Cinema


Cinema

Amo il cinema, e il discorso fatto per la cultura vale anche per questa forma d’arte.

Per cui, viva il cinema, di tutti i generi, ma possibilmente niente HORROR.

Anche in questo caso scriverò ogni tanto qualcosa sull’argomento, con la consueta pigrizia.

Come sempre: senza rincorrere l’attualità, proporrò alcune recensioni dei film che mi sono piaciuti. Verrà indicato solo il titolo, il regista, l’anno di produzione ma niente nomi di tecnici della fotografia, della sceneggiatura o quant’altro. Sono uno spettatore, non un critico,  un fanatico. Niente notizie riguardo a premi, Oscar, rassegne, “candidato a nn premi Oscar”, attente disamine di tutte le opere precedenti del regista e con chi ha collaborato etc.

(Ultimo aggiornamento: 5 Dicembre 2023 dc)


Dal sito http://www.ilsussidiario.net/ , articolo di redazione del 28 Novembre 2011 dc:

Ken Russell/ La morte del regista de “I diavoli” e di “Tommy”

84 anni di età è morto il controverso regista inglese Ken Russell.

Uno degli autori di cinema più trasgressivi e complessi, Russell era stato sposato quattro volte e aveva avuto cinque figli. Famoso fu lo scandalo che circondò una delle sue prime opere, il film “I diavoli” con l’attrice Vanessa Redgrave, film che venne accusato di blasfemia tanto che all’epoca, il 1971, il critico cinematografico di Avvenire, il poeta Giovanni Raboni, venne licenziato per aver difeso l’opera nella sua recensione.

Ovviamente gli appassionati di musica rock ricordano Ken Russell soprattutto per la brillante e visionaria trasposizione su schermo del disco del gruppo The Who, “Tommy”. Alla musica Russell dedicò diversi lavori, specie la classica, con film biografici sulle vite di Ciajkovski, Mahler e Liszt.

La sua vena trasgressiva e polemica tornò alla ribalta con il crudo “Whore” nel 1991, realistica storia di una prostituta. Ken Russell era nato nel 1925 a Southampton con il nome di Henry Kenneth Alfred Russell. Esordisce nel cinema solo alla fine degli anni Sessanta – anche se aveva diretto alcuni cortometraggi e documentari sin dalla fine degli anni Cinquanta -, dopo aver lavorato come fotografo, ballerino e soldato.  Il suo esordio ufficiale come regista è appunto del 1969 con il film “Donne in amore”, da subito opera controversa anche per la scena dei due uomini che lottano fra di loro completamente nudi. Nel film recitano attori di vaglia come D.H. Lawrence, Glenda Jackson e Oliver Reed. Un film che si impone subito con numerose candidature agli Oscar, anche come miglior regia, ma ne vince una sola per la miglior attrice, Glenda Jackson.

Tra le sue tante opere si ricorda anche il film “Valentino” del 1977 interpretato dal ballerino Rudolf Nureyev dedicato al famoso attore del cinema muto. E ancora: “Stati di allucinazione” (1980), “China Blue” (1984), “Gothic” (1986), “L’ultima Salomé” (1988). Negli anni Novanta aveva diradato la sua attività, diventando sempre più nome cult del cinema mondiale. Definito regista barocco, visionario, psichedelico, aveva sempre mostrato un certo fascino per il male nelle sue varie coniugazioni.

Dal sito http://www.giornalettismo.com (aggiunte e correzioni in rosso e modifiche di iniziali, titoli e caratteri sono mie)

Addio a Ken Russell, il regista che sessualizzò la crocifissione

del 28 Novembre 2011 dc

L’autore di Donne in amore e China Blue ci lascia ad 84 anni.

Ken Russell

Ken Russell, il regista che ha vinto il premio Oscar con Donne in amore è morto ieri all’età di 84 anni. L’uomo sarebbe morto nel sonno, almeno secondo l’amico e scrittore Norman Lebrecht.

UN VISIONARIO – Noto per lo stile fiammeggiante sviluppato durante la carriera in televisione, i film di Russell si presentano come un misto tra cultura d’elite e cultura popolare con grande attenzione per il particolare e alto tasso polemico. Il film I Diavoli, ad esempio, è un dramma religioso caratterizzato da una scena divenuta celebre e criticatissima: Oliver Reed e Vanessa Redgrave sessualizzano la crocifissione. La Warner Brothers ha inizialmente rifiutato di pubblicare la pellicola per intero. La vedremo nella sua versione completa ed originale il prossimo marzo 2012, a 42 anni di distanza dalla produzione, per celebrare il centenario del British Board of Film Classification. Donne in amore, lanciato nel 1969, è divenuto famoso per la scena di wrestling con nudo maschile, i cui protagonisti erano Alan Bates e Oliver Reed. Tommy è invece una versione russelliana della omonima rock opera (del gruppo) “The Who” ed è stato il più grosso successo commerciale del regista su palco teatrale prima ancora di essere riprodotto per gli schermi nel 1976. Utilizzo continuo dei colori primari, ossessione per le scene con il fuoco e per i rituali mistici hanno caratterizzato il suo stile psichedelico, quasi onirico. Russell è tornato alla ribalta negli ultimi anni con proposte sempre più eclettiche. Nel 2007 ha partecipato alla trasmissione televisiva Grande Fratello delle Celebrità, uscendo poi per una discussione con un altro concorrente.

LA CARRIERA – Russell è nato a Southampton nel 1927, figlio di un proprietario di un negozio di scarpe i cui episodi di violenza hanno portato Russell e la madre a cercare rifugio nel cinema. Dopo aver prestato servizio nella RAF e nella marina mercantile, Russell ha iniziato la sua carriera come fotografo – una passione che ha coltivato tutta la vita – prima di passare ad occuparsi di documentari televisivi. Il giovane ha iniziato a lavorare per la BBC nel 1959, dove per 11 anni ha creato show basati sull’arte d’avanguardia per Monitor e Omnibus, il più noto dei quali focalizzato su compositori, creando Elgar (1962), The Debussy Film (1965), Isadora Duncan, the biggest dancer in the world (1967), Song of summer (1968) e Dance of the seven veils (1970), un film su Richard Strauss. Il suo primo lungometraggio, una commedia leggera chiamata French dressing (1963), non venne accolta particolarmente bene, ma da quel momento la sua produzione degli anni ’60/’70 fu un crescendo di successi: I Diavoli (1971); Messia selvaggio (1972); La perdizione (1974); Lisztomania e Tommy (1975) (ma come, Tommy non era del 1976?)Valentino (1977), per citare i principali. Negli anni ’80, quando il clima onirico lascia posto alla normalizzazione del cinema, Russell continua con uno stile fatto di eccessi e produce China Blue (1984), Gothic (1986) e L’ultima Salomé (1988).

ANNI ’90 – Gli anni Novanta sono caratterizzati da un ri-innamoramento per la televisione, segnato da progetti come Lady Chatterly e Oltre la menteA partire dal 2000 le attività di Russell si diradano e il regista si dedica principalmente a documentari. Se la sua vena creativa sembra allora essersi esaurita, la sua vita privata ha continuato ad essere bella movimentata: quattro matrimoni alle spalle, altrettanti divorzi, cinque figli. Sul piano professionale, invece, aveva un’idea chiara del suo posto speciale, nel mondo dei grandi cineasti. Russell e Federico Fellini, a Cinecittà, si parlarono e si incoronarono rispettivamente “il Fellini inglese” e “il Ken Russell italiano”.


FILM

(non sono critico professionista ne voglio esserlo: troverete qui recensioni di altri e qualcuna di mio pugno. Spesso sono citati solo i titoli dei film e nient’altro. Sono film che, in un modo o nell’altro, sono stati interessanti)

I miei film preferiti

Qui di seguito un breve elenco dei film che mi sono piaciuti di più in assoluto, i film che prediligo o, se preferite, i miei film di culto. Ah, dimenticavo: sarà per via della mia scarsissima memoria ma sta di fatto che i film che mi piacciono li rivedo un numero pressoché senza limite di volte.

Ovviamente questi sono i MIEI film: per alcuni saranno pessimi, per altri mediocri, per altri ancora appena appena sufficienti. Pazienza….i fissati per il latino direbbero de gustibus…., no?

Non sono un esperto, né un fanatico cinefilo, non sono in grado di dissertare (ne mi piacerebbe comunque farlo) su tutti i film di quel tal regista, sul contributo dei vari scenografi, dei tecnici della fotografia e della ripresa, dei direttori delle luci, delle interpretazioni precedenti e attuali dei vari interpreti etc.: un film mi può piacere o no, un film posso anche non capirlo, un film mi può anche disgustare.

Tutto qui.

E, di conseguenza, non mi interessano minimamente i vari festival, rassegne, Oscar, premi, statuette…

Dopo I miei film preferiti troverete Altri film: in questa parte ci saranno film che ho visto (al cinema – sempre più raramente – , in televisione, tramite il computer, in Internet…) e che, in qualche modo, mi sono piaciuti in tutto o in parte.

Dimenticavo: se mi raccontate la trama di un film con il finale non mi fate un dispetto, ma un favore. Attenzione quindi: quasi tutte le trame qui indicate comprendono il finale!

***

Gli avventurieri del pianeta Terra

Titolo originale The ultimate warrior (L’ultimo guerriero), USA, 1975 dc, fantascienza, durata 95′, regia di Robert Clouse

Interpreti: Yul Brinner, Joanna Miles, Max Von Sidow

Il film appartiene al genere che preferisco, ovvero quello in cui questa stupida umanità, o gran parte di essa, se ne va a farsi benedire per le cause più disparate: catastrofe ambientale, guerra nucleare, virus sconosciuti e micidiali. Non scherzo dicendo che per il pianeta Terra, in fondo, sarebbe il male minore: eliminato l’uomo, il pianeta e l’ecosistema, abbandonati a loro stessi, ne trarrebbero sicuro giovamento.

Non è però detto che gli eventuali sopravvissuti imparerebbero la lezione ed edificherebbero una bella e nuova società o addirittura l’Utopia: sull’ Homo Sapiens è meglio non farsi eccessive illusioni.

Questa è la breve trama del film da www.film.tv.it (a proposito: il nostro pianeta si chiama Terra, non terra, e, a mio avviso, non ci dovrebbe neanche essere l’articolo (come per Luna, il nostro satellite). Sarebbe come dire “L’uomo prima o poi sbarcherà sul Marte”…):

La guerra atomica ha distrutto la terra. In una New York deserta si battono il gruppo guidato dal “Barone” e quello guidato dallo spietato “Carrot”. Il Barone assolda Carlson, un potente guerriero, per combattere il rivale ma dissidi interni al gruppo portano alla sua eliminazione (nota mia: di chi, del Barone o di Carlson? Dalla frase non si capisce che a perire, nel film, è il Barone). Carlson riuscirà a raggiungere una pacifica isola con la figlia del Barone. Filmetto di fantascienza abbastanza balordo, con un cast di stelle.

Dissento, ovviamente, sul giudizio. Definirlo “balordo”, addirittura!  Il Barone, il capo della comunità, è interpretato dal sempre ottimo Max Von Sidow. Il gruppo, nella difficile sopravvivenza dopo la catastrofe, ha bisogno di un guerriero esperto e risoluto. Lo trovano in Carlson, a cui presta fisico e volto il roccioso Yul Brinner, che si offre al miglior offerente stando in piedi e immobile su un muro nei pressi, per ore. Il Barone tenta di coltivare qualcosa sul tetto dell’edificio principale della comunità. La penuria alimentare fa scoppiare dissidi all’interno del gruppo, ed il Barone viene ucciso. Ci sono scontri col gruppo rivale guidato da Carrot, pressoché composto da delinquenti e sbandati.

A Carlson non resta che fuggire con la figlia incinta del Barone (che poi partorirà), inseguiti per le vecchie gallerie della metropolitana dagli uomini di Carrot, diretti ad un isola in cui si dovrebbe vivere molto meglio.

Nella lotta finale con Carrot a Carlson, per sopravvivere, non resterà che amputarsi una mano con un colpo d’accetta….

Questa è la recensione (le  aggiunte prima e dopo i titoli dei film sono mie), invece, di Fantafilm www.fantafilm.net  (il personaggio di Yul Brinner, qui, si chiama Carson: chi avrà ragione? Dovrei rivedermi il film):

New York nel 2012 presenta lo scenario post-apocalittico di una metropoli piegata dalle malattie e dalla scarsezza di cibo. I pochi sopravvissuti, divisi in piccole e isolate comunità, vivono asserragliati tra mura fatiscenti e minuscole serre sopraelevate in cui si coltivano striminzite piante commestibili. Il Barone governa una di queste enclave secondo i principi della ragione e della democrazia, ma in assenza di un potere che ripristini le leggi e ne garantisca il rispetto, gli sforzi per incanalare la vita quotidiana verso una pacifica convivenza sono destinati, prima o poi, ad essere vanificati dalla cieca violenza delle bande capeggiate dal sanguinario Carrot. Per difendersi dalla continua, mortale minaccia dei predatori, il Barone ingaggia Carson, un mercenario che si offre di combattere per loro. Quando i razziatori sembrano sul punto di annientare la piccola comunità, al guerriero verrà affidata Melinda, figlia del Barone, e la vita che ella porta nel grembo, affinché per loro si schiuda, lontano dalla metropoli in rovina, l’orizzonte di un futuro migliore.

