Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

26 Maggio 2023 dc, da Left, articolo del 19 Maggio 2023 dc:

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

di Noemi Ghetti

Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, diceva Bobbio rimane non risolto in tutta la sua gravità. L’affascinante ideale dell’eguaglianza, aggiungeva, è stato la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato

In occasione della nuova edizione di Destra e sinistra  di Norberto Bobbio ripubblichiamo la recensione di questo importante testo firmata da Noemi Ghetti che uscì su Left nel 2010 in occasione del centenario della nascita del filosofo e pensatore politico. Riproposto dall’editore Donzelli con una nuova prefazione di Nadia Urbinati, a trent’anni dalla prima fortunata edizione il testo di Bobbio non cessa di stupire per la persistente attualità della ricerca e per l’ottimismo di fondo che la anima.

Rileggere le cose non fa mai male: si capiscono meglio. Mai come in questi tempi suona opportuno l’invito, rivolto nei giorni scorsi da un professore agli studenti in un’affollata aula universitaria. L’iniziativa dell’editore Donzelli di proporre, nell’ambito delle celebrazioni per il contenario della nascita di Norberto Bobbio, una nuova edizione del saggio Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica con un’introduzione di Nadia Urbinati, appare di attualità e offre un forte stimolo di riflessione, anche alla luce degli avvenimenti che investono la vita pubblica italiana in questi giorni.

Filosofo e politologo, per molti decenni impegnato nell’insegnamento universitario, pubblicò all’età di ottantacinque anni la prima edizione del «libretto» destinato a restare, tra tutti i suoi lavori, il testo più discusso e famoso. Uscito in libreria il 26 febbraio 1994, fu un successo editoriale senza precedenti: diecimila copie vendute in tre giorni, centomila in due mesi, più di trecentomila nel primo anno. E poi, traduzioni in ben 27 lingue straniere.

Il muro era caduto da cinque anni, l’Italia era immersa nella prima stagione di Tangentopoli e assistevamo attoniti la “discesa in campo” del cavaliere che, a fine marzo, conseguì la prima vittoria elettorale. A maggio dello stesso anno Bobbio, che non cessava di stupirsi dell’imprevedibile fortuna del libro, in una lettera a Carmine Donzelli notava con amaro umorismo: «Andiamo avanti con l’Italia berlusconizzata e con questo governo, per il quale ho scritto: Sì, ci ho riflettuto: / avvenga quel che avvenga. / La gente l’ha voluto / ed ora se lo tenga». Parole sulle quali ci tocca interrogarci ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2004.

Ma più impressionante ancora è l’attualità della ricerca che Bobbio svolge sulla dicotomia tra destra e sinistra, «civettando» continuamente, come egli stesso scrive, con la logica. Una logica deduttiva limpida e mai astratta sostiene l’argomentazione, che compone una straordinaria precisione linguistica con una fine capacità di osservazione, anche psicologica. Perché, come scrive a sorpresa il filosofo che fu definito un illuminista del Novecento, «non c’è ideale che non sia acceso da una grande passione. La ragione, o meglio il ragionamento che adduce argomenti pro e contro per giustificare le scelte di ciascuno di fronte agli altri, e prima di tutto verso se stessi, viene dopo. Per questo i grandi ideali resistono al tempo e al mutar delle circostanze, e sono l’uno all’altro, ad onta dei buoni uffici della ragione conciliatrice, irriducibili».

Quando cadde il fascismo, ricorda Bobbio, la destra sembrò essere quasi scomparsa: con la dissoluzione dei regimi comunisti la sinistra scende e sale la destra. E tuttavia i termini antitetici della diade hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. La questione discussa è dunque se la distinzione storica tra destra e sinistra, metafora spaziale che dalla Rivoluzione francese per due secoli è servita a dividere l’universo politico in due parti opposte, nel tempo della cosiddetta crisi delle ideologie abbia ancora ragione di essere utilizzata, nonostante le argomentazioni tese a negarla.

E nonostante la confusione della sinistra con la destra e della destra con la sinistra, verificatasi a più riprese nel Novecento. Come quando agli inizi del secolo intellettuali socialisti si fecero teorici del fascismo. O quando nel ’68 furono adottati a sinistra “maestri del pensiero” come Heidegger, dal passato di chiara compromissione nazista. O quando, fallito quel movimento, intellettuali ex-sessantottini passarono alle file della destra. O da quando, recentemente, politici di destra hanno preso ad appropriarsi di posizioni tradizionalmente proprie della sinistra. Fenomeno che, per alcuni, sarebbe indicativo del fatto che non esistono più differenze che meritino di essere contrassegnate con nomi diversi.

Eguaglianza e libertà: i due termini hanno un senso emotivamente fortissimo, ma un significato descrittivo generico, e un contenuto spesso antitetico, che Bobbio indaga da diverse angolazioni.

La tesi centrale del saggio è che sinistra e destra restano tuttora irriducibili l’una all’altra alla luce dell’opposizione di eguaglianza-diseguaglianza, mentre la coppia oppositiva libertà-autoritarismo serve piuttosto a distinguere i moderati dagli estremisti.

Fascismo e bolscevismo, accomunati da concezioni egualmente «profetiche» della storia, condividono infatti per Bobbio il disprezzo democratico e l’uso della violenza, teorizzato come positivo. La teoria degli “opposti estremismi”, che prima della caduta del comunismo molti intellettuali trovavano inaccettabile, è secondo lui dimostrata in modo inoppugnabile dalla professione autoritaria e antilibertaria di quelle dottrine. Una dialettica democratica, dunque non violenta, tra destra e sinistra, non può dunque che svolgersi tra liberalismo e socialismo. E Bobbio non esita a dichiarare di essersi sempre dimostrato un uomo di sinistra.

Ma che cosa si intende per eguaglianza?

