedric Robinson e il carattere razziale del capitalismo fin dalle origini nella tratta degli schiavi che fornì i capitali per la rivoluzione industriale (come d’altronde insegnava Marx nel libro I del Capitale).
 
Il suo femminismo nero critico di quello bianco mainstream ha anticipato l’approccio intersezionale e il cosiddetto “femminismo del 99%”: “”Il femminismo deve lottare contro l’omofobia, lo sfruttamento di classe, razza e genere, il capitalismo e l’imperialismo”.
 
Angela Davis ha tenuto una linea diversa dal CPUSA che dagli anni ’90 sostiene una sorta di fronte antifascista di sostegno critico al Partito Democratico. Angela Davis, come Chomsky, non ha rinunciato alla prospettiva della costruzione di un terzo partito effettivamente di sinistra che rompa il sistema bipartitico. Parlando ai giovani di Occupy Wall Street disse: “Il sistema bipartitico non ha mai funzionato, ma non funziona ora e abbiamo chiaramente bisogno di alternative. Personalmente credo che abbiamo bisogno di un forte, radicale, terzo partito. Nel frattempo, questo movimento, che non è un partito, può compiere molto più di quanto i partiti politici non siano in grado di realizzare e così mi sembra, che il modo migliore per esercitare pressioni su questo corrotto sistema bipartitico è quello di continuare a costruire questo movimento e di dimostrare che raggiunge non solo tutto il paese ma va al di là dell’oceano”.
 
Per questa ragione Angela Davis non si fece coinvolgere nella campagna di Bernie Sanders nelle primarie democratiche pur apprezzandone i contenuti. Va detto che Sanders riuscì a catalizzare, mobilitare e popolarizzare intorno al socialismo le nuove e vecchie generazioni di attiviste e soprattutto larghi settori popolari e di classe lavoratrice. Angela Davis però, di fronte al pericolo di una vittoria di Trump, fu costretta come Chomsky e tanti altri a dare indicazione per i democratici sottolineando sempre però che non è quello il partito su cui fare affidamento.
 
Un segno di attitudine non settaria. Angela Davis, come noi, pensa che “Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese” (forse uno dei motivi per cui fui allergico alla conversione della sinistra al maggioritario nei primi anni ’90 è che sono cresciuto leggendo autori e storie della sinistra radicale USA). Nel 2016 dopo la vittoria del miliardario fascistoide è stata tra le protagoniste della marcia delle donne contro Trump con un discorso memorabile.
 
Credo che Angela Davis sia stata lungo i decenni una delle più importanti figure a livello internazionale della rifondazione comunista (ovviamente come insegnavano Ingrao e Rossanda il compito storico di una rifondazione va molto al di là dei confini di un singolo partito come il nostro).
 
Lo è stata con l’attivismo e con un’elaborazione che è sempre stata intrecciata con la sua internità ai movimenti e alle lotte nel suo Paese e a livello internazionale come con la memoria storica della lunga “tradizione degli oppressi”. Per esempio segnalando sempre il carattere razzista degli USA e il legame tra la repressione della sua generazione di militanti neri e quella che continua a colpire i giovani afroamericani in maniera sistemica e trasmettendo alle nuove generazioni l’eredità di figure come Martin Luther King e Malcolm X. Oppure rendendo omaggio alla storia del mitico sindacato dei marittimi della costa occidentale (a cui dedicò tanta parte di Noi saremo tutto Valerio Evangelisti) durante il movimento Black Lives Matter nell’intervento allo sciopero dei portuali di Oakland.
 
È una leader del sessantotto globale che, al contrario di tante/i altre/i, non si è rifugiata nel reducismo né è passata dalla parte delle classi dominanti.
 
Angela è una delle voci più autorevoli dei movimenti e della sinistra radicale negli USA e nel mondo.
 
Il comunismo democratico e internazionalista, marxista nero, femminista e intersezionale di Angela Davis è un punto di riferimento imprescindibile.
 
Dirsi comunisti con la c minuscola è una buona cosa.
 
La compagna lesbica Angela Davis è la dimostrazione di come il rozzobrunismo sia un’attitudine reazionaria e di destra. La sinistra può essere fucsia rimanendo – anzi essendo più coerentemente -anticapitalista e antimperialista come insegna la straordinaria biografia militante e intellettuale di Angela Davis.

Tolkien e Meloni

08 Gennaio 2024 dc, dal sito Doppiozero, articolo del 04 Gennaio 2024 dc:

Tolkien e Meloni

di Stefano Jossa

Chissà come avrebbero reagito la presidente Meloni e il ministro Sangiuliano all’idea che l’immaginario di Tolkien si radichi in un precedente italiano.

Probabilmente l’argomento avrebbe fomentato un rigurgito di orgoglio nazionalistico, suggerendo un motivo in più per sostenere la mostra dedicata all’autore de Il Signore degli anelli, in cui tradizionalismo, conservatorismo e mistificazione si combinano in una singolare miscela di appropriazioni e fraintendimenti.