La sequenza che apre il film promette una lotta per la sopravvivenza, senza esclusione di colpi: due colombi si posano leggeri su una strada apparentemente deserta… e subito mani rapaci li afferrano in un turbinio di piume e di grida (mia nota: i colombi erano ben più di  due e non si posavano in una strada ma all’interno di un edificio).

Di agguati, violenza, combattimenti corpo a corpo, il film offre, in effetti, una buona dose, e se il tema che affronta non è nuovo (ed in parte può riecheggiare situazioni tipiche da western) ed il finale (al campione viene affidato insieme alla ragazza il prezioso tesoro di una manciata di semi non contaminati da far germogliare altrove) può sembrare un po’ retorico, il film trae forza da un’atmosfera di cupo pessimismo che lo pervade.

Incisive, come sempre, le interpretazioni di Max Von Sydow nella parte del saggio Barone e Yul Brynner, scultoreo, monolitico ed enigmatico guerriero senza passato e senza domani.

In Italia, il film non ha avuto una buona accoglienza. Liquidato forse troppo frettolosamente dalla critica e – come spesso accade da noi – distribuito con un titolo che poco ha a che fare con la vicenda, può rivendicare il merito di aver inaugurato il filone post-apocalittico urbano, ripreso poi con più o meno successo dai film alla Mad Max, da 1997 fuga da New York ai nostrani 1990 i guerrieri del Bronx e 2019 dopo la caduta di New York e loro epigoni.

Per trovare la cassetta di questo film, come per altri, ho dovuto fare parecchie ricerche in Internet.

Direi che forse questo è il film migliore di Robert Clouse, solo leggendo i titoli degli altri che ha diretto: L’ultimo combattimento di Chen, I 3 dell’operazione Drago, The big brawl – Chi tocca il giallo muore

Se qualcuno di voi è interessato ad avere una copia in DVD di questo film, per uso esclusivamente domestico, mi contatti in e-mail.

2001 Odissea nello spazio

Titolo originale space odyssey (Una odissea dello spazio, Una odissea spaziale), Gran Bretagna, 1968 dc, fantascienza, durata 141′, regia di Stanley Kubrick

Interpreti: Keir Dullea, Gary Lockwood, William Sylvester

La sintesi della voce in www.wikipedia.it :

È un film di Stanley Kubrick del 1968 ispirato al racconto di Arthur C. Clarke La sentinella. Lo stesso scrittore ha poi a sua volta tratto dalla sceneggiatura un romanzo dal titolo omonimo e con la medesima trama.

Kubrick aveva contattato Clarke perché necessitava di un buon soggetto di fantascienza per un film di genere. In questo modo il romanzo e il film nacquero e crebbero insieme, realizzando una collaborazione tra media differenti assolutamente unica e originale, almeno per l’epoca in cui fu attuata.

Sotto questo e sotto altri aspetti 2001 è rimasto uno dei più famosi film di fantascienza. Oltre che per l’ottima sceneggiatura, recitazione e tecnica di ripresa, esso si è meritato l’ammirazione degli appassionati per la fedeltà con cui riproduce l’ambiente spaziale: tutti gli avvenimenti in ambienti senz’aria si svolgono in silenzio, l’astronave ha una gravità artificiale per rotazione che è correttamente rappresentata, i movimenti in assenza di gravità sono lenti come dovrebbero essere.

Anche la scena in cui un astronauta rientra nell’astronave passando alcuni secondi in un ambiente di vuoto è stata approvata dagli esperti come veritiera.[senza fonte] Kubrick in questo modo ha dimostrato che è possibile fare un ottimo film di fantascienza rispettando la realtà e senza introdurre elementi artificiosi.

È inoltre importante sottolineare il forte impatto emotivo che la visione di questo film suscita nello spettatore, lo stesso Kubrick affermò: «ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio».

Smisurate sono anche le ambizioni del film: spiegare l’indissolubile legame che unisce l’uomo al tempo e allo spazio, l’intelligenza artificiale, l’utilizzo della scienza. A questo proposito è di notevole effetto il raccordo tra le due scene iniziali del film, l’utilizzo di un oggetto, un osso, come strumento di offesa e di dominio da parte di un ominide e le astronavi orbitanti attorno alla Terra. In questa maniera il regista compie un salto logico di millenni conservando la trama narrativa del film, con un’operazione mirabile che trova pochi riscontri nella storia del cinema.

Kubrick rimase per ben due mesi chiuso nella sua villa nelle campagne inglesi a rivedere e tagliare il suo mastodontico lavoro; questa operazione è considerata il momento più decisivo nella produzione del cinema kubrickiano.

La prima parte del film si svolge nell’Africa di tre milioni di anni fa: un gruppo di ominidi, guidati da un capo, sopravvive a fatica in un ambiente arido e ostile; un giorno davanti alla loro grotta appare misteriosamente un grande monolite nero; gli ominidi venendo a contatto col monolito imparano a usare strumenti, a uccidere animali per cibarsene e ad uccidere altri ominidi per conquistarne il territorio.

La seconda parte del film si svolge nel 2001 (un anno del futuro nel 1968): il dott. Heywood Floyd è chiamato in missione su una base lunare dove è stato scoperto un grande monolito nero sotterrato ad arte in tempi remoti. Floyd è accompagnato a vedere lo scavo con il monolito ancora nel buio della notte lunare. Proprio mentre Floyd e gli altri stanno fotografando il monolito il primo raggio di sole del giorno lunare illumina il monolito che rivede così la luce dopo millenni di oscurità e immediatamente emette un forte segnale in direzione di Giove.

Nella terza parte del film un gruppo di cinque astronauti, di cui tre in stato di ibernazione, sono in volo a bordo dell’astronave Discovery diretta verso Giove, governata da un supercomputer, HAL 9000, dotato di una sofisticata intelligenza artificiale che lo rende valido interlocutore degli esseri umani a bordo.

Ad HAL è stato chiesto di tenere nascosti i veri obiettivi della missione ai compagni di viaggio, i due astronauti svegli, il comandante David Bowman e il suo vice Frank Poole. Quest’ordine genera un conflitto interiore nel calcolatore, il quale nel contempo è programmato per collaborare con gli esseri umani senza omissioni o alterazioni di dati o informazioni. Le conseguenze del conflitto si manifestano tragicamente in prossimità dell’arrivo su Giove. Inizialmente HAL interrompe il collegamento radio con la terra simulando un guasto inesistente, poi, quando questo tentativo fallisce edanzi insospettisce gli umani, non trova altra soluzione che cercare di ucciderli tutti.

Il piano di HAL tuttavia fallisce: David Bowman riesce a sopravvivere ed a riprendere il controllo della nave, disabilitando le funzioni superiori del calcolatore. Al termine di tale operazione inaspettatamente HAL avvia la riproduzione di un filmato pre-registrato, nel quale il dottor Floyd rivela i veri scopi della missione all’equipaggio, oramai composto solo da uno stupefatto Bowman: il monolito trovato sulla Luna è la prima prova dell’esistenza di un’intelligenza extraterrestre, e il segnale radio da esso emesso in direzione di Giove ha spinto a pianificare la missione.

Nell’ultima parte Bowman arriva in orbita intorno a Giove e vi trova un terzo monolito nero, esce dall’astronave e gli si avvicina con la sua capsula. Il monolito sembra inviare Bowman in un percorso attraverso lo spazio e il tempo, che lo porta a sorvolare panorami alieni. Infine l’astronauta si ritrova con la propria capsula in un impossibile appartamento dal decoro settecentesco, dove vede se stesso invecchiare rapidamente, in fasi successive ogni volta esterne al proprio sguardo. Ormai decrepito, Bowman muore davanti a una nuova apparizione del monolito nero e rinasce in forma di feto cosmico, lo Starchild, che a sua volta scruta la Terra dallo spazio. La musica che accompagna questa estrema metamorfosi è l’inizio del poema sinfonico di Richard Strauss Così parlò Zarathustra.

Uno dei temi fantascientifici di 2001 che maggiormente colpirono pubblico e critica è quello del supercomputer HAL 9000 e della sua ribellione. Nel film HAL appare dotato di una vera intelligenza artificiale: ha un occhio che gli permette di vedere e addirittura di leggere le parole sulle labbra degli uomini, parla con una voce del tutto naturale, e sembra in grado di provare sentimenti umani. Naturalmente sa giocare benissimo a scacchi e sconfiggere gli esseri umani in questo gioco. E sa anche uccidere quando ritiene che la missione, che per lui ha la priorità assoluta, sia in pericolo.

Su questo tema Clarke e Kubrick erano stati troppo avveniristi. Il 2001 è passato e i computer di oggi sono ancora ben lontani dal traguardo dell’intelligenza artificiale; unica previsione realizzatasi alla lettera è quella che i computer sono oggi capaci di vincere gli uomini nel gioco degli scacchi, cosa che avviene ormai da diversi anni. Tuttavia, se si intende la “supremazia” del computer come una oscura prevalenza della tecnologia ovunque diffusa (imprevedibile nelle sue conseguenze e nei suoi condizionamenti sulla cultura umana), è indubitabile l’attualità della visione del regista. Su ciò Kubrick avrebbe degli illustri e molto dibattuti antesignani: il filosofo Martin Heidegger, con la sua “questione della tecnica”, e il sociologo Günther Anders, con la sua definizione di “uomo antiquato” (ovvero: l’uomo che, dopo la bomba atomica, produce tecnologia ben oltre le sue capacità di valutarne a pieno le conseguenze; per millenni abbiamo immaginato più di quanto non potessimo realizzare, mentre oggi realizziamo più di quanto non siamo poi in grado di controllare, nemmeno con l’immaginazione).

Va ricordato che Kubrick voleva realizzare un altro film sull’intelligenza artificiale, ma la morte lo colse prima di aver completato questo progetto. Il film fu viceversa realizzato con il titolo di A.I. da Steven Spielberg che sostiene di aver seguito in buona parte le indicazioni di Kubrick. Del resto, molte delle sequenze iniziali – come la lenta carrellata – del film di Spielberg sono tipicamente “alla Kubrick”.

Colonna sonora

La colonna sonora, rimasta una delle più famose nella storia del cinema, è composta da celebri pezzi di musica classica di autori classici e contemporanei, tra cui:

Johann Strauß jr:
“Sul bel Danubio blu” (“An der schönen, blauen Donau”) 
Richard Strauss:
“Così parlò Zarathustra” (“Also sprach Zarathustra”)
György Ligeti:
“Atmosfere” (“Atmospheres”),
“Luce eterna” (“Lux Aeterna”)
“Avventure” (“Adventures”)
“Requiem”
Aram Kachaturian:
“Gayane” suite dal balletto

Il tema principale, “Così parlò Zarathustra”, sottolinea i punti di svolta della storia, come il momento in cui GuardaLaLuna inizia a mettere a frutto gli insegnamenti del Monolito, impugnando un osso e comprendendo di avere tra le mani un’arma per procurasi da mangiare e per sopraffare i nemici, oppure quando David Bowman, sempre per mezzo del Monolito, si trasfigura in un essere nuovo, il Bambino delle Stelle. La scelta di questo brano probabilmente non è casuale, in quanto il poema sinfonico di Richard Strauss è ispirato all’omonima opera di Friedrich Nietzsche, nella quale si narra la discesa del profeta Zoroastro tra gli uomini per insegnare loro a divenire esseri liberi dai propri limiti (il concetto nietzschano di Superuomo). È quindi probabile che Kubrick e Clarke abbiano voluto evocare una analogia tra Zoroastro e il monolito, e tra il Superuomo e il Bambino delle Stelle.

La colonna sonora era all’inizio completamente diversa, ma Kubrick non ne era soddisfatto e la cambiò. Il compositore avanguardista ungherese György Ligeti fu entusiasta della scelta delle sue opere come il Requiem e l’alieno Atmosphere ma non ricevette alcuna gratifica. (Nota mia: a parte Also sprach Zarathustra e i brani contemporanei, il resto della colonna sonora di brani di valzer non mi è mai piaciuto. Io avrei scelto musica elettronica o contemporanea).

Il computer HAL 9000

Il mistero del malfunzionamento di HAL viene svelato nel film 2010 – L’anno del contatto (1985). Nel frattempo il tema ha dato adito a numerose possibili interpretazioni, tra queste la consapevolezza di HAL di aver commesso un errore (nel prevedere un guasto all’antenna) in conflitto con la propria vantata “incapacità di errore”.

Secondo taluni l’acronimo “HAL” (in Inglese, diminutivo del nome Henry) deriva dal marchio “IBM” prendendo le lettere precedenti (nell’ordine alfabetico) di quest’ultimo: I -> H, B -> A, M -> L. L’autore del romanzo Clarke, quindi l’unico al mondo ad averne titolo, ha seccamente smentito anni dopo, ribadendo quanto spiegato nel libro, ossia l’abbreviazione di Heuristically ALgoritmic (programmed computer).