L’eguaglianza radicale di tutti in tutto, che è il nerbo del pensiero degli utopisti, è una formulazione non solo astratta, ma che storicamente si è rivelata funesta, l’«utopia capovolta» del comunismo reale. Un contenitore vuoto, come del resto l’idea della libertà assoluta. Con la differenza che la libertà è sempre in relazione con un altro termine. «Posso dire: io sono libero, ma non: io sono eguale» è la semplice ma fondamentale osservazione di Bobbio.

L’idea dell’eguaglianza implica sempre il rapporto con altri esseri umani. E tuttavia il metodo del pensiero razionale, che nello studio della realtà umana si ferma alla coscienza e al comportamento, pur nell’assoluta onestà d’intenti mostra, anche in questo saggio, un suo limite. E, nell’impossibilità di comporre eguaglianza e diversità degli esseri umani secondo un criterio universale, deve accontentarsi di definire l’eguaglianza come “tendenza” specifica della sinistra. Un limite evidente se si consideri il rapporto uomo-donna, che necessita di comporre i termini uguale-diverso: sul piano razionale un paradosso, una sfida all’aristotelico principio di non contraddizione, a cui Bobbio mostra di sapersi avvicinare per altra via.

L’indagine offre infatti, alla fine del millennio scorso, molte folgoranti premonizioni.

Come quando ad esempio il politologo pone, ad una sinistra operaista sorda, la questione dell’immigrazione. Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, egli avverte, rimane non risolto in tutta la sua gravità.

L’affascinante ideale dell’eguaglianza è stato, egli conclude, la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato. L’umanità, affermava ottimisticamente Bobbio nel 1998, non è giunta alla “fine della storia”, ma è forse soltanto al suo principio. Il processo di emancipazione delle donne era infatti, per lui, la più grande rivoluzione del nostro tempo: «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali della disuguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare, poi nella più grande società civile e politica, è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». Di questa sua lungimiranza, tra le altre la più generosa, noi donne gli siamo particolarmente riconoscenti. (Da Left n. 10, 12 marzo 2010).

Il “virus” della paura

In e-mail il 27 Febbraio 2020 dc:

Il “virus” della paura

di Lucio Garofalo

La paura è, com’è noto, una pulsione ancestrale del genere umano, è un impulso ferino ed irrazionale, preesistente ad ogni stadio della civiltà e a qualsiasi forma di cultura e di raziocinio, è un elemento insito nella stato di natura animale ed è riconducibile all’istinto più antico e primordiale di auto-conservazione della specie.

La paura discende da un sentimento più che naturale, ossia il terrore inconscio ed incontrollabile della morte. Perciò, la paura è una pena che si sconta e si vince vivendo.

Sin dai suoi lontani primordi, l’umanità ha imparato (per una necessità insopprimibile, e non per volontà) a convivere con lo sgomento destato dalla furia naturale e dalle sue terribili manifestazioni più frequenti: tuoni e fulmini, terremoti, eruzioni vulcaniche ed altri cataclismi.

Nel corso dei millenni della preistoria l’uomo ha provato ad esorcizzare la paura, cercando di interpretare i vari fenomeni fisici come eventi soprannaturali di origine divina.

In tal modo sono sorte le antiche religioni mitologiche che affondano le loro radici nei timori più ancestrali e remoti dell’umanità.

Ancor oggi, in un’epoca apparentemente soggiogata dal razionalismo e dal delirio/complesso di onnipotenza tecnicistica ed utilitaristica dell’uomo, la paura è un elemento costante della nostra esistenza. Essa assume innumerevoli manifestazioni, si insinua nei meandri più oscuri e reconditi dell’animo umano, come un “virus” subdolo e letale che genera più danni e iatture di qualsiasi morbo e di ogni epidemia infettiva.

È fuori discussione che la paura sia uno dei tratti più tipici e peculiari della natura animale che è insita nell’uomo, ma non dev’essere un’ossessione che non concede pace o tregua.

Eppure, la realtà che viviamo oggi è sempre più assillata da paure, a cominciare dalla paura di morire fino alla paura di vivere.

Non a caso, il triste e lugubre primato dei suicidi, in modo particolare tra le generazioni più giovani, è conteso dalle nazioni più opulente ed evolute dell’Occidente, il Giappone in testa.

Non a caso, le società vengono governate anche con il ricorso alla paura, e gli Stati più avanzati sul fronte tecnologico si avvalgono anche delle paure per esercitare una forma di controllo sociale sempre più esteso e capillare.

Non a caso, si vincono le elezioni politiche proprio “giocando” la carta dell’idiosincrasia o della fobia isterica verso qualcuno, un nemico, un diverso, da demonizzare ed agitare come uno spauracchio.

In primis, la “paura del comunismo”, che costituisce tuttora un’avversione ed un’inquietudine ossessiva della borghesia. Lo “spettro del comunismo”, dopo il fallimento del “comunismo reale”, dopo la caduta del muro di Berlino ed il tracollo dell’URSS, viene agitato assai più che in passato, proprio allo scopo di conquistare e di preservare il potere e l’ordine costituito.

In passato, in Italia venne importata dall’Estremo Oriente una nuova paura incarnata nel virus dell’Aviaria, meglio nota come “influenza dei polli”, che suscitò timori assai spropositati, infondati ed isterici, prefigurando vari scenari apocalittici addirittura di stragi “pandemiche”, paragonabili alle peggiori pestilenze dei secoli passati.

Invece, come si è verificato in altre occasioni, il panico si rivelò assai più pernicioso della stessa patologia “ornitologica”.

Che polli! I veri “polli” si rivelarono gli utenti e gli spettatori più sciocchi e passivi delle campagne di disinformazione di massa. L’aviaria si dimostrò essere una bufala. Già nel 1998/99 numerosi polli perirono a causa del contagio, ma i mass-media non ne parlarono e tutti continuarono a mangiare polli senza allarmismi di ordine sanitario.