Eppure alla comparsa del primo volume della saga (The Fellowship of the Ring nel 1954) il grande critico inglese C. S. Lewis, professore a Oxford, autore di saggi letterari di straordinaria influenza e scrittore di fantasy in prima persona con Cronache di Narnia, sosteneva, nella presentazione sul risvolto di copertina del libro, che l’unico paragone possibile per Tolkien sarebbe stato solo con il più grande poeta del Rinascimento italiano, Ludovico Ariosto, l’autore di Orlando Furioso: ‘If Ariosto rivalled it in invention (in fact he does not) he would still lack its heroic seriousness’ (‘Se pure Ariosto lo sorpassasse per la ricchezza dell’invenzione (cosa che comunque non fa), gli mancherebbe sempre la sua grandiosità eroica’).

Solo Ariosto all’altezza di Tolkien, ma un gradino più in basso, perché il secondo aveva saputo costruire un mondo ‘così multiforme e così fedele alle proprie leggi interiori; […] così apparentemente oggettivo, così ripulito dalla contaminazione con la psicologia meramente individuale di un autore; […] così rilevante per la reale situazione umana e tuttavia così libero dall’allegoria’, da introdurre il lettore a una ‘varietà quasi infinita di scene e personaggi: comici, semplici, epici, mostruosi o diabolici’.

Non sembra che Tolkien avesse particolarmente gradito il riferimento, che pure lo inseriva di default tra i grandi classici della letteratura occidentale. Ai giornalisti di The Telegraph, Charlotte e Dennis Plimmer, che molti anni dopo (era il 22 marzo 1968) gli chiedevano cosa ne pensasse, rispose semplicemente: ‘I don’t know Ariosto, and I’d loathe him, if I did’ (‘non conosco Ariosto, e lo odierei se lo conoscessi’).

Il rifiuto tolkieniano si spiega con la volontà di essere unico e originale, ma certo il riferimento ariostesco non sembrava un gran servizio allo scrittore da parte dell’amico critico: quanti tra i lettori inglesi e americani di allora avrebbero potuto cogliere il parallelo con un classico italiano che pochi conoscevano e quasi nessuno leggeva, essendo fra l’altro disponibile, in quel momento, solo nell’originale italiano e nella vecchia traduzione di William Stewart Rose del 1831?

Proprio in quel 1954 che vedeva l’uscita di La Compagnia dell’anello, tuttavia, l’editore newyorchese di ascendenza italiana Sante Fortunato Vanni dava alle stampe una nuova traduzione, in prosa, del poema ariostesco, da parte del grande esperto di Rinascimento italiano Allan Gilbert, professore di letteratura inglese alla Duke University, e di Ariosto aveva parlato diffusamente, nel suo libro sulla rappresentazione dell’amore nel Medioevo, The Allegory of Love (1936), proprio lo stesso Lewis. Il riferimento colto era rivolto allora a immettere subito la nuova saga tolkieniana in un orizzonte accademico, di letteratura alta, che favorisse una lettura non solo popolare, ma soprattutto intellettuale.

Nazionalisticamente propizio, ma populisticamente pericoloso, il riferimento diventa subito a doppio taglio per gli obiettivi politici di Meloni e Sangiuliano.

Come dimostrare che esiste una cultura di destra in Italia, fondata sulla lettura de Il Signore degli anelli, se il suo predecessore italiano, rivendicato per di più dal critico più importante della società letteraria inglese del tempo, e amico personale dell’autore, fa parte di quella cultura alta che è tradizionale appannaggio della sinistra? Antico, difficile e intellettualmente complesso sono infatti aggettivi agli antipodi della definizione di cultura promossa dal governo italiano attuale, che punta tutto sulla contemporaneità, l’immediatezza e la semplificazione, secondo i canoni della comunicazione mediatica del nostro tempo.

Ariosto, del resto, è nome che il lettore italiano di media cultura associa subito a Italo Calvino che è stato, comunque si prenda il suo rapporto tormentato col comunismo, un campione della cultura di sinistra. Il quale in Ariosto aveva proprio trovato un principio di opposizione al fascismo, all’insegna dell’avventura intellettuale, della complessità rappresentativa e del rifiuto delle parole d’ordine grazie all’osservazione della realtà. Tutto ciò che a Meloni e Sangiuliano potrebbe fare semplicemente paura, perché implica il passaggio dalla propaganda alla politica.

Bisognerà allora andare a vederla, la mostra, per confermare o scardinare i pregiudizi: che sia un’appropriazione indebita da parte della destra di governo; che rilanci un’immagine falsificata e mistificatoria dello scrittore; che immetta i suoi scritti in un orizzonte di militanza partigiana che è estraneo a ogni forma d’arte; e che, di conseguenza, sia una mostra scadente.