La voce italiana di HAL dal caratteristico timbro è dell’attore palermitano Gianfranco Bellini, il quale la presterà negli anni ottanta negli spot televisivi di un personal computer e di un olio per auto (uno dei primi realizzati in grafica computer 3D), nonché nel trailer del film fantastico Johnny Mnemonic. Nonostante il timbro di voce usato da Bellini sia differente dall’originale, Kubrick ha più volte dichiarato di considerare il doppiaggio italiano di HAL 9000 in assoluto il migliore[senza fonte], inviando anche una lettera di congratulazioni all’attore italiano.

Il giorno dello Sciacallo

Titolo originale The Day of the Jackal (in altri sitigiustamente, The day of the jackal), Gran Bretagna/Francia (secondo www.35mm.it il film sarebbe una produzione USA), 1973 dc (secondo www.35mm.it l’anno è il 1975), giallo, durata 143′ (per www.35mm.it la durata è 145′), regia di Fred Zinnemann

Interpreti: Edward Fox, Terence Alexander, Michel Auclair, Alan Badel, Tony Britton, Denis Carey, Adrien Cayla-Legrand, Jean Sorel, Cyril Cusack, Maurice Denham, Philippe Léotard, Olga Georges-Picot, Vernon Dobtcheff, Jacques François

La recensione di Alberto Cassani su http://www.cinefile.biz/:

Nel 1962 il Generale de Gaulle concede l’indipendenza all’Algeria. Molti francesi si sentono traditi da questa decisione, e alcuni gruppi eversivi decidono di uccidere il Presidente. L’OAS si rivolge ad un killer che opera con il nome in codice di “Sciacallo” e che prepara un piano segretissimo per assassinare de Gaulle…

Agosto 1962. Un periodo politicamente tempestoso per la Francia: molti si sentivano traditi da de Gaulle, che aveva concesso l’indipendenza all’Algeria. Gruppi eversivi, per lo più formati da militari, avevano giurato di uccidere il Presidente per vendicarsi. Questi gruppi, già durante la guerra d’Algeria si erano federati in un movimento clandestino denominato OAS (Nota mia: Organisation Armeé Secrete).

Dopo un attentato in cui il Generale de Gaulle rimane miracolosamente illeso, la maggior parte dei cospiratori sono stati catturati e il loro capo condannato a morte e giustiziato l’11 marzo 1963. I restanti ribelli, consci di essere braccati, decidono per uccidere de Gaulle di rivolgersi ad un esterno, un professionista straniero che possa andare e venire a piacimento. La loro scelta ricade su un inglese che «ha liquidato quel tipo nel Congo, e Truillo». Per quell’operazione, il suo nome in codice sarà “Sciacallo”.

Adattato dall’omonimo romanzo di Frederick Forsyth, Il giorno dello sciacallo è forse uno dei migliori thriller degli anni ‘70. All’uscita nelle sale non ottenne, però, il successo che si sarebbe meritato a causa probabilmente della mancanza di nomi importanti nel cast. Cosa che, in realtà, va benissimo per il personaggio dell’anonimo Sciacallo, che con il volto di un attore sconosciuto conserva tutto il mistero che aveva nelle pagine del libro. A dir la verità, proprio grazie a questa interpretazione Edward Fox vide la sua carriera cinematografica finalmente decollare, portandolo anche ad interpretare pellicole come Quell’ultimo ponteGandhi e Il Bounty.

La sceneggiatura di Kenneth Ross e la regia di Zinneman prestano grande attenzione ai dettagli della preparazione dell’attentato, pur non arrivando al livello del libro e nonostante alcune sequenze siano davvero molto ingenue. In più, qualche momento è raccontato in maniera un po’ troppo frettolosa e i dialoghi (per lo meno nel non bellissimo doppiaggio italiano) faticano a nascondere il “trucco” che sta alla base del piano dello Sciacallo. La regia di Zinneman è però molto attenta e permette alla tensione di montare in maniera estremamente efficace, effetto cui contribuisce anche la decisione di non utilizzare alcun commento musicale che non sia diegetico. E il finale, perfettamente bilanciato tra la concitazione dell’azione e la calma interiore dello Sciacallo, evita che tutto si sgonfi e permette allo spettatore di rilassarsi solo quando tutto è finito.

Dal libro di Forsyth sono stati tratti ulteriori adattamenti, l’unico di cui sono attualmente a conoscenza (Giugno 2010 dc) è The Jackal (titolo originale mantenuto integralmente) del 2007, produzione USA per la regia di Michael Caton-Jones, protagonisti Richard Gere e Bruce Willis.

Il tocco della Medusa

Titolo originale The medusa touch, Gran Bretagna, 1978 dc, drammaticodurata 110′, regia di Jack Gold

Interpreti: Richard Burton, Lee Remick, Lino Ventura, Marie-Christine Barrault, Derek Jacobi

Uno dei miei film di culto, magistrale per il soggetto e per la critica feroce e spietata della società borghese.

La scheda di www.film.tv.it:

Nonostante la morte, la mente di un uomo provoca distruzione e catastrofi.

John Morlar, uno scrittore di serie B, viene brutalmente ucciso e la sua testa è completamente maciullata. Il bello è che – come scopre l’ispettore francese Brunel, in trasferta di lavoro a Londra – il cervello di Morlar continua a vivere e ad emettere segnali: successivamente le indagini appurano che una serie di strani decessi avvenuti di recente ha colpito chiunque si sia trovato in contrasto con lo scrittore o gli abbia causato dei torti. La dottoressa Zonfeld tenta di venire a capo del caso, ma…

Da un romanzo di Peter Van Greenaway (sic), una curiosa e per certi versi appassionante vicenda a sfondo parapsicologico. Burton mattatore incontrastato.

Dallo stesso sito l’opinione di spicerLOVEJOY

Un piccolo gioiellino del genere. Tratto da un romanzo di Greenawayben scritto e altrettanto ben diretto dal bravo Gold, è un avvincente, serrato thriller con momenti horror davvero impeccabili. Certo qua e la la tensione cala ma è poca roba e il film si mantiene su livelli eccellenti. Il meglio comunque sono gli attori.Grande incontro scontro tra un Richard Burton che monopolizza la scena, anche su un letto di un ospedale, e un Lino Ventura ispettore francese che, in trasferta a Londra, deve scovare l’autore della brutale aggressione a Burton, rimanendo invischiato in una storia al limite dell’incredibile. Anche se Burton è fantastico la mia preferenza va a Lino Ventura un attore oggi dimenticato da tutti.Purtroppo.Completano il cast una convincente Lee Remick, Harry Andrews e il mai troppo compianto Jeremy Brett, il migliore interprete di Sherlock Holmes che la televisione inglese abbia mai avuto (dopo Peter Cushing,ovviamente). Cult Movie.

e l’opinione di Beckett

Raramente mi capita di vedere un film due volte di seguito: questa è una di quelle volte. Sicuramente una delle qualità della pellicola è vedere il confronto a distanza che avviene tra Burton e Ventura: bellissima la sequenza in cui Ventura è nello studio della psicanalista e tra loro due appare il volto di Burton. Lee Remick è semplicemente bellissima e interpreta il ruolo della psicanalista in modo superbo; Richard Burton rende perfettamente a disagio lo sguardo dello spettatore e trasmette inquietudine per tutta la durata del film. Le sequenze più efficaci sono senz’altro quella dell’incidente aereo, ma soprattutto quella del crollo della cattedrale: il finale poi, è veramente spiazzante. Un altro pregio della pellicola è il perfetto inserimento dei flashback, come il montaggio in generale, che contribuisce ad aumentare il ritmo del film. La colonna sonora è perfetta, contribuisce a creare quell’atmosfera di tensione e angoscia che rende questo film una vera sorpresa. Un’ultima segnalazione per chi ama il cinema inglese: Jeremy Brett fa una piccola comparsata nel ruolo dell’amante della moglie di Burton.

Il pianeta delle scimmie

Da Wikipedia, consultata il 5 Dicembre 2023 dc, un sunto:

Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) è una media franchise (marchio dello spettacolo) composto da dieci film, due serie televisive e vari libri, fumetti e videogiochi. È basato sul romanzo Il pianeta delle scimmie (La Planète des Singes) di Pierre Boulle, pubblicato per la prima volta nel 1963, in cui gli esseri umani si scontrano per il controllo della Terra con scimmie intelligenti (Simius sapiens).

L’adattamento cinematografico del 1968, Il pianeta delle scimmie, è stato un successo per la critica e per il pubblico, iniziando una serie di seguiti, e opere derivate. Originariamente in mano a Arthur P. Jacobs, produttore dei primi film della serie, dal 1973 i diritti della serie sono andati alla 20th Century Fox.

Quattro sequel succedettero al film originale tra il 1970 e il 1973: L’altra faccia del pianeta delle scimmieFuga dal pianeta delle scimmie1999: conquista della Terra e Anno 2670 – Ultimo atto. Non ebbero il successo del primo film, ma riscontrarono un buon successo commerciale. La serie ha prodotto anche due serie televisive nel 1974 e nel 1975.

I piani per un rifacimento del film sono rimasti in fase di sviluppo per oltre dieci anni prima dell’uscita di Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie di Tim Burton nel 2001. Dieci anni dopo è partito il reinizio della serie con L’alba del pianeta delle scimmie, seguito da Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie nel 2014 e The War – Il pianeta delle scimmie nel 2017. I film hanno incassato un totale di oltre 1,8 miliardi di dollari in tutto il mondo, contro un bilancio combinato di 567,5 milioni di dollari.

Sul sito Pocket-lint c’è un’interessante sintesi cronologica (secondo gli avvenimenti narrati) di tutti i film, ne propongo una sintesi:

L’ascesa del pianeta delle scimmie (2011)

Il primo film della nostra lista vede James Franco nei panni di Will Rodman, uno scienziato che in un futuro prossimo sta cercando una cura per l’Alzheimer. Il film si apre quando Rodman scopre un cucciolo di scimpanzé che è stato esposto a un farmaco sperimentale. Quando la madre del piccolo muore, Rodman lo porta a casa per crescerlo e gli dà il nome di Caesar. Rupert Wyatt ha diretto questo film e Andy Serkis interpreta Cesare tramite motion capture. Il film è stato scritto da Rick Jaffa e Amanda Silver.

Non perdete di vista la notizia dell’ingresso della navicella Icarus nell’atmosfera marziana: si tratta di un easter egg che allude alla navicella di Charlton Heston nel film originale.

L’alba del pianeta delle scimmie (2014)

L’alba del pianeta delle scimmie riprende 10 anni dopo gli eventi di Rise of the Planet of the Apes e vede il Cesare di Andy Serkis alla guida di una fiorente civiltà di scimmie nelle foreste di Redwood fuori San Francisco. La maggior parte dell’umanità è stata spazzata via dalla peste dei Simian, ma i superstiti guidati da un uomo di nome Dreyfus (interpretato da Gary Oldman) incontrano le scimmie quando entrano nella foresta per riparare una diga idroelettrica.

Matt Reeves ha diretto L’alba del pianeta delle scimmie e Rick Jaffa e Amanda Silver sono tornati a scrivere la sceneggiatura di questo film.

La guerra per il pianeta delle scimmie (2017)

War for the Planet of the Apes riprende due anni dopo con Cesare ancora alla guida del suo popolo. Le conseguenze dell’insurrezione di Koba contro di lui hanno fatto sì che un gruppo di soldati d’élite, guidati dal colonnello J. Wesley McCullough (interpretato da Woody Harrelson), iniziasse a dare la caccia alle scimmie di Cesare. L’unica speranza di Cesare per portare via la sua famiglia e fermare un ulteriore conflitto con gli umani è attraversare un vasto deserto.

Verso la fine del film vediamo alcuni amici di Cesare assicurargli che la nascente società di scimmie che ha contribuito a creare conoscerà tutto ciò che ha sacrificato per loro – un cenno importante che aiuta a spiegare perché un’altra scimmia sarà chiamata Cesare più avanti nella nostra linea temporale. Ci sono molte altre allusioni ai film originali. Il gruppo di soldati bizzarri di McCullough si fa chiamare Alfa/Omega, che è lo stesso nome di una bomba venerata da un culto di umani mutanti nel film del 1970 Sotto il pianeta delle scimmie. Usano anche la stessa insegna vista sulla bomba, suggerendo un qualche tipo di connessione tra le due cose.

Matt Reeves è tornato a dirigere questo film. Ha anche contribuito a scrivere il film insieme a Mark Bomback.

Il pianeta delle scimmie (1968)

Il quarto film della nostra lista ha dato il via a tutto. Diretto da Franklin J. Schaffner, segue tre astronauti che si risvegliano dopo un atterraggio di fortuna su un pianeta misterioso. Alla fine, uno degli astronauti, George Taylor (interpretato da Charlton Heston), viene catturato da scimmie evolute. Taylor si allea con una scimmia simpatica, la dottoressa Zira (interpretata da Kim Hunter), che lo studia. In seguito, si reca nel deserto della Zona Proibita per cercare di sfuggire alle scimmie che lo tengono prigioniero. È allora che scopre la verità sul mondo in cui vivono le scimmie (Nota mia: assurdo che i protagonisti sono convinti di essere giunti su un pianeta diverso dalla Terra e scoprono le scimmie che parlano la loro stessa lingua, e non se ne meravigliano affatto).