Lo spavento suscitato dall’aviaria in anni successivi, mise in ginocchio un’intera economia agricola, contribuendo ad incrementare i già colossali profitti delle multinazionali farmaceutiche.

La vicenda conferma l’abnorme ruolo dei mass-media, la cui “influenza” è assai più deleteria di ogni virus influenzale.

Aveva pienamente ragione il ministro della propaganda nazista, Goebbels, quando affermava: “Una bugia, ripetuta continuamente, è accettata dalle masse popolari come una verità incontestabile”.

Negli anni ’80, il virus HIV (l’Aids) seminò un’enorme psicosi nel mondo occidentale, ma fu presto scongiurato, tuttavia ancor oggi rappresenta una delle principali malattie infettive in Africa e nel Sud del mondo, un morbo assai più letale della tubercolosi e della malaria, che provocano stermini di massa.

Mentre in Occidente il virus dell’AIDS è oramai debellato grazie ai risultati ottenuti sul versante della ricerca, nei Paesi del Terzo mondo esso uccide più di ogni altra malattia a causa degli esorbitanti costi dei vaccini, imposti dalle multinazionali farmaceutiche, che risultano potenti e totalitarie quanto lo sono le compagnie petrolifere e quelle legate all’industria bellica, per cui si configurano come i padroni assoluti ed incontrastati del nostro pianeta.

Nei secoli bui della storia, il terrore provocato dalla peste bubbonica causava più danni del morbo stesso. Ad esempio, nell’Europa medievale la paura degli untori era assai più nociva e deleteria della stessa peste che sterminava milioni di vite umane. Le testimonianze che ci hanno lasciato il Boccaccio ed il Manzoni nelle loro opere (Decameron e Storia della colonna infame) ci trasmettono degli insegnamenti assai preziosi. Ma, come spesso accade, la storia insegna, ma non ha scolari (cit. Antonio Gramsci).

Le vicende relative al nuovo virus, il Covid-19, meglio conosciuto come il Coronavirus, temo che confermino il fatto che la paura è assai più subdola e più perniciosa di qualsiasi morbo epidemico eppure, nel contempo, può rivelarsi lucrosa per chi, in modo cinico e spregiudicato, riesca a trarne profitto.

L’isteria collettiva generata dal nuovo virus, assai meno nocivo dell’influenza stagionale, è un fenomeno di proporzioni immani e spaventose.

La mia ipotesi, dettata dalle esperienze storiche, è che le attuali campagne mediatiche di allarmismo e di terrorismo psicologico di massa serviranno a giustificare e ad incentivare la corsa futura all’acquisto di milioni di dosi di vaccino ad un titolo preventivo e cautelativo, che farà la fortuna dei principali colossi farmaceutici multinazionali.

Riflessioni a briglia sciolta

In e-mail il 14 Luglio 2019 dc:

Riflessioni a briglia sciolta

di Lucio Garofalo

Riconosco di essere una persona caratterialmente scettica e diffidente, persino malpensante. Ideologicamente sono un ateo marxista. Sono stato ripetutamente  disilluso dalla vita, amareggiato da esperienze negative, tradito dal comportamento spregiudicato di numerosi pseudo compagni e dai falsi partiti politici di “sinistra”.

Francamente sono molto arrabbiato contro i falsi moralisti e i falsi compagni, i parolai e i “pifferai magici” della sinistra borghese, affetta dal morbo del “cretinismo parlamentare”. L’esperienza storica ha dimostrato che costoro aspirano solo ad adagiare il proprio deretano sopra un comodo ed ambito scranno all’interno delle istituzioni borghesi per ricavarne potere, gloria, ricchezza, privilegi e immunità personali, fregandosene delle sofferenze e dei bisogni della gente, delle istanze dei loro elettori.

La mia posizione di critica netta e intransigente mi ha procurato problemi di solitudine politica, condannandomi ad una sorta di ostracismo e di esilio morale, di isolamento nel territorio dove abito. Ma tant’è. Credo di essere sufficientemente forte e vaccinato verso tale situazione, abbastanza immune rispetto alla violenza morale ed esistenziale esercitata dai conformismi di massa, compresi quelli imposti dalla “sinistra”, essendo abituato al ruolo, senza dubbio scomodo, di bastian contrario, di ribelle anticonformista e di “cane sciolto”, per cui la condizione di marginalità non mi turba affatto.

Ultimamente ho cercato di uscire dall’isolamento politico provando ad infrangere il clima di chiusura ed ostilità creato nei miei confronti dai vari “forchettoni”, “rossi”, “bianchi” o “neri” che siano. I quali dettano legge soprattutto in alcune realtà di provincia come l’Irpinia. Una terra costretta ad un livello di sudditanza semifeudale, le cui popolazioni sono soggette a ricatti e condizionamenti perpetui e ad un mostruoso giogo clientelare. Non dobbiamo dimenticare che il territorio dove abito rappresenta da lustri un feudo incontrastato di Ciriaco De Mita e dei suoi galoppini. L’Irpinia è da sempre una roccaforte elettorale e clientelare della peggiore Democrazia cristiana.

Tuttavia, non mi lascio mai sopraffare dallo sconforto o, peggio, dalla depressione, né da rancori e risentimenti, ma reagisco sempre con rabbia e indignazione, riscoprendo “prodigiosamente” una spinta motivazionale che mi restituisce un fervido entusiasmo e una volontà combattiva, un desiderio tenace ed impetuoso di lotta e di riscatto. Forse perché sono uno spirito libero e ribelle, consapevole della lezione della storia. La quale insegna che è addirittura possibile, quindi concepibile, la realizzazione dell’utopia.