Antiteticamente: che Tolkien fosse oggettivamente conservatore; che la sua militanza cattolica e anti-liberale lo iscriva ipso facto a una cultura di destra; che sia un difensore della tradizione, della famiglia, della fratellanza e della patria; e che, di conseguenza, si tratti di una mostra giustissima.

Anziché ridurre il discorso all’affermazione apodittica che la cultura per definizione non può essere di destra, o all’altrettanto superficiale dichiarazione che la letteratura e l’arte si muovono a un livello superiore, per cui non possono essere né di destra né di sinistra, converrà cercare delle coordinate di riferimento per orientarsi in un dibattito che in Italia è ancora irrisolto.

Immersa nella cornice splendida della galleria, tra De Chirico, Fontana, Mondrian e Pistoletto, la mostra rischia di subire financo logisticamente un senso di minorità, relegata in un angolo rispetto alla grandezza dell’arte contemporanea, una curiosità a suo modo appendicolare e fuori luogo: non sarebbe stato allora opportuno legarla quanto più possibile ai pezzi in esposizione, mettendo in rilievo, ad esempio, i cortocircuiti dell’immaginario tra i 32 mq di mare circa di Pino Pascali e la Terra di Mezzo, o tra l’eroismo mitologico dell’Ercole e Lica di Canova e l’eroismo modernista della saga tolkeniana, o tra La tana di Mimmo Paladino e la casa della famiglia Baggins?

Se l’obiettivo fosse stato quello di immettere Tolkien nell’universo estetico della contemporaneità, valorizzando la riflessione su spazio, tempo, natura, mondo e identità, anziché isolarlo totemicamente, forse questa sarebbe stata una strada da esplorare.

Ci troviamo invece fin dall’inizio di fronte all’inchino riverente piuttosto che all’indagine delle potenzialità d’interazione: «la mostra celebra la vita, esalta il lavoro accademico, svela la maestosità della produzione letteraria di Tolkien», si legge sul pannello introduttivo.

Più idolatra di così è difficile immaginarlo: si comincia infatti col figlio perfetto, che assistette «all’eroica sofferenza e alla morte precoce in estrema povertà della madre»; col cristiano perfetto, che fu educato nella fede da padre Morgan; e col padre perfetto, che riuscì a fare della sua famiglia un’opera d’arte di cui i personaggi sono i figli.

Compaiono documenti interessanti, come il Macbeth posseduto dal figlio Michael per lascito paterno, e le pagine dell’Oxford English Dictionary cui collaborò; ma non sarebbe stato più suggestivo far diramare intorno agli oggetti i percorsi della sua formazione, della sua vita intellettuale e della sua ispirazione letteraria (come avviene, ad esempio, nella mostra su Italo Calvino attualmente in corso alla Biblioteca Nazionale di Roma)?

Di lui si sarebbero potute esplorare le contraddizioni, psicologiche e culturali, tanto utili ai fini dell’esplorazione del suo universo creativo: pronto a deludere l’educatore per amore nei confronti dell’unica donna della sua vita, capace di riscattare la sua mancata vocazione col sacerdozio del figlio primogenito e incline a far apprezzare i testi per il loro contenuto narrativo anziché come documenti storici, fu un marito fedele, un cattolico coerente e un docente amorevole, oppure un marito piuttosto assente, un padre quasi padrone e un filologo almeno distratto?

Nel laboratorio dello scrittore si entra solo attraverso tre video: un’intervista in cui Tolkien si esercita a scrivere in elfico, spiegando che «le lingue hanno un sapore», come «un nuovo vino o una nuova leccornia»; un’altra intervista in cui ricostruisce la genesi della sua saga, associando l’anello alla bomba atomica e l’evasione letteraria alla fuga dalla prigione; e una ricostruzione dei meccanismi della parentela linguistica.

Davvero poco, per chi si aspettava almeno una tavola con l’alfabeto del runico e un pannello con la storia delle lingue elfiche. «Come scriveva Tolkien» è qualcosa di cui la mostra non dà neppure un assaggio, mancando certamente uno degli obiettivi possibili, lo scrittore, che invece viene ridotto ad autore, col mito della persona a prevalere, ancora una volta, su qualsiasi altra sua attività, soprattutto quella creativa.

Anche qui una delle mostre in corso proprio in questo periodo avrebbe potuto aiutare (quella su Italo Calvino alle Scuderie del Quirinale): entrare nel mondo visivo di Tolkien immaginando «cosa vedeva quando chiudeva gli occhi».

Alla traduzione visiva dei suoi libri, tra copertine, illustrazioni, vignette, pubblicità, film, videogames e giochi da tavolo, sono dedicate le sale successive, in una vertiginosa successione di disegni, poster e fotogrammi, fino ad arrivare ai rifacimenti e alle parodie più recenti che annoverano, fra i tanti titoli, Paperino e il signore del padello di Giorgio Pezzin con Franco Valussi per «Topolino» (1995), Il signore dei porcelli di Stefano Bonfanti e Barbara Barbieri per la collana Zannablù dell’editore Dentiblù (2014) e (ma perché?) L’elenco telefonico degli accolli di Zerocalcare per BAO (2015).