Franklin J. Schaffner ha scritto la sceneggiatura de Il pianeta delle scimmie con l’aiuto di Rod Serling, famoso per Twilight Zone, e di Michael Wilson. Il film è basato su un romanzo francese intitolato La Planète des Singes di Pierre Boulles. Il pianeta delle scimmie è stato l’ottavo film di maggior incasso del 1968, con 33 milioni di dollari.

Sotto il pianeta delle scimmie (1970)

Un astronauta di nome Brent (interpretato da James Franciscus) è l’unico sopravvissuto di una nave spaziale inviata a ritrovare i tre astronauti del primo film de Il Pianeta delle scimmie. Subito dopo l’atterraggio nella Zona Proibita, Brent incontra Nova, l’interesse amoroso di Taylor del primo film. La donna indossa ancora la piastrina degli astronauti. La donna porta Brent nella città delle scimmie, dove incontra la dottoressa Zira. Lei gli racconta del periodo trascorso con Taylor.

Brent torna quindi nella Zona Proibita e trova l’ingresso di una metropolitana di New York e una razza mutata di umani che adora un dispositivo apocalittico. Ted Post si è occupato della regia di questo film, mentre Paul Dehn ha scritto la sceneggiatura. Sebbene sia stato un po’ dimenticato dalla cultura popolare, Beneath the Planet of the Apes fu un successo al botteghino, con 18 milioni di dollari e il 16° incasso più alto del 1970.

Fuga dal pianeta delle scimmie (1971)

Questo film è il punto in cui la linea temporale delle nostre scimmie inizia a diventare davvero assurda. Alla fine di Sotto il pianeta delle scimmie assistiamo alla distruzione del pianeta da parte del dispositivo apocalittico Alfa e Omega. Tuttavia, prima che ciò accada, la dottoressa Zira e suo marito Cornelius (interpretato da Roddy McDowall) scoprono e iniziano a riparare la nave originale che ha portato Taylor sul Pianeta delle Scimmie.

Le due scimmie la usano per viaggiare fino al 1973, o quando il pianeta viene distrutto. Diventano una celebrità e sono al centro di un’indagine governativa sul perché la nave di Taylor sia improvvisamente ricomparsa con scimmie parlanti ma senza astronauti. Proprio quando il governo inizia a sospettare che la dottoressa Zira non sia stata sincera con il governo, si scopre che è incinta. Lei e Cornelius devono sfuggire alla cattura per salvare il loro bambino, Milo. Don Taylor ha diretto il film e Paul Dehn è tornato a scrivere la sceneggiatura.

La conquista del pianeta delle scimmie (1972)

Nell’anno 1991, il figlio di Zira è vivo e cresciuto. È interpretato da Roddy McDowall, che ha interpretato Cornelius anche nel film precedente. In ogni caso, il figlio di Zira, appena chiamato Cesare, è stato allevato in clandestinità da Armando (interpretato da Ricardo Montalban), il proprietario del circo a cui lo aveva lasciato alla fine di Fuga dal pianeta delle scimmie. Il film segue Cesare in un mondo oscuro in cui i gatti e i cani si sono estinti e le scimmie sono diventate un animale domestico comune e persino una fonte abusata di lavoro schiavo. Cesare è l’unica scimmia in grado di parlare in questo mondo. Alla fine viene ridotto in schiavitù e questo porta a una rivolta.

Zira deve aver chiamato suo figlio Cesare, come l’omonimo personaggio di Andy Serkis nella nuova trilogia di film. È ovvio che la storia di questo film ha fornito l’ispirazione per la nuova trilogia, poiché i film mostrano una scimmia intelligente maltrattata dagli umani che alla fine deve rivoltarsi contro di loro per proteggere la propria specie.

La battaglia per il pianeta delle scimmie (1973)

Questo film mostra un Cesare invecchiato (interpretato da Roddy McDowall) che guida una società in cui scimmie e umani coesistono dopo una guerra nucleare. Ma la società è lacerata dalle minacce di una fazione militante di scimmie, guidata da Aldo (interpretato da Claude Akins), che vuole rendere gli umani sottomessi. Cesare viene a sapere che nella Zona Proibita esistono dei nastri che mostrano sua madre che parla di come il conflitto tra scimmie e uomini abbia causato la distruzione della Terra. Mentre è alla ricerca di quei nastri, Cesare scopre anche un gruppo di umani mutati, guidati dal governatore Kolp (interpretato da Severn Darden), che vedono le scimmie come una minaccia e si propongono di distruggerle.

Tra i nastri di sua madre e le lezioni apprese durante il suo viaggio fino a questo punto, Cesare capisce che l’unico modo per evitare la distruzione della Terra è aiutare gli umani e le scimmie a vivere insieme in pace, realizzando gli ultimi desideri del Cesare originale. Se ci pensate bene, Zira, tornando indietro nel tempo, ha persino salvato l’umanità dall’Influenza Simian creata da James Franco nel primo film di questa lista.J.

Lee Thompson ha diretto Battaglia per il pianeta delle scimmie. John William Corrington e Joyce Hooper Corrington hanno scritto la sceneggiatura.

Bonus: Il pianeta delle scimmie (1974 – serie TV)

Sapevate che esiste una serie televisiva de Il pianeta delle scimmie? È stata trasmessa dalla CBS nel 1974. Composta da soli 14 episodi, la serie è interpretata da Ron Harper, James Naughton, Roddy McDowall, Mark Lenard e Booth Colman, ma fu cancellata dopo una sola stagione a causa degli scarsi ascolti. È basata sul film del 1968 Il pianeta delle scimmie e sui suoi sequel. Quindi, se volete guardarlo, vi consigliamo di inserirlo dopo Battaglia per il pianeta delle scimmie (1973).

Bonus 2: Il pianeta delle scimmie (2001)

Dato che questo reboot di Tim Burton, molto criticato, non si inserisce in nessun’altra parte della serie de Il Pianeta delle scimmie, dovreste guardarlo per ultimo, come chicca. Sebbene il film non sia così brutto come lo ricordate, si tratta di uno stand alone unico che ha fatto fiasco quando è stato presentato in anteprima 20 anni fa.

Ambientato nel 2029, mostra Leo Davidson (interpretato da Mark Wahlberg), che lavora a bordo della stazione spaziale Oberon, che entra in una tempesta elettromagnetica e viene scaraventato nell’anno 5021. Atterra su un mondo governato da una scimmia di nome Generale Thade (interpretato da Tim Roth), si allea con una scimmia femmina di nome Ari (interpretata da Helena Bonham Carter) che protesta per i diritti umani e cerca di ritrovare la strada verso la propria casa e il proprio tempo.

Il dottor Zivago

L’ultima valle

Titolo originale The last valley, Gran Bretagna, 1970 dc, avventura, durata 128′, regia di James Clavell

Interpreti: Omar Sharif, Florinda Bolkan, Michael Caine, Nigel Davenport

La scheda del film su FilmTV.it www.film.tv.it

http://www.film.tv.it/scheda.php/film/14508/l-ultima-valle/

La recensione dal sito dell’UAAR www.uuar.it :

L’ultima valle (The Last Valley, GB 1970) di James Clavell, con Omar Sharif, Florinda Bolkan, Michael Caine, Nigel Davenport, Per Oscarsson, Madeleine Hinde, Arthur O’Connell, Yorgo Voyagis, Miguel Alejandro, Christian Roberts, Brian Blessed.

1.   Nel 1641, durante la guerra dei Trent’anni, Vogel (Omar Sharif), un professore tenta di salvare una valle della Germania meridionale dalle orde mercenarie.

2.  Quest’interessante e, purtroppo, misconosciuta pellicola, va citata nella presente filmografia soprattutto per la figura di Erica (Florinda Bolkan): una donna passionale ed esperta di erbe medicinali, che il prete del villaggio, padre Sebastian (Per Oscarsson), perseguita come strega, giungendo a mandarla sul rogo; il professore sarà costretto a uccidere la donna per non farla soffrire. Ma verrà anche il tempo della vendetta: aiutato dagli abitanti del villaggio, finalmente destatisi dal loro torpore bigotto, Vogel finirà per uccidere a coltellate il prete fanatico…

3.   Dal romanzo di J. B. Pick The Last Valley. L’australiano James Clavell (1924-1994) è più noto per i suoi racconti e romanzi (La moscaShogunTai-Pan) spesso adattati per il cinema o la TV. Come regista, L’ultima valle va considerato il suo miglior film.

Questo film è nella scarna lista di opere cinematografiche con contenuto anticlericale o ateoagnostico: il protagonista, uomo pacifico, fugge per boschi e montagne da quella spietata guerra di religione che sconvolse per tre decenni l’Europa centrale, cercando un posto tranquillo. Lo trova in una sperduta valle di quella che, secoli più tardi, sarà la Svizzera. Il paesino in cui si rifugia, dapprima deserto, viene poi conquistato dalle truppe guidate da Michael Caine (non ricordo a quale fazione appartenessero). Tra le truppe e gli abitanti del villaggio si instaura l’accordo di difendere la valle da altre truppe, che prima o poi arriveranno. E così infatti succede.

Ma alla fine della vicenda narrata nel film Vogel dovrà riprendere il suo cammino per sfuggire al delirio fanatico ed assassino che imperversa….

Capricorn One

Titolo originale identico, USA, 1978 dc, fantascienza, durata 121′, regia di Peter Hyams

Interpreti: Elliott Gould, James Brolin, Karen Black, Brenda Vaccaro, Sam Waterston

Al di là della tesi complottistica, che i soliti invasati riservano per lo sbarco su Luna, è un film spettacolare e molto ben fatto, che come altri non mi stanco di rivedere.

La recensione di http://www.film.tv.it

Dopo la conquista della Luna, l’ente spaziale americano ha in programma una missione su Marte. All’ultimo momento però gli astronauti già sistemati vengono fatti scendere e portati un una base militare segreta nel deserto del Nevada: qualcosa non ha funzionato e la missione è stata annullata. Per l’opinione pubblica però tutto deve restare immutato, pena la perdita di prestigio della nazione. Gli astronauti allora vengono obbligati a simulare, come su un set cinematografico, un falso sbarco sul Pianeta Rosso. Al “rientro” però anche la simulazione va storta e il missile si disintegra. Che fare dei tre “eroi dello spazio” ormai morti per tutti? Per fortuna un giornalista ha fiutato l’imbroglio e alcuni “incidenti” sospetti lo mettono sulla pista giusta.

Sotto la parvenza del film di fantascienza, Hyams tocca un argomento delicato: la ragion di Stato. Senza contare il tema sempre attuale dell’immagine (quella di ogni messa in scena) che conferisce verità anche all’irreale. Hyams si conferma un buon autore, particolarmente abile nel dosare il ritmo dell’azione. Insieme ai successivi “Atmosfera zero” e “Timecop” questo film costituisce un’ideale trilogia fantastica.

Come sposare la compagna di banco e farla in barba alla maestra

Titolo originale Melody, Gran Bretagna, 1971 dc, commedia, durata 103′, regia di Waris Hussein, sceneggiatura di Alan Parker

Interpreti: Mark Lester, Jack Wild, Tracy Hide

La trama dalla scheda in www.cinematografo.it  (attenzione, viene svelato il finale!)

Daniel, un ragazzo di dodici anni, allievo di una scuola media inglese, si innamora, pienamente contraccambiato, della coetanea e compagna di classe Melody. Trascurando le rispettive amicizie, i due fanciulli prendono a frequentarsi assiduamente, si giurano amore eterno e si scambiano promesse di matrimonio. Un giorno, marinata la scuola per concedersi una breve vacanza in riva al mare, vengono sorpresi ed aspramente redarguiti dal preside. Delusi dall’incomprensione degli adulti e non sopportando l’idea di una lunga attesa prima di giungere in età matrimoniale, Daniel e Melody decidono di sposarsi senza indugiare oltre. I compagni di classe, dopo una prima reazione ironica e crudele, accettano la situazione e marinano compatti la scuola per assistere alla cerimonia nuziale. All’interno di un deposito ferroviario abbandonato, Daniel e Melody si scambiano solennemente l’impegno di considerarsi marito e moglie. Poco dopo giungono sul posto genitori, preside e insegnanti: l’intera scolaresca coprirà la fuga dei due “sposini” a bordo in un carrello semovente.

Daniel è interpretato da Mark Lester, l’amico con cui fa subito amicizia in classe, più “esperto” e con la fama di duro e scapestrato, è interpretato da Jack Wild. Entrambi gli attori avevano esordito pochi anni prima in Oliver!, un musical che aveva avuto un enorme successo. Melody è interpretata dall’esordiente Tracy Hide, e tutti e tre i giovani attori sono bravissimi. Il film, a mio avviso, è veramente bello: è divertente ed anche commovente (senza essere strappalacrime). Mark Lester e Tracy Hide interruppero poi la carriera di attori, Jack Wild continuò senza eccelsa fortuna ma condusse anche una vita piuttosto sregolata che lo condusse a morte prematura qualche anno fa (scrivo nel 2007). La colonna sonora dei Bee Gees è semplicemente perfetta e l’ultimo brano, “Teach your children” di Graham Nash, conclude degnamente questo bel film: lo vidi alla sua uscita e poi solo trent’anni dopo, quando riuscii ad averne una copia in VHS cercandola in Internet.