Si pensi che fino al XVIII secolo, ovvero il “secolo dei lumi”, la schiavitù del lavoro, la servitù della gleba e la tirannia aristocratico-feudale erano viste quali elementi ineluttabili e immodificabili, al limite come fenomeni conseguenti a leggi naturali, come una realtà che era sempre esistita e sarebbe durata in eterno, e non come dati storici transeunti, soggetti a trasformazioni rivoluzionarie determinate dalle forze produttive e sociali in movimento e in lotta sia per necessità oggettive che per volontà soggettive.

Eppure, alla fine del 1700 la rivoluzione francese e il radicalismo giacobino, mobilitando le masse popolari e contadine, spazzarono via il feudalesimo e l’assolutismo monarchico con tutti i suoi assurdi privilegi aristocratici, il servaggio, l’oscurantismo religioso e tutte le anticaglie medioevali. Parimenti, fino ad Abramo Lincoln nessuno avrebbe mai immaginato che la schiavitù, ritenuta per secoli come una situazione naturale e ineluttabile, una condizione ineliminabile e permanente dell’umanità, potesse un giorno essere abolita, almeno giuridicamente, sebbene non ancora soppressa sul piano materiale. E lo stesso si potrebbe dire per un fenomeno quale il cannibalismo, un’abitudine alimentare millenaria dei popoli primitivi, che oggi farebbe inorridire chiunque. E così per altre pratiche consuetudinarie, usanze e costumi del genere umano.

Pertanto, perché ritenere già persa in partenza la lotta politica a tutela dei lavoratori, in difesa dei salari più bassi e più deboli, una battaglia che si attesta oltretutto su posizioni difensiviste di salvaguardia e di retroguardia? Nel senso che non si aspira a fare la rivoluzione, a prendere il potere conquistando il “Palazzo d’Inverno”, ma si tratta di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica promuovendo una presa di coscienza sulle tematiche che investono direttamente la vita quotidiana e la condizione dei lavoratori.

Non vorrei allontanarmi dal tema in questione. Ricordo che una delle radici ideologiche dell’opportunismo risiede precisamente nell’elettoralismo borghese. Personalmente sostengo con estrema durezza la critica contro l’opportunismo in quanto costituisce il male storico del movimento comunista internazionale. Non c’è bisogno di scomodare Lenin o Rosa Luxemburg per dimostrare la validità di tale tesi, basta guardarsi attorno.

L’interesse e il calcolo opportunistico, l’autoritarismo e il verticismo burocratico, l’arrivismo, l’ambizione e il carrierismo individuale, le invidie e i personalismi eccessivi, questi ed altri atteggiamenti piccolo-borghesi, purtroppo assai diffusi in determinati settori della cosiddetta “sinistra radicale” (e non solo negli ambienti della sinistra borghese e riformista), costituiscono un male ben peggiore dell’isolamento personale.

La principale preoccupazione per un’autentica forza antagonista e di classe, di ispirazione comunista e anticapitalista, non può essere la “questione elettorale”. Non credo che la priorità politica di una soggettività comunista, specie in un momento di crisi epocale del sistema sociale vigente, una crisi segnata da crescenti disordini e conflitti (si pensi al caso emblematico della Grecia) che minano le basi stesse dell’assetto capitalistico globale, possa essere il tema della rappresentanza elettorale.

L’esperienza storica dovrebbe insegnarci che il pericolo per un’autentica sinistra comunista e di classe è costituito da ciò che si chiamava polemicamente la “febbre elettoralistica”, cioè la frenetica ricerca del successo elettorale, la conquista a tutti i costi del potere o di una quota di rappresentanza nell’attuale ordinamento statale borghese. E’ esattamente questa impostazione burocratica ed elettoralistica che rischia di aprire la strada all’affermazione di tendenze opportunistiche e individualistiche piccolo-borghesi, all’emergere di atteggiamenti di corruzione e di sfrenate ambizioni di carriera. Come, d’altronde, dovrebbe insegnarci l’esperienza storica del PRC.

In passato la base elettorale del PRC e delle altre formazioni della “sinistra radicale” era costituita da un mini-blocco sociale composto in gran parte da operai e giovani lavoratori precari, eco-pacifisti, attivisti no-global, ecc. I quali hanno giustamente reso pan per focaccia, sfruttando l’unica arma a propria disposizione, vale a dire l’arma del voto, per espellerli dalle istituzioni parlamentari a cui si erano tanto affezionati, infliggendo loro la punizione che meritavano e che gli ha arrecato dolore e frustrazione, procurandogli una logorante astinenza dall’esercizio del potere: “il potere logora chi non ce l’ha”, come afferma un vecchio ed astuto volpone democristiano che ha maturato una lunga esperienza ai massimi vertici del potere politico in Italia. Fare clic per cancellare la replica.

Pertanto, bisogna prendere atto della verità storica a 360 gradi. Negli ultimi anni il PRC era diventato un vero e proprio “covo” di opportunisti e forchettoni, burocrati e funzionari di partito ambiziosi ed arrivisti. Dunque, solo dopo aver fatto chiarezza fino in fondo e dopo aver svolto un’igienica e necessaria opera di autocritica, solo a quel punto ritengo che si possa avviare in maniera legittima e credibile un processo di ricomposizione di un’autentica e moderna sinistra anticapitalista e di classe in Italia.

Per quanto concerne la questione dell’isolamento, a me pare che questo costituisca un problema della politica in generale. Tutti i partiti politici soffrono il distacco e la disaffezione della gente, ma in fondo è sempre stato così, almeno in Italia. Il popolo italiano è storicamente un popolo ignorante e qualunquista, privo di senso civico e di moralità pubblica. Lo stesso Pier Paolo Pasolini scriveva nel lontano 1973: “La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”. Più chiaro di così.