Come dimostrano i titoli appena riportati tutto è rivolto, infine, alla celebrazione di una possibile italianità di Tolkien, a partire da quel viaggio in Italia dell’estate del 1955 durante il quale affermava di essere «innamorato dell’italiano» e di sentirsi «abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo»: valorizzando la suggestione di un dialogo implicito con Benedetto Croce, che fu tre volte a Oxford durante la vita di Tolkien, la sua partecipazione alla Dante Society (dal 1945 al 1955), e l’idea da lui stesso proposta che Venezia avrebbe fornito uno scenario ideale per Esgaroth, i curatori (tra cui Oronzo Cilli, autore di un interessante e faziosissimo Tolkien e l’Italia per Il Cerchio Editore, 2016) inseguono un Tolkien italiano che potrà piacere a chi si nutre di patriottismo quotidiano, ma storicamente e letterariamente non ha ragion d’essere.

Costruita intorno a un’italianità d’accatto, la mostra ignora proprio quello che avrebbe potuto essere l’unico precedente italiano, quell’Orlando Furioso da cui siamo partiti.

Eppure fin dal 1954 la lettrice cui Mondadori aveva richiesto un parere sull’opportunità o meno di tradurre The Lord of the Rings, la scrittrice di origine tedesca Ruth Domino Tassoni, additava una possibile direzione ariostesca: dopo aver affermato che Tolkien «riprende una delle più antiche funzioni della letteratura: raccontare meraviglie», sosteneva che le sue «vicende dovrebbero venir recitate in grandi sale, con pioggia e vento fuori, e possibilità di lungo ozio. Come nelle antiche saghe, la storia si diffonde, si spezza e riprende in intricati episodi, un motivo conduce ad un secondo e ad un terzo, e dentro una vicenda nasce una nuova vicenda e dentro questa fioriscono canti e poesie».

Non era, questa, la descrizione della struttura narrativa del capolavoro ariostesco? Non bastava, però, per proporre la pubblicazione dell’opera, che alla lettrice sembrava «per un editore cui preme un sicuro guadagno» troppo «un rischio».

Né piacque, l’opera, otto anni dopo, a Elio Vittorini, direttore editoriale della Mondadori, che trasformava il «rischio» paventato dalla prima lettrice in un’inclinazione negativa, considerato che «il successo del tentativo [di traduzione e pubblicazione] richiederebbe la forza di un vero e proprio genio (che Tolkien dà prova di non essere) e la convalida di una attualità, ma ciò non si verifica affatto».

Rifiuto confermato da Vittorio Sereni e sancito da R.C. per la casa editrice.

Avevano capito poco, se a farne un film pensavano già in quegli stessi anni i Beatles (con George Harrison che ambiva al ruolo di Sam) e se a sessant’anni di distanza papa Francesco ci vedrà addirittura un’allegoria dell’«uomo in cammino»: ma la questione del fantasy in Italia è argomento ancora tutto da affrontare (e che la mostra neppure sfiora).

Molti sono i documenti utili e grandiose alcune sale, ma la mostra privilegia la celebrazione rispetto all’interpretazione, che è ciò che nasce dal fare confronti, dal mettere in dubbio, dal promuovere ipotesi e favorire la discussione: non essendoci fonti con cui dialogare (dal poema epico medievale in inglese antico Beowulf al romanzo fantasy di E.R. Edison The Worm Oroborous) né termini di paragone (l’ovvia contesa con Harry Potter, ma anche gli Snerg di E.A. Wyke-Smith), mancando interlocutori critici del suo e del nostro tempo (dalle prime recensioni alle analisi più recenti), Tolkien ne esce fuori come un monumento, isolato e intoccabile.

Ciò che emerge, insomma, è la solita ansia eroica della destra, il bisogno del campione da adorare anziché del modello o maestro con cui confrontarsi: il gran cacchio, come diceva Gadda del Duce. Al centro c’è infatti la persona, come recita il titolo, dedicato a Tolkien «Uomo, Professore, Autore», tutti rigorosamente con la maiuscola: un santino, laico, ma in odore fortissimo di santità.

Torniamo ad Ariosto e Tolkien.

Alcuni lettori inglesi non capirono il riferimento colto e si limitarono a cercare parallelismi: poiché in inglese tanto l’orca quanto l’orco si chiamano orc, l’orca ariostesca, che minaccia donne nude legate a uno scoglio dagli abitanti dell’isola di Ebuda per placarla attraverso i sacrifici umani, è diventata un precursore degli orchi tolkeniani che attaccano nani, elfi e uomini nella Terra di Mezzo.