Se qualcuno di voi è interessato ad avere una copia in DVD di questo film, per uso esclusivamente domestico, mi contatti in e-mail.

Altri film

(in ordine annuo di produzione, i più recenti in alto)

The good nurse

Mantiene il titolo originale, USA, 2022 dc, durata 121′, regia di Tobias Lindholm. Film distribuito su Netflix e visto il 5 Dicembre 2023 dc.

Interpreti: Jessica Chastain, Eddie Redmayne, Kim Dickens, Noah Emmerich, Malik Yoba.

L’articolo su Cinematographe, consultato il 5 Dicembre 2023 dc, di Danilo Gargano:

The Good Nurse: la storia vera alla base del film Netflix e le differenze tra finzione e realtà

Il film Netflix The Good Nurse è basata su una macabra storia vera che ha come protagonista uno dei killer più prolifici della storia. Rilasciato lo scorso 26 ottobre su Netflix, The Good Nurse è un thriller diretto da Tobias Lindholm e con protagonisti il Premio Oscar Eddie Redmayne e l’attrice Premio OscarJessica Chastain. Tratta dall’omonimo libro di Charles Graeber, il film – presentato in anteprima al Toronto International Film Festival –  è incentrato sulla storia vera del serial killer Charles Cullen.

La storia vera che ha ispirato il film Netflix The Good Nurse

Nato il 22 febbraio 1960 a West Orange, nel New Jersey, Charlie Cullen, secondo le autorità, è uno dei serial killer più prolifici della storia. Cresciuto in una famiglia cattolica irlandese, ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza molto difficile: suo padre (autista di autobus) è morto quando lui aveva solo sette mesi, è stato vittima di bullismo a scuola, a nove anni ha tentato di suicidarsi bevendo sostanze chimiche e durante il suo ultimo anno di liceo ha perso la mamma in un incidente stradale. Il dolore per la perdita di sua madre ha portato Charlie ad abbandonare la scuola e ad arruolarsi nella Marina. Una nuova esperienza che si è rivelata essere più dura del previsto per le molestie e il bullismo subite dai suoi colleghi, che lo hanno portato a provare nuovamente il suicidio.

Dopo essere stato congedato dalla Marina Charlie Cullen si è iscritto alla scuola per infermieri, laureandosi nel 1986. Alla fine degli anni ottanta si è sposato diventando anche padre di due bambine. È proprio in questo periodo che Cullen ha iniziato ad uccidere. A Saint Barnabas, l’11 giugno 1988, ha infatti somministrato a un paziente un sovradosaggio letale di farmaci per via endovenosa. Successivamente ha ucciso altri pazienti, incluso un malato di AIDS a cui ha somministrato un’overdose di insulina.

Dopo che la polizia ha iniziato le indagini per delle sacche di flebo contaminate, Cullen, nel gennaio del 1992, ha lasciato per sempre il Saint Barnabas. Un mese dopo ha trovato lavoro presso il Warren Hospital di Phillipsburg, in cui ha ucciso tre donne anziane con un’overdose di digossina, un farmaco per il cuore.

Dopo aver aver divorziato da sua moglie, la quale ha richiesto anche un ordine restrittivo nei suoi confronti perché “potenzialmente pericoloso” per le loro due figlie, Charlie Cullen ha iniziato a perseguitare una collega facendo irruzioni in casa sua mentre lei e suo figlio dormivano. Denunciato e successivamente arrestato, ha passato diverso tempo in carcere, tentando nuovamente il suicidio.

Una volta libero, è tornato a lavorare e a continuare ad uccidere, lavorando per tre anni come infermiere di terapia intensiva all’Hunterdon Medical Center di Flemington. Nel febbraio 1998 Cullen è stato assunto dal Liberty Nursing and Rehabilitation Center di Allentown, in Pennsylvania, in cui ha lavorato in un reparto di pazienti con dipendenza respiratoria, somministrando farmaci in orari non programmati e causando anche la morte di un paziente, che è stata attribuita a un’altra infermiera.

Dal novembre 1998 e al marzo 1999 ha lavorato presso l’Easton Hospital, in cui il 30 dicembre 1998 ha ucciso l’ennesimo paziente, sempre attraverso una quantità letale di digossina. Charlie Cullen è stato arrestato in un ristorante il 12 dicembre 2003, in seguito alla segnalazione alla polizia della collega Amy Loughren, dopo una morte improvvisa di un paziente per ipoglicemia nell’ottobre 2003.

Due giorni dopo il suo arresto ha ammesso agli investigatori di aver ucciso fino a 40 pazienti nei suoi 16 anni di carriera. Il 2 marzo 2006 è stato condannato a 18 ergastoli consecutivi e attualmente è detenuto nella prigione statale del New Jersey a Trenton. Secondo la polizia Cullen avrebbe ucciso, tra il 1987 e il 2003, quasi 400 pazienti.

Le differenze tra finzione e realtà in The Good Nurse

Nella vita reale Amy Loughren era un’infermiera che lavorava al Somerset Hospital nel New Jersey e viveva nello Stato di New York con le sue due giovani figlie. Soffriva di cardiomiopatia, una forma di malattia cardiaca che le causava episodi di respiro affannoso sul lavoro. Un giorno la donna è crollata al lavoro e ha dovuto andare al pronto soccorso e prendere un pacemaker. Un dettaglio che è diventato essenziale in seguito durante la sua cena faccia a faccia con Cullen. In The Good Nurse, niente di tutto questo viene raccontato.

In The Good Nurse la Loughren si rende conto lentamente che due pazienti sono morti per overdose di insulina, notando un errore nelle rispettive cartelle cliniche.

Dopo aver messo lentamente insieme i pezzi capisce che il responsabile è Cullen. In realtà, gli errori di Cullen erano leggermente più evidenti. Nel libro, Graeber racconta che la Loughren ha esaminato le cartelle di Cullen su un sistema chiamato Cerner, scoprendo “chiazze di parole qua e là e osservazioni frettolose ed errate“. La donna, inoltre, ha scoperto l’insolita quantità di tempo che Cullen ha trascorso all’interno del sistema per rintracciare i pazienti di altre infermiere ai quali iniettare il letale cocktail di farmaci.

In una scena cruciale di The Good Nurse, Amy Loughren incontra Charlie in una tavola calda per convincerlo a confessare i suoi crimini, cosa che è successa per davvero. Nella vita reale, però, Cullen si è mostrato più sicuro di sé di quanto suggerisca il film. “Si è seduto con la schiena dritta“, ha ricordato la donna a People. “Il colore dei suoi occhi è cambiato. Ha fatto un sorrisetto sul viso e ha detto: “Vado a combattere.“”

Come ritrae il film, l’uomo durante l’incontro non ha confessato ma è stato arrestato dalle autorità locali. Sebbene il film faccia credere che Charlie e Amy non si siano mai più visti dopo la condanna a 18 ergastoli dell’uomo, la realtà è un’altra. I due si sono scambiati tantissime lettere e la donna gli ha fatto visita in prigione una dozzina di volte. “Volevo davvero sapere se avevo danneggiato qualcuno accidentalmente. Volevo semplicemente delle risposte“, ha detto la Loughren a Glamour, sottolineando che alla fine non ha ottenuto le risposte che voleva.

La guerra di domani

Titolo originale: The tomorrow war, USA, 2021 dc, durata 140′, regia di Chris McKay. Film visto su Amazon Prime Video.

Interpreti: Yvonne Strahovski, Betty Gilpin, Chris Pratt.

Film di fantascienza, visto su Amazon Prime Video l’8 Dicembre 2022 dc

Un discreto film, con i soliti effetti truculenti e, chissà perché, di nuovo invasori alieni mostruosi e senza apparenti vestiti.

La scheda su https://www.comingsoon.it/, consultato l’8 Dicembre 2022 dc:

Trama

La guerra di domani, film diretto da Chris McKay, è ambientato in un futuro distopico, nel quale l’umanità è impegnata a scontrarsi con un’invasione aliena. Alcuni viaggiatori del tempo provenienti dal futuro, di preciso dal 2051, giungono nel nostro tempo per portare un’orribile notizia: trent’anni dopo la Terra rischia di essere sconfitta dalla minaccia extraterrestre. Il messaggio di allerta, infatti, annuncia una violenta guerra, che vede il mondo schierato contro una specie feroce. Per provare a salvare il futuro dell’umanità, gli scienziati escogitano un piano in extremis nella speranza di vincere o almeno a lottare fino al limite delle possibilità.

La loro idea è arruolare uomini del presente e trasportarli nel futuro per combattere la guerra, che non li riguarda direttamente ma che li coinvolge emotivamente. Tra le nuove leve c’è un uomo, Dan Forester (Chris Pratt), un insegnante di liceo, che sente su di sé la responsabilità dell’esito del conflitto, soprattutto perché spera di donare alla piccola figlia un mondo migliore. Insieme a lui c’è anche una scienziata in gamba (Yvonne Strahovski) e il padre di Dan, Slade (J.K. Simmons), con cui il soldato non ha contatti da tempo: l’insegnante-soldato, infatti, oltre a fare i conti con il conflitto globale, dovrà affrontare anche i fantasmi del suo passato…

Annientamento

Titolo originale: Annihilation, USA/Regno Unito, 2018 dc, durata 120′, regia di Alex Garland. Film per la piattaforma Netflix.

Interpreti: Natalie Portman, Jennifer Jason Leigh, Tessa Thompson, Oscar Isaac, Gina Rodriguez, Benedict Wong, Sonoya Mizuno, Tuva Novotny, Cosmo Jarvis.

Film di fantascienza, visto su Netflix nell’Aprile 2021 dc.

Dal sito https://www.comingsoon.it/, consultato il 5 Aprile 2021 dc:

Annientamento è un film del 2018 diretto da Alex Garland. Quando suo marito Kane (Oscar Isaac) torna a casa in stato confusionale dopo aver completato la sua missione nell’Area X, la biologa militare Lena (Natalie Portman) contatta la dottoressa Ventress (Jennifer Jason Leigh) per scoprire come guarirlo. Avendo scoperto di non avere sufficienti dati per elaborare una cura e una teoria efficace, Lena accetta la proposta di Ventress e si unisce alla squadra composta da Josie Radeck (Tessa Thompson), Cass Sheppard (Tuva Novotny) e Anya Thorensen (Gina Rodriguez) per esplorare l’area. Nella zona, caratterizzata da un fortissimo campo magnetico che impedisce a tutti i dispositivi elettronici di funzionare correttamente, le cinque donne si imbattono in una sorprendente mutazione della flora e della fauna locale. Giunte presso l’ex base militare, le ricercatrici scoprono una memory card che contiene una testimonianza sconvolgente prima di notare che loro stesse stanno iniziando a mutare. Per scoprire il mistero che si cela dietro all’Area X, Lena potrà contare solo sulle sue forze e spingersi dove nessuno è mai riuscito ad arrivare.

Il mistero rimane, l’unica cosa probabile è che la fantomatica entità, giunta dallo spazio come una meteora proprio centrando il faro nell’Area X, intendesse insediarsi sul pianeta prendendoso spunto dalle forme di vita trovate ma modificandole, secondo criteri non chiari.