In fondo, anche Guicciardini lo aveva compreso diversi secoli fa: il popolo italiano bada solo al proprio “particulare”, persegue solo i propri affari personali senza capire che i propri interessi possono coincidere e identificarsi con quelli altrui. Ma anche ai più grandi marxisti rivoluzionari è capitato talvolta di essere isolati. Rosa Luxemburg, ad esempio, è sempre stata un’esponente isolata e minoritaria all’interno del movimento operaio e socialdemocratico internazionale, e lo stesso Lenin, prima di prendere il potere in Russia, ha sofferto una condizione di marginalità e di solitudine politica.

L’oikocrazia come “soluzione”

Da MicroMega 1 Febbraio 2019 dc:

L’oikocrazia come “soluzione” (totalitaria) al problema del rapporto tra élites e masse

di Fabio Armao

Nel mese di gennaio si è svolto, sulle pagine di la Repubblica, un ampio e ricco dibattito sul ruolo delle élites (e sul loro sostanziale fallimento) avviato da un articolo di Alessandro Baricco. Tutti gli interventi, tuttavia, hanno di fatto riproposto l’immagine di un mondo diviso in due, tra élites e masse, rimanendo ancorati a quelle categorie novecentesche che lo stesso Baricco, nel libro The Game, dimostra essere state superate dalla rivoluzione digitale.
Il problema, potremmo dire in una battuta, è che oggi non ci sono più le élites tradizionali, ma non ci sono più neanche le masse, e questo perché la Rete ha colonizzato anche la società reale oltre che il mondo virtuale. Entrambi questi attori sono sostituiti da network sociali sempre più complessi i cui “vertici” (come ci insegna la teoria dei grafi) sono rappresentati da cricche: sottoinsiemi di individui che si conoscono tra di loro. In altre parole, da clan. Le élites stavano alle classi, come i clan stanno alla società globale.

 

Come si è arrivati a questa situazione? Il passaggio di millennio, dopo la caduta dei regimi comunisti e la fine della Guerra fredda, ha visto innescarsi un processo di ristrutturazione globale della società che sta investendo ogni dimensione della vita quotidiana degli individui e le istituzioni cui essi hanno finora affidato l’organizzazione dei propri interessi e della propria stessa sopravvivenza.

La politica dei partiti di massa, della lotta di classe e della difesa degli interessi collettivi ha lasciato il posto a una congerie molto più ricca e diversificata di attori, capaci di attingere, a seconda delle necessità, alle risorse tipiche delle diverse sfere sociali: politica, economica e civile, producendo di volta in volta delle proprie, originali, configurazioni di potere. Lo Stato moderno, che ha incarnato negli ultimi cinque secoli l’istituzione di riferimento delle dinamiche sociali, ancora esiste. Il network che aveva costruito e implementato nel tempo, quella comunità internazionale che, nel corso del Novecento, era arrivata infine a comprendere al proprio interno tutte le terre emerse, è ancora attivo. Ma non è l’unico network, né, oggi, necessariamente il più rilevante.

I nuovi protagonisti di questa grande trasformazione sono gruppi capaci di attingere a mix originali di risorse della più diversa natura proprio grazie alla riscoperta dei vantaggi dei legami di tipo clanico e che, in breve tempo, si dimostrano in grado di coniugare locale e globale meglio di quanto non riescano a fare le vecchie istituzioni statali, a un costo più basso e senza i vincoli imposti dal rispetto delle regole democratiche.

Un esempio ovvio è la criminalità organizzata nelle sue diverse manifestazioni: dalla mafia, al terrorismo, ai signori della guerra. Ma la logica del clan è tornata prepotentemente alla ribalta in politica, basti pensare all’amministrazione “familistica” di Donald Trump negli Usa o di Bolsonaro in Brasile, o ai cerchi e i gigli magici di italiana memoria (per non parlare delle web tribes (Nota mia: Tribù del Web) delle attuali forze di governo). E caratterizza ormai anche le dinamiche apparentemente algide delle élites finanziarie e dei Ceo (Nota mia: sta per Chief Executive Officer, letteralmente Ufficiale Capo Esecutivo, in Italia si dice Amministratore Delegato!) delle grandi corporation (Nota mia: corporazioni) multinazionali. Dall’età dei diritti individuali si è così transitati, senza alcuna soluzione di continuità e senza significative opposizioni, in un’era dominata dalla società globale dei clan che, per esser chiari, costituisce la morte della democrazia novecentesca.

Questa proliferazione dei clan si concretizza in una forma di governo che potremmo definire, con un neologismo, oikocrazia, termine che deriva dall’unione del termine greco kratos, potere, con oikos, che identifica la casa, ma anche la famiglia, il clan (e, per questo, costituisce la radice anche della parola economia). L’oikocrazia, quindi, vuole definire una forma politica caratterizzata da due principali elementi: la riscoperta del clan come struttura di riferimento del sistema sociale e la prevalenza degli interessi economici, privati, su quelli politici, pubblici.

In estrema sintesi, l’oikocrazia rappresenta l’inveramento del World Wide Web, ha i propri programmatori e server in Occidente e, aspetto curioso, pur avendo cominciato a manifestarsi già a partire dalla seconda metà del Novecento, ha conosciuto un’espansione senza precedenti proprio dopo il 1989, considerato anche l’anno di nascita del web su Internet. In un gioco a parti invertite, adesso è la società umana che si adegua ai progressi tecnologici, sforzandosi di emularne la ricchezza di forme e di strutture, e dando vita a modelli di network sociali sempre più complessi.

L’oikocrazia arriva a proporsi come un modello universale che soprassiede alle tradizionali declinazioni della politica, dalla democrazia all’autoritarismo – regimi dei quali, semmai, tenderà a emulare le forme, riducendoli a epifenomeni (prenderne atto, tra l’altro, “risolve” l’attuale dibattito sul carattere fascista o meno di alcuni governi cosiddetti sovranisti).