Di fronte a tanta mancanza di intelligenza (ma non di humour, che forse non sarebbe dispiaciuto né ad Ariosto né a Tolkien), si può ricordare che nel 1971 (proprio un anno dopo la pubblicazione integrale in italiano de Il Signore degli anelli presso Rusconi, con la prefazione di Elémire Zolla, dopo la comparsa dei primi due libri presso Astrolabio nel 1967 nella traduzione di Vicky Alliata di Villafranca), l’editore americano Ballantine pubblicava una nuova traduzione inglese dei primi 13 canti dell’Orlando furioso (su 46) da parte dell’autore di fantascienza e saggista Richard Hodgens.

La notizia resterebbe una pura curiosità editoriale, se Ballantine non fosse appunto l’editore americano di The Lord of the Rings. Il sottotitolo di questa prima parte (cui non ha fatto seguito la continuazione della traduzione, purtroppo) era The Ring of Angelica: più esplicito di così! La prefazione era di Lin Carter, autore di fantascienza che nel 1969 aveva pubblicato un saggio su The Lord of the Rings. L’illustratore era David McCall Johnston, famoso per le sue illustrazioni di opere cavalleresche e fantasy. Un intero progetto di assunzione di Ariosto nel mondo di Tolkien si prefigurava dietro la scelta di Ballantine.

In America Ariosto veniva annesso all’orizzonte del fantasy esattamente nello stesso momento in cui in Italia Tolkien veniva divulgato con potenzialità reazionarie.

Per quanto accolto e apprezzato soprattutto negli ambienti hippy nel corso degli anni Sessanta, per il suo ritorno alla natura e il suo culto della libertà, in Italia negli anni Settanta il capolavoro di Tolkien diventava lo strumento di un riscatto della cultura di destra, complici lo statuto pubblico dell’editore e l’immagine controversa del prefatore.

Editore aperto a suggestioni ermetiche, esoteriche e mistiche, Rusconi pubblicava De Maistre e Jünger, che potevano essere percepiti, come infatti furono, come autori di destra.

Zolla, a sua volta, era visto con sospetto dagli ambienti intellettuali caratterizzati da un razionalismo illuminista e scientista coi paraocchi, per cui i suoi interessi per le religioni, il misticismo e l’occultismo lo facevano spesso passare (erroneamente) per oscurantista e destrorso.

Rifiutato per questi motivi Tolkien dalla sinistra, non risultò difficile alla destra appropriarsene, facendo leva anche su un presunto conservatorismo dell’autore che è solo in parte fondato, ma soprattutto (come ha scritto Giuseppe Pezzini, uno dei curatori della mostra, professore di latino a Oxford e Tolkien Editor per  Journal of Inklings Studiesnulla ha a che vedere con la sua opera letteraria.

A partire dal biennio 1976-77 Tolkien diventava in Italia un autore di destra.

Nel 1976 Monica Centanni e Marilena Novelli fondavano la rivista Eowyn, che avrebbe dovuto rilanciare il dibattito sulla donna all’interno del MSI: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società», si leggeva su una delle prime copertine.

Eowyn, principessa di Rohan, è l’eroina che appare nel secondo libro della saga di Tolkien, Le due torri: innamorata invano dell’irraggiungibile Aragorn, è una donna forte, che lotta per il suo popolo, ma sa anche accettare il destino che la vuole consapevole dei suoi limiti e cui si sottomette (a proposito: con l’eccezione della madre e della moglie, non ci sono donne nella mostra, neppure tra i personaggi).

Il 6 dicembre dello stesso anno la band Gruppo Padovano di Protesta Nazionale (la futura Compagnia dell’anello) presentava in un concerto a Roma la canzone che sarebbe diventata l’inno del Fronte Nazionale della Gioventù, Il domani appartiene a noi, in cui «la terra dei Padri», «la Fede immortal» e «la Tradizion» (obbligatoria anche qui la maiuscola) compaiono come i valori fondanti di una comunità che lotta contro l’oscurità e guarda ai raggi del sole.

L’anno dopo vedeva la nascita dei campi Hobbit, invenzione creativa di alcuni leader del Fronte della Gioventù, la sezione giovanile del MSI: Generoso Simeone, Umberto Croppi, Giampiero Rubei, Marco Tarchi e Nicola Cospito.

Associare Tolkien e Ariosto avrebbe significato parlare di letteratura, di complessità, di diversità e di dialogo. Rivendicare il rifiuto di Vittorini come occasione per una storia più fortunata, protesa verso una direzione piuttosto che un’altra, rischia di negarla, invece, la letteratura, che è in effetti la grande assente della mostra.

Ognuno può fare le appropriazioni che vuole, ma deve anche saperle fare: se cultura di destra vuol dire banalizzazione e mitizzazione, opposizione pregiudiziale alla sinistra e strumentalizzazione di qualsiasi discorso a uso suo proprio, allora avrà ragione chi pensa che destra e cultura siano semplicemente in antitesi.