Dalla voce in Wikipedia, consultata lo stesso giorno:

La professoressa di biologia ed ex-soldato Lena è tenuta in quarantena da quando è tornata dalla sua missione per esplorare un fenomeno anomalo definito il “Bagliore”, in quanto solo lei e suo marito sono riusciti a fare ritorno. Attraverso un flashback, Lena racconta la sua storia durante una seduta con i militari.
Kane, soldato e marito di Lena, si era avventurato nella zona disastrata dell’Area X con la sua squadra, per poi presentarsi a casa sua inaspettatamente dopo quasi un anno dalla sua missione. Egli non ha memoria di ciò che è successo nell’Area X e in breve tempo si ammala gravemente finendo in uno stato comatoso. Lena entra in contatto con il gruppo militare segreto per cui lavorava Kane, conoscendo la dottoressa Ventress, psicologa, la quale le spiega che l’Area X è una zona nella quale tre anni prima era caduto un corpo celeste che aveva dato inizio a un misterioso fenomeno biologico elettromagnetico capace di impedire l’uso dei droni, e tutti coloro che si sono avventurati nella zona, con l’eccezione del morente Kane, non sono mai tornati. Ventress offre a Lena la possibilità di unirsi alla nuova squadra per raggiungere il “Bagliore”, la fonte dell’Area X, e possibilmente trovare una cura per salvare Kane.
Lena accetta e nella squadra di Ventress conosce la fisica Josie Radeck, la geomorfologa Cass Sheppard e il paramedico Anya Thorensen. Entrate nell’Area X, le cinque donne iniziano a provare vuoti di memoria dimenticandosi gli avvenimenti di giorni interi e le apparecchiature GPS e la bussola smettono di funzionare. Durante il cammino trovano varie piante dai fiori variopinti mutanti, e in seguito uccidono un alligatore che le attacca presso la palude. Scoprono che il rettile stesso è un organismo mutante, notando che le sue fauci contengono più file di denti come uno squalo. Giunte a un insediamento militare abbandonato, il gruppo scopre gli effetti lasciati dalla squadra di Kane e una memory card con un messaggio. Trovano un filmato nel quale Kane sventra un soldato vivo, rivelando che il suo intestino è rimpiazzato da viscidi organismi semoventi. La sera, una creatura mutante irrompe nella base lacerando la recinzione e prende con sé Cass, uccidendola.
Proseguendo per raggiungere il faro dove è localizzato il Bagliore, il gruppo attraversa un villaggio dove trovano piante con forma di esseri umani. Josie ipotizza che il Bagliore smisti e riorganizzi il DNA in organismi mutati come un prisma che distorce e rarefa la luce, e si rendono conto che anche loro stanno iniziando a cambiare. La sera Anya impazzisce e tiene Lena, Josie e Ventress legate ad alcune sedie. Anya dice di avere scoperto che Kane era il marito di Lena e accusa il gruppo di avere ucciso Cass. Improvvisamente Anya ode Cass che grida aiuto ed esce per soccorrerla. Tuttavia viene assalita dalla creatura, un orso, capace di riprodurre le urla disperate della ragazza poiché la mente morente di Cass è stata rifratta dall’Area X e ora una parte della sua anima vive nella bestia mutante. L’orso entra nella casa e attacca Lena, ma alla fine Josie riesce a liberarsi, recuperare un’arma e ucciderlo.
Il gruppo inizia a considerare l’abbandono della missione e tornare indietro. Ventress decide di proseguire da sola per il faro. Josie inizia a trasformarsi in una pianta e Lena decide di raggiungere la fonte del Bagliore al faro. All’interno della struttura, Lena trova un corpo bruciato, un grosso buco e una videocamera con un filmato. Nella registrazione Lena vede Kane che descrive gli effetti che il Bagliore ha su di lui e chiede alla persona che lo sta filmando di andare da Lena, per poi suicidarsi usando una granata al fosforo bianco. Dopo essere bruciato, la persona a cui Kane ha parlato entra nell’inquadratura rivelando di essere una sua copia aliena.
Lena si inoltra nel buco e attraversando una galleria giunge in una tana dove trova Ventress, che afferma che il Bagliore farà espandere l’Area X sulla Terra, annientando e riorganizzando tutte le forme di vita. Ventress si tramuta in uno strano organismo dall’aspetto nuvoloso e prende il sangue di Lena da una ferita, assumendo poi una forma umanoide. L’alieno imita i movimenti di Lena e alla fine ne assume l’aspetto. Approfittando del modo in cui la imita, Lena riesce a fare prendere in mano all’alieno una granata al fosforo e l’accende prima di scappare. L’alieno viene inghiottito dalle fiamme che si diffondono nel faro, mentre l’atmosfera dell’Area X cessa di esistere.
Terminata la seduta, Lena si ritrova con Kane, che si è rapidamente ripreso. Lena gli domanda se è il vero Kane, e lui risponde «non credo», chiedendole poi se lei è sicura di essere la vera Lena, senza ottenere risposta. Lena e Kane si abbracciano, mentre le loro iridi brillano in maniera innaturale.

La fine

Titolo originale: How it ends, USA, 2018 dc, durata 113′, regia di David M. Rosenthal.Film per la piattaforma Netflix.

Interpreti: Theo James e Forrest Whitaker.

Film apocalittico, visto nel Marzo 2021 dc su Netflix (strano vedere in modo televisivo film che dovrebbero essere visti al cinema).

Dalla voce in Wikipedia, consultata il 26 Marzo 2021 dc:

Seattle. Samantha e Will sono una giovane coppia in attesa del loro primo figlio. Will parte per Chicago per incontrare i genitori di lei e annunciare le nozze ma è preoccupato per i rapporti tesi con il futuro suocero, Tom, un ex-militare che ha fatto fortuna.
La cena dai suoceri si rivela un disastro: Tom è molto critico perché a suo dire, Will non ha progetti per il futuro e soprattutto teme che il ragazzo voglia mettere le mani sul patrimonio della famiglia.
L’indomani Will riceve una telefonata dalla fidanzata ma durante la chiamata la comunicazione viene interrotta bruscamente. Da quel momento le comunicazioni tra le due coste degli Stati Uniti non sono più possibili. Will si reca in aeroporto ma scopre che tutti i voli sono stati cancellati. Mentre dalla tv un notiziario annuncia che sulla costa ovest degli Stati Uniti si è verificato un non meglio precisato “evento sismico di grande intensità”, l’elettricità salta completamente in tutti gli Stati Uniti.
Will ritorna a casa di Tom e i due decidono di mettersi in macchina insieme per raggiungere Seattle. Nel frattempo gli effetti del black-out hanno scatenato panico e anarchia: le persone tentano in tutti i modi di abbandonare la città o di accaparrarsi provviste e carburante a qualunque costo, anche ricorrendo a rapine e violenze.

Anche Will e Tom sono vittime di tali tentativi e durante la notte vengono inseguiti e tamponati da un uomo evaso di prigione a bordo di un’auto rubata alla polizia e deciso a impossessarsi delle loro cose. Tom riesce a neutralizzare l’uomo ma nello scontro rimane gravemente ferito alle costole e la loro auto danneggiata seriamente. Raggiunta una riserva indiana, l’auto viene riparata da una giovane meccanica, Ricki, desiderosa di andare verso ovest per cambiare vita. Tom la convince a unirsi a loro offrendole 2000 dollari, superando così la diffidenza della donna. Intanto si verificano strani fenomeni: migrazioni di uccelli fuori stagione, tempeste di fulmini, temporali di intensità eccezionale, terremoti continui e ondate di calore anomale. Nessuno sa cosa sia avvenuto davvero e le scarse trasmissioni radiofoniche riportano solo ipotesi vaghe e contraddittorie con accenni a un possibile bombardamento nucleare e invitano chi può a rifugiarsi in Canada, apparentemente rimasto indenne.

Durante il viaggio verso ovest, i tre incontrano scene di distruzione e di desolazione: auto e case abbandonate, treni e aerei distrutti, gente in fuga a piedi da città in fiamme, villaggi asserragliati in stato d’assedio che non consentono il passaggio ai non residenti. Vengono fermati da una donna disperata che chiede aiuto ma si tratta di una trappola ideata da tre rapinatori che dopo una sparatoria rubano loro le preziose scorte di benzina e fuggono in macchina. Will, Tom e Ricki si lanciano all’inseguimento per recuperare il carburante e Ricki, sparando alle gomme dell’auto dei rapinatori, ne provoca la morte. Sconvolta per l’accaduto e per tutte le scene di disperazione e desolazione che ha visto e pentitasi di aver accettato di unirsi a Will e Tom, Ricki li abbandona per tentare di tornare alla riserva.

Le condizioni di Tom intanto peggiorano: le fratture alle costole gli hanno danneggiato i polmoni in maniera irreparabile. Consapevole di non aver scampo, si riconcilia finalmente con Will. Dopo aver forzato l’ennesimo posto di blocco alle porte di una cittadina, Tom, consumate le ultime forze in una sparatoria per difesa, muore. Will, rimasto da solo, riesce alla fine a raggiungere Seattle, trovando la città completamente distrutta, piena di persone morte nelle auto ferme, con l’aria irrespirabile e ricoperta da una pioggia di cenere. Arrivato a quel che resta della loro casa, Will trova un messaggio in cui Sam gli ha lasciato l’indirizzo del luogo in cui si è rifugiata insieme al vicino Jeremiah. Qui finalmente Will e Sam si riabbracciano e Will scopre che Seattle è stata devastata da uno tsunami. Jeremiah intanto mostra chiari segni di squilibrio mentale: innamoratosi di Sam, e irritato dal ritorno di Will, tenta di ucciderlo con una pistola. Will però riesce a sparargli per primo, uccidendolo. Nel frattempo, dopo una serie continua di terremoti, scoppia un’eruzione vulcanica che scatena una nube piroclastica che si dirige verso il rifugio dei due. Will e Sam fuggono disperatamente in auto e riescono all’ultimo a salvarsi, dirigendosi verso il Canada.

Io-Sola sulla Terra oppure (non si capisce) Io sola sulla Terra

Titolo originale: Io, USA, 2019 dc, durata 96′, regia di Jonathan Helpert. Film per la piattaforma Netflix.

Interpreti: Anthony Mackie e Margaret Qualley.

Film apocalittico, il mio genere preferito, mi interessava molto e l’ho subito visto. Mi ha deluso, mi aspettavo di più, e in parte sono d’accordo con le critiche e recensioni che ho letto. Qui di seguito, non potendo riprodurla in questo blog perchè Riproduzione riservata, il link alla recensione di Il Cineocchio, https://www.ilcineocchio.it/cinema/io-recensione-film-sci-fi-netflix/ .

Tra le recensioni lette, una dlle più interessanti è tra quelle apparse su FilmTV, a firma di Supadany, di cui riporto un sunto

In tempi non sospetti, più voci hanno lanciato un grido d’allarme: il punto di non ritorno per intraprendere le azioni indispensabili per impedire che il nostro pianeta diventi inospitale per l’umanità si sta avvicinando ad ampie falcate, e forse è più prossimo di quanto le più fosche previsioni dicano.

Per il pianeta non sarà altro che un passaggio di consegne, da una lunga agonia a un lento nuovo inizio che, nel corso dei millenni, vedrà la rinascita della natura in tutta la sua bellezza e prosperità. Contestualmente, per la maggior parte della popolazione mondiale vorrà dire morta certa, con l’obbligo di guardare altrove per non vedere cancellata definitivamente la razza umana.

Dalla sfera di cristallo, Io-sola sulla Terra sceglie di poggiare lo sguardo su un futuro che non vorremmo mai vivere. Evita accuratamente il clamore scaturito da soluzioni eclatanti, ma non riesce nemmeno a intercettare uno zenit narrativo tale da attribuirgli un’identità cha valga la pena conservare.

In un futuro non meglio specifico la Terra è ormai una landa abbandonata. La maggior parte dell’umanità è deceduta per colpa di batteri ed eventi climatici infausti, mentre la restante parte è già nello spazio (Nota mia: su una colonia spaziale in orbita attorno a Io, uno dei satelliti di Giove), in attesa di orientarsi verso un nuovo pianeta da colonizzare.

Nel frattempo, Sam Walden (Margaret Qualley) (è la figlia di uno scienziato che tentava in tutti i modi di convincere l’opinione pubblica che la natura avrebbe trovato il modo di sopravvivere, e che bisognava insistere a sperimentare e cercare di trovare il sistema per non abbandonare il pianeta. Il padre della ragazza è però morto nel frattempo ma lei non ha dato la notizia) non vuole abbandonare il pianeta e cerca con tutte le sue forze di individuare una fonte di speranza, un segnale che consenta di pensare a un futuro sulla Terra.

Pochi giorni prima della partenza degli ultimi mezzi di collegamento con lo spazio, incrocia la strada di Micah (Anthony Mackie) (Nota mia: Micah arriva a bordo di una mongolfiera con una cabina metallica robusta e chiusa, che viaggia con il gas elio, e proviene da Exodus, l’ultimo nucleo di umani in partenza per Io), che prova in tutti i modi di convincerla a partire con lui. Sam avrà pochi giorni a disposizione per decidere che direzione intraprendere.

L’assunto è intrigante e lo sviluppo adopera un architrave spoglia, con pochi elementi incardinati tra la speranza di chi non si perde mai d’animo e condizioni di vita sfavorevoli, denotando un profondo legame con le radici di una specie, l’arte e secoli di conoscenza da non abbandonare, insomma quelle cosette che interessano ormai a una percentuale ininfluente dell’umanità.

Questa scelta è apprezzabile ma l’attuazione è frastagliata, anche in considerazione della diradata presenza umana…lo svolgimento s’incarta, corre ripetutamente di cadere nella stagnazione e, ogni qualvolta tenta di divincolarsi, non fa altro che peggiorare le cose.

…i discorsi di natura esistenziale sono per lo più abbozzati, le nozioni sulla bellezza dimenticata arrivano senza preavviso…e la parte finale mostra definitivamente il fianco, cercando un approdo metafisico attraverso metodi frettolosi, senza poter contare su una costruzione di lungo corso che ne confermi la validità.

Dunque, Io sola sulla terra non è per niente una pellicola sciocca, ha intenzioni d’indubbio valore e mette sul piatto i danni che stiamo provocando e consegnando alle generazioni che verranno, ma promette la luna senza riuscire ad arrivarci, almeno a livello cinematografico, azzardando soluzioni che espone senza l’autorevolezza indispensabile per far attecchire il suo seme.

Alla fine del film, l’appuntamento per la partenza verso lo spazio viene spostato in un punto più lontano e l’elio a bordo della mongolfiera non è sufficiente per arrivare fino a lì: Micah si dispera ma Sam sa dove trovare bombe di elio, in una città a due giorni da dove si trovano. I due partono con due quad portandosi dietro la mongolfiera, raggiungono le bombole di elio ma, quando devono sbrigarsi a partire la ragazza, convintasi che l’aria è respirabile, si toglie la maschera d’ossigeno e sembra avere ragione, e comunica al suo compagno che lei non partirà. In precedenza aveva affidato alle onde radio un suo messaggio, ripetuto all’infinito, in tal senso rivolto a chi fosse ancora sulla Terra per convincerlo a rimanere.