Ed ha due principali corollari: 1) riporta le città al centro dell’universo politico, incrementando un processo che era già stato avviato dalla globalizzazione, trasformandole con sempre maggior frequenza in luoghi di esercizio del potere coercitivo, oltre che di riproduzione continua e inesauribile dell’accumulazione originaria delle risorse; 2) propone una ridefinizione continua degli spazi di legalità che mette di fatto in discussione la certezza stessa del diritto, come dimostra la proliferazione senza precedenti dei delitti dei potenti (corruzione, clientelismo, ecc.) che, non a caso, coinvolgono in maniera sempre più diretta gruppi di criminalità organizzata, avvantaggiati dal fatto di poter fare ricorso alla minaccia o all’uso diretto della violenza.

Visto da questa prospettiva, il “nuovo disordine mondiale” appare più comprensibile, ma questo non può essere di alcuna consolazione. L’oikocrazia, infatti, non segna solo la fine dell’età dei diritti individuali e il conseguente ingresso in un’era nella quale l’autonomia e la libertà del singolo vengono subordinate agli interessi e alla volontà della “famiglia” di riferimento. La logica che ne governa la diffusione nel World Wide Web reale prefigura la nascita di una nuova forma di totalitarismo che potremmo definire “neoliberale”.

Del vecchio progenitore statualistico, che si era incarnato nel nazifascismo e nel comunismo, l’odierno Behemoth – per riprendere il titolo dell’opera di Franz Neumann sul nazismo[1] – sembra essere una riproduzione in millesimo (e, quindi, più difficile da identificare come tale), perché si manifesta a livello micro, in una dimensione locale, in una molteplicità di luoghi differenti allo stesso tempo. Eppure mantiene intatta la propria essenza totalitaria basata su una particolare organizzazione monistica e autoritaria, che sta riducendo ogni dibattito (e la cultura stessa) a mera propaganda e riscopre la violenza come strumento quotidiano e pervasivo di risoluzione dei conflitti.

Il mostro odierno sgorga dal basso, dal territorio, generato da una logica di mercato, da una domanda ormai fuori controllo di denaro, indispensabile alla sopravvivenza stessa del capitalismo finanziario, per poi evolversi attraverso la costruzione di reti transnazionali di oikocrazie che, diversamente dal passato, non hanno più bisogno di complessi apparati istituzionali di propaganda e di sofisticate ideologie centrate sulla supremazia di una nazione, una razza o una particolare dottrina politica, perché sanno avvantaggiarsi del fatto che i moderni social media consentono a chiunque di raggiungere e mobilitare con facilità “porzioni di masse” – si tratti di un politico populista, di un leader di un gruppo terroristico o di un boss del narcotraffico.

A questi stessi attori si deve poi anche l’evoluzione della violenza totalitaria, che non ha bisogno di assumere la forma dello scontro militare tra forze armate tradizionali, perché si accontenta di mantenere le popolazioni in una condizione guerra civile globale permanente: conflitti interni allo Stato, affidate a piccole unità di “soldati” dotati di armi “leggere”, che si trasformano nella condizione quotidiana di un numero crescente di ignari cittadini, e destinati a riverberare comunque a livello internazionale (basti pensare al fenomeno dei migranti in fuga dalla guerra)[2].

Verrebbe quasi da pensare che, prima di cadere sconfitti, i vecchi totalitarismi novecenteschi abbiano fatto in tempo a disseminare dei geni che, con il tempo, si sono riprodotti in nuove creature mischiandosi con altri fattori “ereditari” storico-culturali specifici del luogo.

Ed è come se alcuni di questi geni si fossero inoculati persino all’interno delle trionfanti democrazie, modificandone o sovvertendone, persino, la natura ma permettendo loro, al contempo, di celare tale mutazione continuando a mostrare all’esterno la propria maschera democratica. Il risultato è che, quasi senza accorgercene, abbiamo imboccato una fase di modernizzazione regressiva che – andando oltre la società del rischio prefigurata da Ulrick Beck[3] – sta già producendo una società autoimmune, incapace persino di riconoscere i propri agenti patogeni e, di conseguenza, destinata ad alimentare i propri mali, invece che a debellarli.

NOTE

[1] F. Neumann, 1977 [1942], Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Milano: Feltrinelli.

[2] F. Armao, 2015, Inside War. Understanding the Evolution of Organised Violence in the Global Era. Warsaw/Berlin: De Gruyter.

[3] U. Beck, 2000, La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci

La mitologia bolscevica

Inoltrata in e-mail il 7 Agosto 2018 dc:

La mitologia bolscevica

LA MITOLOGIA BOLSCEVICA DALL’ASSALTO AL CIELO ALLA DISCESA AGLI INFERI

A PROPOSITO DI UN BUON LIBRO: CHRISTIAN SALMON, Il progetto Blumkin, Laterza, Bari-Roma, 2018, pp. 263. € 18.

Era un cekista e un poeta, un mistico e un assassino, fu amico dei più grandi poeti e dei boia della Lubjanka (p. 256).

NEL CENTENARIO DELLA RIVOLUZIONE RUSSA, o meglio della sua versione bolscevizzata, si è detto e scritto di tutto e di più. Come ho avuto occasione di osservare.

In un panorama letterario spesso banalotto, il libro di Christian Salmon offre spunti di riflessione inediti, e spesso anomali, sulle suggestioni, e mitologie, che suscitarono la rivoluzione e che essa, poi, suscito, pervadendo tutto il Novecento, ai quattro angoli della Terra. Un aspetto certamente indagato (Nota 1) ma che lascia molti lati in ombra. Mi riferisco a quelle pulsioni ideologiche (o psichiche) che «pesano come un incubo sul cervello dei viventi», per dirla con Marx e che, all’improvviso, come un fiume carsico, emergono alla superficie. Si scatenano allora forze e passioni imprevedibili, in cui politica e religione si confondono, generando comportamenti apparentemente inconsulti, irrazionali, fanatici … l’«eclissi della ragione», secondo Max Horkheimer.