Ma se cultura di destra vorrà dire un’occasione per promuovere sguardi alternativi e proposte nuove, urge definirne orizzonti di senso e prospettive di ricerca: dal momento che non si può più ricorrere all’opposizione tra progressismo e conservazione, razionalismo e irrazionalità, elitismo e populismo, che non hanno retto alla prova della storia, perché la destra di oggi non è più antimoderna, anticapitalistica e antiburocratica, che si ricominci a pensare la politica all’interno di categorie critiche non può che essere un bene.

A patto che la destra voglia davvero promuovere la cultura, fondata sull’orizzonte della ricerca e la capacità del confronto, anziché fare solo propaganda.

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

26 Maggio 2023 dc, da Left, articolo del 19 Maggio 2023 dc:

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

di Noemi Ghetti

Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, diceva Bobbio rimane non risolto in tutta la sua gravità. L’affascinante ideale dell’eguaglianza, aggiungeva, è stato la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato

In occasione della nuova edizione di Destra e sinistra  di Norberto Bobbio ripubblichiamo la recensione di questo importante testo firmata da Noemi Ghetti che uscì su Left nel 2010 in occasione del centenario della nascita del filosofo e pensatore politico. Riproposto dall’editore Donzelli con una nuova prefazione di Nadia Urbinati, a trent’anni dalla prima fortunata edizione il testo di Bobbio non cessa di stupire per la persistente attualità della ricerca e per l’ottimismo di fondo che la anima.

Rileggere le cose non fa mai male: si capiscono meglio. Mai come in questi tempi suona opportuno l’invito, rivolto nei giorni scorsi da un professore agli studenti in un’affollata aula universitaria. L’iniziativa dell’editore Donzelli di proporre, nell’ambito delle celebrazioni per il contenario della nascita di Norberto Bobbio, una nuova edizione del saggio Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica con un’introduzione di Nadia Urbinati, appare di attualità e offre un forte stimolo di riflessione, anche alla luce degli avvenimenti che investono la vita pubblica italiana in questi giorni.

Filosofo e politologo, per molti decenni impegnato nell’insegnamento universitario, pubblicò all’età di ottantacinque anni la prima edizione del «libretto» destinato a restare, tra tutti i suoi lavori, il testo più discusso e famoso. Uscito in libreria il 26 febbraio 1994, fu un successo editoriale senza precedenti: diecimila copie vendute in tre giorni, centomila in due mesi, più di trecentomila nel primo anno. E poi, traduzioni in ben 27 lingue straniere.

Il muro era caduto da cinque anni, l’Italia era immersa nella prima stagione di Tangentopoli e assistevamo attoniti la “discesa in campo” del cavaliere che, a fine marzo, conseguì la prima vittoria elettorale. A maggio dello stesso anno Bobbio, che non cessava di stupirsi dell’imprevedibile fortuna del libro, in una lettera a Carmine Donzelli notava con amaro umorismo: «Andiamo avanti con l’Italia berlusconizzata e con questo governo, per il quale ho scritto: Sì, ci ho riflettuto: / avvenga quel che avvenga. / La gente l’ha voluto / ed ora se lo tenga». Parole sulle quali ci tocca interrogarci ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2004.

Ma più impressionante ancora è l’attualità della ricerca che Bobbio svolge sulla dicotomia tra destra e sinistra, «civettando» continuamente, come egli stesso scrive, con la logica. Una logica deduttiva limpida e mai astratta sostiene l’argomentazione, che compone una straordinaria precisione linguistica con una fine capacità di osservazione, anche psicologica. Perché, come scrive a sorpresa il filosofo che fu definito un illuminista del Novecento, «non c’è ideale che non sia acceso da una grande passione. La ragione, o meglio il ragionamento che adduce argomenti pro e contro per giustificare le scelte di ciascuno di fronte agli altri, e prima di tutto verso se stessi, viene dopo. Per questo i grandi ideali resistono al tempo e al mutar delle circostanze, e sono l’uno all’altro, ad onta dei buoni uffici della ragione conciliatrice, irriducibili».

Quando cadde il fascismo, ricorda Bobbio, la destra sembrò essere quasi scomparsa: con la dissoluzione dei regimi comunisti la sinistra scende e sale la destra. E tuttavia i termini antitetici della diade hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. La questione discussa è dunque se la distinzione storica tra destra e sinistra, metafora spaziale che dalla Rivoluzione francese per due secoli è servita a dividere l’universo politico in due parti opposte, nel tempo della cosiddetta crisi delle ideologie abbia ancora ragione di essere utilizzata, nonostante le argomentazioni tese a negarla.