Le scene finali vedono la mongolfiera partire e le immagini di Sam sulla riva del mare e un bambino che la raggiunge, sicuramente frutto della brevissima relazione con Micah.

Discutibile che la ragazza prevedesse in sogno quando sarebbe accaduto. Purtroppo anche in questo film ci sono esclamazioni come “grazie a Dio”, il riferimento biblico già nel nome Exodus e Micah, in una scena, che legge appunto quella parte della Bibbia.

Infine: non è importante ma è comunque da annotare, soltanto per amor della precisione, che Micah è di colore.

La mia diabolica amica

Titolo originale Meine teuflisch gute Freundin, 2018 dc, durata 99′, regia di Marco Petry. Uscito nei cinema in Germania e in Austria nel 2018 dc, visto su Netflix in versione originale con sottotitoli in italiano il 4 Gennaio 2021 dc.

Interpreti: Emma Bading, Janina Fautz, Emilio Sakraja e Ludwig Simon.

Un grazioso film, divertente e ironico, la cui protagonista è Lilith (per alcune leggende era la prima donna), figlia del diavolo, con splendidi capelli rossi (idea peraltro banale: la figlia del diavolo con i capelli rossi….).

Tra le poche e scarne trame presenti in rete, questa è dal sito Notizie.it https://www.notizie.it (ma è presente anche altrove…):

Lilith è una giovane ragazza che vive isolata in un grattacielo di Francoforte, ha solo contatti col mondo esterno via internet.

In realtà Lilith è una ragazza speciale, è la figlia del diavolo, libera di fare cattiverie nel mondo solo tramite computer.

Questa situazione è frustrante la giovane Lilith, vuole uscire per strada ed essere più cattiva di come è adesso. Allora stringe un accordo con padre: se riuscirà a far diventare cattiva una persona buona potrà scorrazzare per il mondo come vuole. Da qui l’interazione con la vittima Greta Birnstein (Janina Fautz) ed i compagni di scuola che porterà a situazioni comiche ed imprevedibili.

Fahrenheit 451

Titolo originale identico, USA, 2018 dc, durata 98′, regia di Ramin Bahrani. Film per la tv.

Interpreti: Michael B. Jordan e Michael Shannon

Riedizione del capolavoro di Truffaut del 1966 dc, non ne regge assolutamente la pesante eredità, malgrado le buone intenzioni. Ne sono venuto a conoscenza per caso, l’ho visto subito, ma è stata una delusione. Ecco di seguito qualche recensione

Da Film.Tv :

Trama

451 gradi Fahrenheit è la temperatura alla quale brucia la carta. In un futuro segnato dal totalitarismo, i vigili del fuoco hanno il nuovo dovere di incendiare le cose piuttosto che spegnerle. In particolare, hanno il compito di bruciare tutti i libri in modo da eliminare ogni libertà di pensiero e ogni forma di azione indipendente. Guy Montag, giovane vigile del fuoco, rimetterà in discussione il suo lavoro e scoprirà l’esistenza di un gruppo clandestino di ribelli in grado di memorizzare l’intero contenuto di un libro per preservarlo anche senza l’ausilio della carta.

Recensione di Supadany:

Abituati come siamo a vedere con sospetto ogni regola imposta, non riusciamo a captare il futuro, cotti a puntino per sostenere a spada tratta cambiamenti che potrebbero essere ben peggiori di quanto una politica blanda – e sostanzialmente incapace – potrebbe disegnare.

Dato il malcontento generale e dilagante a ogni latitudine, il remake di Fahrenheit 451 diretto da Ramin Bahrani per Hbo cade nel momento storico più appropriato, peccato non vada oltre a un aggiornamento oleografico, rimanendo aleatorio quando dovrebbe sopraggiungere uno slancio, utile giusto – e soltanto – per riportare alla memoria l’originale diretto da François Truffaut, quello sì assolutamente imperdibile, una pietra miliare da tenere a memoria.

In un futuro temporalmente non ben identificato, la libertà di opinione è bandita, tanto che i vigili del fuoco non devono più spegnere gli incendi, bensì bruciare i libri e cancellare qualsiasi forma di pensiero sia rischiosa per il regime dominante. In questa realtà, Beatty (Michael Shannon) è un integerrimo esecutore, ma il suo adepto, nonché erede designato, Guy Montag (Michael B. Jordan), palesa dei dubbi quando entra in contatto con la ribelle Clarisse (Sofia Boutella). 

La possibilità di salvare e tramandare la conoscenza di secoli di cultura richiede a Guy di mettersi in gioco, senza escludere un sacrificio estremo.

Il periodo storico che stiamo vivendo è – ahinoi e da qualsiasi punto di vista lo si voglia scansionare – perfetto per rieditare il capolavoro diretto nel 1966 da François Truffaut.

Sfortunatamente, l’affidabile Ramin Bahrani non riconferma le doti di osservazione intraviste nei suoi precedenti A qualsiasi prezzo e 99 homes, entrambi in concorso a Venezia e portatori di una visione tutt’altro che innovativa ma assolutamente integra e pertinente, calzante alle singole contingenze prese in esame (il profitto speculativo, commerciale e produttivo nel primo, immobiliare nel secondo).

In questo caso, la denuncia sui rischi che stiamo correndo è chiara, ma l’esposizione è labile, soggetta alle intemperie, le stesse che vuole trasmettere.

Di fatto, la sostanza è ben visibile. Quando il sistema democratico genera malcontento, si apre il varco a posizioni estreme che, per modificare gli equilibri, rivoluzionano usi e costumi. Nella fattispecie, ogni forma di conoscenza letteraria è reputata dannosa e deleteria, il popolo è subito affabulato, tanto più che – già oggi – leggere e informarsi per la maggioranza non ha più senso, d’altro canto i poteri forti si nutrono da sempre dell’ignoranza del popolo per proliferare senza ostacoli.  

Purtroppo, l’apparato filosofico è di tutt’altra costituzione, annientato all’origine. Il motore gira a memoria e timidamente, senza ricercare un’analisi puntuale e psicologicamente si dimostra poco arguto, diretto e frettolosamente ristretto come una produzione televisiva – il più delle volte – necessita, scavallando, anche brutalmente, ogni altra impellenza.

In un contesto che come nasce si esaurisce, poco influiscono le interpretazioni, da abile – e collaudato – meschino di Michael Shannon e da giovane eroe con tanto di ravvedimento in corso d’opera di Michael B. Jordan.

Ulteriori elementi che conducono alla nascita di un film in grado di stimolare una riflessione ma che, in fondo, è sostanzialmente innocuo, colpendo l’attenzione solo di chi non conserva il ricordo dell’originale e che può tornare utile esclusivamente per (ri)prenderlo in mano.

Volendo anche dignitoso, ma in buona sostanza esangue.

Da Movie Player , recensione di Luca Liguori:

Fahrenheit 451: il capolavoro di Bradbury aggiornato all’era Trump

29 Giugno 2018 L’atteso film di Ramin Bahrani con Michael B. Jordan e Michael Shannon nei ruoli principali, remake del film di François Truffaut del 1966, è una grande delusione: tutta la pellicola si riduce ad un banalissimo sci-fi movie con elementi action e due protagonisti tanto affascinanti quanto sprecati.

“Non c’è bisogno di bruciare libri per distruggere una cultura. Basta fare in modo che la gente smetta di leggere”. Ray Bradbury scrisse questa frase nel 1951 in quello che è considerato il suo libro più famoso, e lo fece in seguito ai roghi nazisti e le “grandi purghe” di Stalin. Oggi il mondo è cambiato ed è logico pensare che se fosse scritto adesso il romanzo sarebbe sostanzialmente diverso, ma quella frase, quel sentimento, rimane comunque molto attuale. Anzi, nell’epoca delle fake news e dell’informazione 2.0 si potrebbe modificare il finale di quella frase in “basta che la gente si limiti a leggere i titoli”.

Non è difficile capire, quindi, il perché di questo nuovo adattamento e nemmeno il perché di così tante modifiche al plot originale. Nel film e nella sceneggiatura di Ramin Bahrani non si bruciano solo libri ma anche dispositivi elettronici e tutto ciò che arriva alla popolazione è controllato e censurato dal governo. Non c’è quindi il divieto di leggere o ad accedere alle informazioni, ma una rigidissima censura preventiva. Un lavaggio del cervello collettivo che farebbe impallidire anche i più celebri e tetri futuri distopici del grande e piccolo schermo.

Mi piace l’odore della cenere al mattino

Così come nel romanzo, e nel precedente adattamento di Truffaut del 1966, in questa nuova società i pompieri non sono coloro che spengono i fuochi, ma li appiccano. Non vanno in soccorso dei cittadini, ma vanno alla caccia dei trasgressori punendoli col fuoco o, come in questa nuova versione, cancellando la loro identità. Guy Montag (Michael B. Jordan) è uno di questi, anzi è tra i più amati dal pubblico ed è in vista della tanto agognata promozione che lo farà succedere al suo mentore, il Capitano Beatty (Michael Shannon).

Se Bradbury faceva sì che Montag scovasse una Bibbia scampata al rogo, se ne impadronisse e ne rimanesse affascinato a tal punto da disertare, nel film HBO a svolgere la stessa funzione è un libro di Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. E in questa differenza, banale eppure sostanziale, c’è già un esempio di tutto ciò che è sbagliato in questo adattamento. Perché il cambiamento che avviene nel protagonista è fondamentale non tanto per la trama ma per carpire l’anima del lavoro di Bradbury, eppure nel nuovo film questo “risveglio”, e le sue motivazioni, non arrivano mai allo spettatore. Il film scorre lo stesso ma solo perché la storia è nota a tutti, ma la sceneggiatura in quell’occasione fallisce miseramente.

Così come fallisce nel non sfruttare al meglio le tante novità inserite: il rapporto del protagonista prima con il padre e poi con il suo capitano, l’ambiguità di Beatty e la sua stessa fascinazione verso la cultura. Perfino la società segreta di “uomini libro”, che è uno dei momenti più memorabili del romanzo, qui viene trattata con quella stessa superficialità che il messaggio del film sembra condannare.

The Fireman’s Tale

Ma l’errore più grande che compie Bahrani è il rinunciare all’universalità del tema per far diventare tutto una mera critica all’era Trump. Perché se è vero che la sua società distopica è effettivamente spaventosa e, purtroppo, fin troppo plausibile, e che alcune trovate come lo slogan dei pompieri (Time to burn for America again!) sono brillanti, il tutto finisce con il diventare quasi una brutta copia di quel capolavoro seriale che è The Handmaid’s Tale di Hulu, unito magari al Black Mirror di Netflix.

L’idea che questa agghiacciante società distopica sia tutta americana e che invece, superato il confine col Canada, possano esserci milioni di lettori felici con Kindle pieni di qualsiasi libro mai esistito (Nota mia: infatti l’idea è veramente infelice, ma assicuro che nel film non si fa accenno ai lettori Kindle! Non si capisce, tra l’altro, come questo misterioso dna chiamato Omnis, inoculato in un uccello che poi arriverà in Canada, possa trasmettersi agli umani e risvegliare le loro coscienze e poi, se in Canada non sono ottenebrati come negli Usa, cosa servirebbe?), non solo fa sì che tutto lo scenario sia meno potente e spaventoso, ma soprattutto rende anche inutile quella che sembra essere la missione ultima dei protagonisti positivi del film. Tutta la pellicola si riduce quindi ad un banalissimo sci-fi movie con elementi action e due protagonisti tanto affascinanti quanto sprecati. Cosa penseranno coloro che non hanno mai letto il romanzo di Bradbury? Saranno veramente invogliati ad approfondire ed acquistare il libro? Non c’è effettivamente il rischio che questo film faccia l’esatto contrario di quel che auspicava lo scrittore?

Contromano

Titolo originale identico, Italia, 2018 dc, durata 103′, regia di Antonio Albanese. Interpreti: Antonio Albanese, Alex Fondja, Aude Legastelois, Daniela Piperno, David Anzalone.

L’ennesimo film che non sono riuscito a vedere al cinema per il pochissimo tempo, ormai da tempo, di permanenza dei film nelle sale. Ho dovuto vederlo a pagamento in un sito.

La recensione di www.mymovies.it a firma di Giancarlo Zappoli:

Mario Cavallaro è un abitudinario incallito. Tutto ciò che richiede un cambiamento lo spaventa e lo irrita al contempo. Ha un solo hobby: l’orto che ha realizzato sulla terrazza dello stabile in cui abita nel centro di Milano. Quando si ritrova dinanzi al suo negozio di calze un africano ambulante che vende lo stesso articolo (anche se di qualità inferiore) a prezzi stracciati, elabora un piano che potrebbe servire da modello. Decide di rapirlo e riportarlo in Africa. Se tutti facessero così il problema dell’immigrazione extracomunitaria sarebbe risolto…

La definizione di commedia con la specificazione ‘agrodolce’ sta un po’ stretta a questa quarta prova registica di Antonio Albanese.