GUERRA, FAME, STRAGI … ECLISSI DELLA RAGIONE

A mio parere, l’eclissi della ragione ebbe il suo esordio negli orrori della guerra mondiale, orrori senza fine, mai conosciuti prima dall’umanità e che, in Russia, in quegli anni, toccarono il culmine, preparando il terreno a successivi orrori. Anche se i bolscevichi furono responsabili di grandi orrori, essi vi furono trascinati per i capelli. Il colpo di Stato bolscevico del 25 ottobre (7 novembre) 1917 provocò uno spargimento di sangue a ben vedere limitato, considerando il clima infuocato di tensioni e di scontri. La svolta cruenta avvenne con l’occupazione di Ucraina, Bielorussia e di vaste aree della Russia occidentale da parte della Germania, nonché di zone più limitate da parte di Austria-Ungheria e Impero e Ottomano, durante e in seguito le trattative di pace di Brest-Litovsk (inizio 1918).

Con il crollo degli Imperi centrali e la conseguente evacuazione dei loro eserciti dilagarono le armate bianche zariste, sostenute dall’Intesa che, già prima, si era preparata all’intervento. In quelle circostanze caotiche crebbe il marasma sociale, accompagnato da guerre, stragi, carestie, malattie – i quattro cavalieri dell’Apocalisse –, esacerbate dalla sfacciata opulenza di pochi che strideva con la miseria di molti. I bolscevichi, per farvi fronte, dovettero opporre violenza a violenza. Non c’erano alternative, caso mai si potrebbe ragionare come sarebbe stato meglio gestire la violenza. Senza fare chiacchiere accademiche.

Nota 1 Ne accenno in La rivoluzione russa. Cent’anni di equivoci. Marx, i marxisti e i costruttori del socialismo, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, p. 7. Oltre a questo aspetto, nel libro affronto altre questioni, congruenti con le tematiche proposte da Salmon.

A questo proposito, ritengo assai peregrina la tesi avanzata da Francesco Dei, nel suo recente e poderoso studio (La rivoluzione sotto assedio. vol. I, Storia militare della guerra civile russa 1917-1918, Vol. II, Storia militare della guerra civile russa 1919-1922, Mimeis, Milano, 2018). Dei sostiene che la propaganda bolscevica ingiganti, pro domo sua, l’entità dell’intervento estero a favore delle armate bianche, che giustificherebbe l’estrema violenza repressiva dell’Armata Rossa. Non per nulla, Dei parla di guerra civile, mentre in realtà ci fu una vera e propria aggressione contro la Russia sovietica, soprattutto da parte di Inghilterra e Francia, nonché Polonia, con, sullo sfondo, Giappone e Stati Uniti. Oltre a queste evidenti circostanze eccezionali, l’orrore bolscevico fu attizzato anche dalla presunzione, conscia o inconscia, di redimere il mondo. Anche col sangue.

ASSALTO AL CIELO E DISCESA AGLI INFERI

L’orrore bolscevico (il terrore rosso) è noto fin dalle origini, e non per merito di studiosi amanti dello status quo (per non dire reazionari), di ieri e di oggi. Anzi, l’orrore è noto perché fu esaltato, fin dall’inizio, dallo stesso regime bolscevico. Al Terzo congresso panrusso dei soviet (10 gennaio 1918), il marinaio Anatolij Zelez- njakov dichiarò:

«Siamo pronti a fucilare non pochi, ma centinaia e migliaia, se sarà necessario un milione: sì, un milione» (Nota 2).

Nota 2 Ettore Cinnella, La Russia verso l’abisso. La storia della rivoluzione che sconvolse il mondo, Della Porta Editori, Pisa-Cagliari, 2017 (nuova edizione), p. 199.

La riflessione dovrebbe volgersi all’atmosfera carica di esaltazione palingenetica, in cui apparvero scritti come La scheggia di Vladimir Zazubrin (Nota 3). Un «libro terribile», secondo Lenin. Per tentare di capire l’origine di questa caduta agli inferi, mi sembra utile porre attenzione a un’affermazione di Salmon:

« […] la gloriosa rivoluzione d’Ottobre, fu oggetto di tre narrazioni successive: all’inizio fu l’epopea collettiva e anonima, quella degli operai e dei contadini, poi l’opera romanzesca dei teorici e degli strateghi bolscevichi, infine la prova del genio di uno solo. Epopea, romanzo, agiografia, sono i tre generi letterari ai quali la storiografia sovietica si rifà in successione. Ma la transizione dall’uno all’altro non è così immediata» (p. 64).

Nota 3 Vladimir Zazubrin, La scheggia. Racconto su lei e ancora su lei, A cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano, 1990. Scritto nel 1923, Lenin lo giudicò un «libro terribile». Nel 1992, è stato girato il film Il cekista, con la regia di Aleksandr Rogozhkin. Argomento, le esecuzioni sommarie. La Lei del titolo è la rivoluzione. L’asettica descrizione degli orrori si inscrive nel medesimo filone letterario, sorto con la guerra, in cui rientra Nelle tempeste d’acciaio, di Ernst Jünger.

 

È proprio la transizione, da un genere letterario all’altro, l’argomento implicitamente affrontato da Salmon. Il filo conduttore della sua ricerca sono le vicende di Jakov Blumkin che, pur abbracciando solo un quindicennio, o poco piu, (1914-1929), offrono una sintesi quanto mai emblematica sulla nascente, e futura, civiltà bolscevica. Laddove mi è possibile, evito fermamente di dire sovietica. Così come evito di dire stalinista. Attributi entrambi fonte di equivoci.