E nonostante la confusione della sinistra con la destra e della destra con la sinistra, verificatasi a più riprese nel Novecento. Come quando agli inizi del secolo intellettuali socialisti si fecero teorici del fascismo. O quando nel ’68 furono adottati a sinistra “maestri del pensiero” come Heidegger, dal passato di chiara compromissione nazista. O quando, fallito quel movimento, intellettuali ex-sessantottini passarono alle file della destra. O da quando, recentemente, politici di destra hanno preso ad appropriarsi di posizioni tradizionalmente proprie della sinistra. Fenomeno che, per alcuni, sarebbe indicativo del fatto che non esistono più differenze che meritino di essere contrassegnate con nomi diversi.

Eguaglianza e libertà: i due termini hanno un senso emotivamente fortissimo, ma un significato descrittivo generico, e un contenuto spesso antitetico, che Bobbio indaga da diverse angolazioni.

La tesi centrale del saggio è che sinistra e destra restano tuttora irriducibili l’una all’altra alla luce dell’opposizione di eguaglianza-diseguaglianza, mentre la coppia oppositiva libertà-autoritarismo serve piuttosto a distinguere i moderati dagli estremisti.

Fascismo e bolscevismo, accomunati da concezioni egualmente «profetiche» della storia, condividono infatti per Bobbio il disprezzo democratico e l’uso della violenza, teorizzato come positivo. La teoria degli “opposti estremismi”, che prima della caduta del comunismo molti intellettuali trovavano inaccettabile, è secondo lui dimostrata in modo inoppugnabile dalla professione autoritaria e antilibertaria di quelle dottrine. Una dialettica democratica, dunque non violenta, tra destra e sinistra, non può dunque che svolgersi tra liberalismo e socialismo. E Bobbio non esita a dichiarare di essersi sempre dimostrato un uomo di sinistra.

Ma che cosa si intende per eguaglianza?

L’eguaglianza radicale di tutti in tutto, che è il nerbo del pensiero degli utopisti, è una formulazione non solo astratta, ma che storicamente si è rivelata funesta, l’«utopia capovolta» del comunismo reale. Un contenitore vuoto, come del resto l’idea della libertà assoluta. Con la differenza che la libertà è sempre in relazione con un altro termine. «Posso dire: io sono libero, ma non: io sono eguale» è la semplice ma fondamentale osservazione di Bobbio.

L’idea dell’eguaglianza implica sempre il rapporto con altri esseri umani. E tuttavia il metodo del pensiero razionale, che nello studio della realtà umana si ferma alla coscienza e al comportamento, pur nell’assoluta onestà d’intenti mostra, anche in questo saggio, un suo limite. E, nell’impossibilità di comporre eguaglianza e diversità degli esseri umani secondo un criterio universale, deve accontentarsi di definire l’eguaglianza come “tendenza” specifica della sinistra. Un limite evidente se si consideri il rapporto uomo-donna, che necessita di comporre i termini uguale-diverso: sul piano razionale un paradosso, una sfida all’aristotelico principio di non contraddizione, a cui Bobbio mostra di sapersi avvicinare per altra via.

L’indagine offre infatti, alla fine del millennio scorso, molte folgoranti premonizioni.

Come quando ad esempio il politologo pone, ad una sinistra operaista sorda, la questione dell’immigrazione. Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, egli avverte, rimane non risolto in tutta la sua gravità.

L’affascinante ideale dell’eguaglianza è stato, egli conclude, la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato. L’umanità, affermava ottimisticamente Bobbio nel 1998, non è giunta alla “fine della storia”, ma è forse soltanto al suo principio. Il processo di emancipazione delle donne era infatti, per lui, la più grande rivoluzione del nostro tempo: «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali della disuguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare, poi nella più grande società civile e politica, è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». Di questa sua lungimiranza, tra le altre la più generosa, noi donne gli siamo particolarmente riconoscenti. (Da Left n. 10, 12 marzo 2010).

Così, dunque, sarei un “cretino cognitivo”…

21 Febbraio 2023 dc:

Così, dunque, sarei un “cretino cognitivo”…

di Jàdawin di Atheia

Da quando è uscito, ho acquistato spesso un certo quotidiano i cui fondatori, a detta loro, se ne erano usciti da Corriere della Sera perché questo sarebbe stato “troppo a destra”. Allora sarà pure stato così, ora sono piuttosto dubbioso su chi, dei due, sia più “a destra”.

Ora lo acquisto di solito il giovedì, per un supllemento che, più passa il tempo, più è peggio.

Comunque: giovedì 16 Febbraio ho fatto il mio acquisto, più per abitudine che per convinzione, e, in una rubrica che mi risulta piuttosto seguita, nella pagina Commenti, si risponde a una lettera.

Un lettore francese parla dell’inno di quella nazione, e scrive “…solo gli ignoranti, ce ne sono parecchi anche qui in Francia, vorrebbero cambiare le parole troppo aggressive della Marsigliese (a parte che si scrive “de La Marsigliese”, nota mia). L’illustre curatore della rubrica, il cui cognome corrisponde a quello di un famoso uccello nero, risponde “…anche in Italia si canta con gioia…l’inno di Mameli, sottratto, grazie all’allora presidente Ciampi, alla retorica del “Dio patria e famiglia” alla quale vorrebbero farlo regredire sia l’estrema destra al governo, sia certi cretini cognitivi di estrema sinistra che, come da voi in Francia, prendono alla lettera le parole degli inni.”

E come si dovrebbero prendere, coglione?

Gli inni, dovrebbe essere ovvio, sono, per loro stessa natura, di parte. Infatti si chiamano così perchè “ineggiano” a qualcosa. E, di solito, sono trionfali, per non dire tronfi, e pomposi, ampollosi, vanagloriosi: nelle musiche e nei testi.

Il dramma è che dovrebbero “rappresentare” l’intera nazione, o un’idea, un’ideale. E invece, se va bene, rappresentano solo una parte. E poi c’è un’altra parte che “si sente” rappresentata ma è talmente ignorante e becera che neanche si è mai soffermata sulle parole dell’inno.

Come musica, l’inno italiano aggiunge alla pretesa pomposità, a cui nemmeno arriva, il ridicolo, che invece si dispiega pienamente nella sua “marcetta” saltellante.

Per non lasciare nulla al caso, dirò che anche “Bandiera Rossa”, inno dei lavoratori in genere e dei comunisti in particolare, è un brutto inno, sia nella musica che nel banale testo.

Detto questo, l’inno di Mameli è pessimo anche nel testo, che richiama i fasti di Roma, del suo “impero”, inneggia alla “patria”, al “sacrificio”, alla “morte”, a Dio, che addirittura avrebbe “creato” direttamente la Vittoria “schiava” di codesta patria (identificata con Roma) che, come sempre, è migliore di tutte le altre, più bella etc.

Ma, si sa, sono un “cretino cognitivo di sinistra” e prendo, cretinamente, alla lettera le parole dell’inno nazionale.

Così le ripropongo qui, così che altri “cretini” cognitivi si aggiungano alla nostra schiera.

Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò

Contro la cultura di massa

03 Ottobre 2022 dc, dalla presentazione su Elèuthera:

Contro la cultura di massa

di Christopher Lasch

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La straordinaria lucidità di Lasch deriva dalla sua capacità di mettere insieme un’assoluta impermeabilità ai miti modernisti e un’indiscussa adesione al punto di vista della gente semplice, ovvero di coloro che per forza di cose hanno l’abitudine di decifrare la società osservandola dall’unica prospettiva appropriata, cioè dal basso verso l’alto.

A cura di Jean-Claude Michéa
Prefazione di Vittorio Giacopini

In anticipo di decenni, Lasch individua chiaramente i guasti che il processo di modernizzazione in atto avrebbe provocato nella società contemporanea: la fine delle culture popolari autonome, rimpiazzate da una cultura di massa tarata sulle esigenze del mercato; la crisi della democrazia, ormai confusa con la libera circolazione delle merci; l’estinzione tanto della comunità solidale quanto di un’idea di individuo del tutto estranea all’atomizzazione perseguita dal neoliberismo.

Ma se questa modernizzazione avviene indubbiamente sotto l’egida del capitalismo finanziario, essa è però avallata da una sinistra, radical e liberal, incapace di interpretare il processo in corso. Forse perché ne condivide, come ben evidenzia Michéa, la medesima visione sociale e politica di stampo illuminista, a cominciare dall’idea di Progresso.

Nulla ha dunque impedito a quel processo di trasformare la cultura in merce e il popolo in una massa anonima composta da Io minimi, consumatori narcisi e anime perse: una deriva largamente prevista, contro la quale Lasch, nel suo modo lucido e appassionato, ci aveva messo in guardia.

A cura di Jean-Claude Michéa
Prefazione di Vittorio Giacopini

In anticipo di decenni, Lasch individua chiaramente i guasti che il processo di modernizzazione in atto avrebbe provocato nella società contemporanea: la fine delle culture popolari autonome, rimpiazzate da una cultura di massa tarata sulle esigenze del mercato; la crisi della democrazia, ormai confusa con la libera circolazione delle merci; l’estinzione tanto della comunità solidale quanto di un’idea di individuo del tutto estranea all’atomizzazione perseguita dal neoliberismo. Ma se questa modernizzazione avviene indubbiamente sotto l’egida del capitalismo finanziario, essa è però avallata da una sinistra, radical e liberal, incapace di interpretare il processo in corso. Forse perché ne condivide, come ben evidenzia Michéa, la medesima visione sociale e politica di stampo illuminista, a cominciare dall’idea di Progresso. Nulla ha dunque impedito a quel processo di trasformare la cultura in merce e il popolo in una massa anonima composta da Io minimi, consumatori narcisi e anime perse: una deriva largamente prevista, contro la quale Lasch, nel suo modo lucido e appassionato, ci aveva messo in guardia.

CChChristopher Laschristopher Lasch