ANGELI E DEMONI DI UNA TRAGICA MITOLOGIA

Jakov Blumkin nacque a Odessa alle soglie del Novecento, in una famiglia ebrea di bassa condizione sociale. Come lo era la maggior parte di loro. Una situazione che contribuì a fargli abbracciare scelte politiche radicali, eredi della tradizione populista e anarchica, con corollario di espropri e attentati. La guerra esacerbò i suoi orientamenti eversivi. Nel 1917, l’emergenza rivoluzionaria lo vide aderire al Partito Socialista Rivoluzionario, schierandosi subito con la tendenza di sinistra (Esse-Erre di sinistra). Nell’ottobre, i socialisti rivoluzionari di sinistra sostennero i bolscevichi e fecero parte della coalizione governativa sovietica, contribuendo in primis alla legge agraria (la terra ai contadini).

I socialisti rivoluzionari di sinistra condivisero cruciali responsabilità governative, come l’adesione di molti di loro – tra cui Blumkin – alla nascente Ceka (il servizio di sicurezza sorto il 20 dicembre 1917). Ciò nonostante, permanevano molte divergenze che esplosero riguardo alla pace di Brest-Litovsk. Mal digerita anche da molti esponenti bolscevichi. In quel clima di tensioni, maturò l’attentato all’ambasciatore tedesco Wilhelm Mirbach (6 luglio 1918), di cui Blumkin fu l’esecutore, favorito dal suo ruolo di cekista.

Formalmente, il governo sovietico condannò l’omicidio, costringendo l’autore a darsi alla macchia. L’imminente sconfitta degli Imperi Centrali contribuì tuttavia a smorzarne le implicazioni politiche. Tanto è vero che, nella primavera del 1919, egli fu reintegrato, «con tutti gli onori», nella Ceka, anche grazie alla sua dichiarazione di fede bolscevica. Nel frattempo, dilagava la guerra civile. Blumkin vi partecipo, svolgendo rischiose missioni. Fu inoltre a diretto contato con Trotsky, col quale strinse un solido rapporto. Che, nel 1929, gli costò la fucilazione.

In quegli anni, la sua vita si fuse con lo spirito dell’epoca. Sotto tutti gli aspetti. Uno spirito pervaso da un’estrema presunzione di onnipotenza (ὕβρις, dicevano i greci), in tutto, nelle arti (il Proletkul’t ispirato da Aleksandr Bogdanov in primis) come nelle scienze (la disastrosa agrobiologia di Trofim Lysenko). Passando attraverso i chiari di luna di una politica sempre più succuba della ragion di Stato furono tentate sperimentazioni apparentemente ardite, ma il più delle volte demenziali, culminate in quella disastrosa ingegneria sociale che, per settant’anni, segnò l’esistenza dei «sovietici».

Ho osservato che Lenin e il bolscevismo rappresentano la sintesi teorica (alla «russa») tra il volontarismo eversivo di Bakunin e l’oggettivismo evoluzionista di Kautsky, apparentemente divergenti, ma entrambi fondati sulla medesima fede nelle sorti progressive dell’umanita, protese verso uno sviluppo senza limiti.

 

Per inciso, il progressismo è una concezione insita nella civiltà occidentale, madre del modo di produzione capitalistico, da cui i bolscevichi mai si affrancarono. Anzi. Essi pretesero di innestare il capitalismo – con la pretesa di controllarlo politicamente – in un ambiente assolutamente refrattario, col risultato di riprodurne una copia mostruosa.

Dalle premesse di questo nefasto esito, si dovrebbe iniziare, quando si parla della rivoluzione russa. Altrimenti si cade nelle spire di una moralistica politologia, più o meno reazionaria.

IL PATHOS DEL RIVOLUZIONARIO DI PROFESSIONE

Seguendo l’accurata ricostruzione di Salomon, vediamo Blumkin vivere il pathos di un eroe romantico: egli fu «esportatore» della rivoluzione e visionario «poeta», come molti «rivoluzionari di professione» del Novecento. Quasi tutti fans di Josif Stalin e con una forte propensione al martirio.

Esportando la rivoluzione nell’Oriente, «rivoluzionari di professione» come Blumkin ne rigenerarono il già dilagante fascino, ora non più in chiave colonialista (alla Kipling), bensì in chiave eversiva, catartica, con afflati mistici, sulla scia del colonnello Lawrence e del professor Guénon. In quelle circostanze, ci furono ambigue concessioni alla parapsicologia, sempre sulla spinta di un incontrollabile delirio di onnipotenza.

Sono questi i risvolti di un bolscevismo poco o per nulla conosciuto, ancor meno di quello scientismo mistico che ebbe il suo antesignano nel medico bolscevico Aleksandr Bogdanov (lo stesso del Proletkul’t). Un tema che Salmon sfiora, parlando del Pantheon dei Cervelli di Mosca, con una grottesca ironia, degna di Michail Bul- gakov.

IN LUCE GLI INTELLETTUALI, IN OMBRA I PROLETARI

Seppur a volo d’uccello, ho ripercorso i molteplici aspetti che Salmon illumina. Devo però concludere che egli si sofferma essenzialmente sull’«opera romanzesca dei teorici e degli strateghi bolscevichi». Per quanto ben sviluppato, il libro lascia quindi in ombra «l’epopea collettiva e anonima, quella degli operai e dei contadini». Coloro che la rivoluzione la fecero. E la difesero, tentando di portarla alle sue conseguenze estreme. E auspicabili. Costoro, la makhnovcina, Kronstadt … nonché molti altri fatti e molte altre voci, fuori dai convenzionali percorsi politici, restano avvolti nelle nebbie di una storiografia conformista che sarebbe ora di spazzare via. Dopo cent’anni.

DINO ERBA, MILANO, 3 agosto 2018.

Blumkin fu il primo bolscevico fucilato perché simpatizzante dell’opposizione. Non fu mai riabilitato.