L’agro infatti prevale nettamente e se sono poche le occasioni per sorridere, quelle per ridere risultano limitatissime. Perché Albanese questa volta vuole, come lui stesso afferma, “raccontare questioni complesse in modo paradossale” riuscendovi grazie all’iniezione di dolente malinconia che permea l’intero film.

Mario Cavallaro non è un uomo cattivo; è fondamentalmente un uomo solo che ha fatto del non cambiamento uno scudo protettivo che si costella di aculei quando si trova davanti coloro che finiscono con il tentare, con il loro modo di vivere, non di distruggerlo ma solo di scalfirlo. Come tanti di noi risponde in modo infastidito alle richieste di oboli o acquisti di vario genere che gli vengono avanzate da venditori ambulanti che hanno la pelle di un colore diverso dal suo. Non sa che in Africa si dice che “chiedere non è rubare” ma sperimenta solo l’insistenza nella richiesta che può fare la differenza.

Anche la sua ‘vittima’, che si porta dietro quella che presenta come sorella, non è priva di difetti e questo è un elemento che accresce il valore di una sceneggiatura che, fatto salvo il ridondante predicozzo finale, non vuole indulgere né alla retorica né al manicheismo. Da una parte e dall’altra ciò di cui ci si è privati (le proprie origini per gli uni e una vita che contempli un lasciarsi andare al sentimento per l’altro) ha finito con l’imprimere un segno e con lo spingere a una coazione a ripetere gli errori.

Albanese ci vuole invitare a sperare in qualche piccola crepa che consenta di arrivare, se non allo sgretolamento, almeno a una breccia nei muri divisori. Così da permetterci di guardare all’altro, al diverso da noi non ingenuamente (perché sarebbe stupido farlo) ma neanche arroccati nel pregiudizio. Mario, Oba e Dalida sono chiamati a un on the road che non va solo da Milano al Senegal ma dal proprio io passato al proprio io futuro.

Revenant-Redivivo

Titolo originale The Revenant, USA, 2015 dc, durata 156′, regia di Alejandro González Iñárritu. Interpreti: Leonardo Di Caprio, Tom Hardy.

Un film che mi è piaciuto molto, finalmente un western duro, scarno, senza molta retorica, un ambiente nevoso e freddo, senza quasi mai sole, spettacolare e incredibilmente reale nelle splendide immagini del film. A me piacciono la neve e il freddo, ma confesso che le immagini mi restituivano un ambiente ostile e pericoloso. Ovviamente, gli stessi luoghi sarebbero molto più belli e vivibili con il sole e tempo sereno!

La recensione di ElPaneZ del 13 Gennaio 2016 dc, leggermente accorciata, su www.mymovies.it/ :

Un film difficile da “digerire”, vogliate capirmi!

NO SPOILER: Sarà perché adoro la regia di Iñàrritu oppure le prestazioni di Di Caprio che mi hanno portato ad amare questa pellicola? Assolutamente NO, Revenant è un film maestoso che trasmette ogni tipo d’emozione, che scava dentro il proprio io e ti perfora come un pugnale facendoti riflettere sulla natura umana e il suo comportamento.

La regia è pulita, mantiene sempre lo stesso ritmo, i piani sequenza sono lunghi, dettagliati e paurosamente efficaci sullo spettatore. La cinepresa riprende l’azione in modo originale, spostandosi dinamicamente mantenendo un primo piano eccellente immergendoti nel film.

La sceneggiatura l’ho trovata pazzesca, pochi dialoghi fan si che il film venga interpretato da solo, lasciando spazio alla potenza fotografica e della regia. Essa permette di leggere il pensiero degli attori con una pulizia incredibile sia nei movimenti che nei dialoghi in modo incredibilmente spontaneo.

La fotografia non poteva essere migliore, tutto naturale, grazie ad una luce del sole incantevole della zona in cui hanno girato, che rende il film estremamente reale e immersivo. Inoltre i panorami ripresi dall’alto sono letteralmente mozzafiato.

L’interpretazione di Di Caprio parla da sola, l’attore non dice una parola per 40 minuti, con una espressione trasmette mille emozioni riuscendo a farti entrare dentro il personaggio, in tutti i sensi, da brivido. Tutto il resto del cast, stellare, un Tom Hardy motivato e incalzante.

La colonna sonora è composta da sinfonie di prima categoria messe al posto giusto e al momento giusto.

Se devo proprio trovare un difetto è forse l’eccessività di alcune scene, alcune molto surreali, ma non prendiamoci in giro, è soltanto una mossa per dare più spettacolo, e sinceramente non mi ha dato poi così tanto fastidio.

Un capolavoro a tutti gli effetti come non se ne vedevano da molto, molto tempo. Un film potente maestoso e colossale da risultare difficile da “digerire”, vogliate capirmi, ho ancora il cuore in gola dopo che è un’ora dall’uscita dalla sala.

La teoria del tutto

Titolo originale The Theory of Everything, Gran Bretagna, 2014 dc, durata 123′, regia di James March

La recensione a cura di Annarita Cavaliere su35mm.it

Stephen Hawking è il celebre astrofisico che ha dedicato la sua vita alla Teoria del tutto, a cui ancora oggi sta lavorando. Un giovane promettente, su cui anche i professori investono, che incontriamo nel momento in cui s’innamora di quella che diventerà sua moglie: Jane, una studentessa di Lettere. La serenità iniziale si blocca quando Stephen scopre di essere affetto dalla progressiva atrofia muscolare, a cui vengono dati massimo due anni di vita.

L’amore di Jane persiste, e insieme scelgono di continuare a vivere quel tempo che tanto affascina il pensiero scientifico di Hawking. Ritorna subito la serenità, nonostante le grandi difficoltà della coppia, ma tra i due sboccia una famiglia piena d’amore, basata sulla totale comprensione, che porta quasi all’annullamento dell’altro.

Hawking, infatti, non rimane il marito di Jane per tutta la sua vita, che supera di molto i due anni previsti dai dottori, essendo tutt’ora vivo; a un certo punto Jane comincia a desiderare una famiglia “normale”, crollando un po’ alla volta e scoprendo una nuova relazione di coppia con il maestro del coro, contesto a cui si avvicina per volere della madre, sperando in un miracolo per Stephen.

La contrapposizione tra fede scientifica (Stephen) e fede cristiana (Jane) è uno dei leitmotiv della storia; in fondo il regista si basa proprio sulla biografia scritta da Jane Hawking.

Un film biografico che si sofferma sui dettagliati gesti d’amore, sugli sguardi pieni di sentimento e sulla leggera ironia. Inserisce le straordinarie interpretazioni di Eddie Redmayne e Felicity Jones in un’ambientazione pittorica anni ’60, che rievoca nei colori e nelle sfumature il pittore inglese William Turner (menzionato in un dialogo), esponente del Romanticismo in pittura, ma che ha seminato le basi per l’Impressionismo: un artista tra due mondi completamente diversi eppure vicini.

Come costruire una biografia partendo da un testo letterario restando tra la narrazione e l’audiovisivo?

Il regista James Marsh interpreta e crea associazioni partendo da elementi tratti dal racconto e dalla vita di Stephen Hawking.

La vita della stella, che scientificamente muore collassando con un graduale rimpicciolimento e decadimento, diventa la metafora della stella Hawking, che nel momento del suo massimo splendore subisce i danni della malattia.

L’idea di totalità non solo si esprime nella ricerca del fisico, ma è associata a qualcosa di più profondo, come il Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) di Richard Wagner, che entra nel film con un valore narrativo. Stephen ascolta più volte Wagner, in particolare Die Walkure Act I Vorspiel e Siegfried Act III, che dona quella scintilla che gli permette di mettere in moto la sua mente e creare, o di trovare la forza per accettare una vita complicata.

Turner e Wagner quindi due artisti che gettano le basi per la rivoluzione artistica che sarà ripresa, ampliata e argomentata nel ‘900. Artefice della trasformazione estetica in musica, Wagner ha segnato la fine del Melodramma tradizionale, portando a una sintesi tra tutte le componenti per un’opera in cui ogni elemento conserva il suo valore autonomo e aggiunge qualcosa all’altro con cui si confronta; infine, la musica diventa supervisore del senso.

C’è una scena particolare dove la musica assume un valore simbolico: Stephen è a un concerto al teatro, mentre la moglie è in campeggio con i figli e il suo maestro di coro; nel momento in cui avviene il tradimento, il montaggio alternato ci mostra la sua prima grande crisi che lo porterà al coma.

In La teoria del tutto la dialettica tra Scienza e Fede diventa quel movimento interno che spinge Stephen a coltivare la sua curiosità, a cercare un punto in comune, la sintesi, l’origine di ogni cosa, la forza che ha creato il tempo. Il tempo è un’entità dal momento in cui accade qualcosa d’importante nella vita, l’amore ad esempio, così com’è stato per il fisico Stephen Hawking.

Il concetto di tempo è nella Teoria del tutto, ma anche nei discorsi e nell’estetica del film. Si respira quasi il tempo che vivono Stephen e Jane, godendoci diverse situazioni che scandiscono la vita di coppia e la carriera. Il tempo però è anche quello del cinema, che non sempre coincide con quello reale, in quanto spesso lo simula, sottrae o aggiunge: è un tempo che interpreta.

Stephen Hawking nell’elaborazione di un’unica equazione parla della possibilità di riavvolgere il tempo, per capire da dove ha origine.

Il film termina con la pellicola che si riavvolge su stessa, che mostra i momenti fondamentali della vita di Stephen e Jane, fermandosi dove tutto è iniziato: l’incontro, l’innamoramento, l’amore.

Transcendence

Titolo originale identico, USA, 2014 dc, durata 119′, regia di Wally Pfister

La scheda firmata da Gabriele Niola suwww.mymovies.it

Il dr. Will Caster è uno dei più brillanti studiosi nel campo dell’intelligenza artificiale, al momento al lavoro su PINN, un sistema altamente avanzato di computer con autocoscienza basato sul cervello di scimmie usate come cavie. Quando un attentato, portato da una frangia terroristica che mira a bloccare lo sviluppo di simili tecnologie, lo condanna a morte la moglie, anch’essa studiosa, decide di sottoporre la sua mente al medesimo procedimento operato sul cervello della scimmia e caricarla dentro PINN, per vedere se la sua mente possa continuare a viva usando i computer al posto della materia grigia. 

L’esperimento ha successo al di là di ogni aspettativa e la mente di Will Caster non solo vive ma acquista rapidità e potenza di calcolo contaminandosi con i computer e, avendo accesso ad internet, arriva ovunque cominciando a pianificare la propria sopravvivenza e il proprio potenziamento. Solo il fronte terroristico anti-intelligenza artificiale sembra aver capito tutto quel che sta accadendo.

Nella visione che Wally Pfister trae dalla sceneggiatura di Jack Paglen la trascendenza è un altro termine per dire “singolarità”, ovvero quella teoria futurologica secondo la quale l’evoluzione dell’intelligenza umana fomentata da aiuti artificiali ad un certo punto supererà la nostra comprensione di essa giungendo ad un livello superiore.

A partire da questo presupposto tra lo scientifico e il fantascientifico il direttore della fotografia, diventato noto per il suo lavoro accanto a Christopher Nolan, gira il suo primo film da regista mescolando tradizionale e innovativo. È infatti molto tradizionale la maniera nella quale emerge una tecnologia che si contrappone all’umanità prendendo il controllo di tutto quel che l’uomo ha delegato alle macchine, mentre è molto innovativo come la storia disponga le forze in campo. Invece che porre gli uomini in contrasto con l’artificiale sceglie infatti di creare un artificiale che sia molto umano e di avere diverse fazioni anche all’interno della razza umana (confermando che in qualsiasi contesto è sempre l’uomo il nemico peggiore, come la visione apocalittica di nuova generazione in stile The walking dead insegna). In questo modo Transcendence fa continuamente avanti e indietro tra quello che pensiamo di aspettarci e quel che effettivamente vediamo, fingendo di muoversi come un catastrofico di fantascienza tradizionale e poi finendo per somigliare più alla nuova fantascienza in stile Lei, cioè quella che non relega ai soli uomini il privilegio di avere uno spirito.

Scegliendo con buon occhio l’America dei deserti semidisabitati, punteggiati da minuscoli agglomerati di case basse che inquadrati dall’elicottero sembrano circuiti integrati, Pfister sembra ambire tanto ad un lato oscuro del film di Spike Jonze (non l’amore che tira fuori la parte migliore di noi ma quello che tira fuori la peggiore), quanto alle suggestioni della saga di Terminator, in cui il nulla quasi primitivo degli spazi americani è il set per un’apocalisse sempre da venire.

Che Pfister non stia dalla parte degli uomini è evidente già dalla recitazione desaturata di ogni emozione e dal conseguente tono gelido che ogni interazione umana sincera ha. Invece che dare calore ai computer, per avvicinarli all’umano, il regista sceglie di levarlo agli attori in carne ed ossa per dimostrare che se le macchine sono quel che temiamo forse noi non siamo troppo lontani da esse.

Purtroppo però Transcendence è troppo appassionato dalle possibilità fantastiche della propria storia per rimanere ancorato ad un contesto scientifico, esagera nell’immaginare e finisce per dipingere più che altro della magia superando qualsiasi futuristica plausibilità. Eppure è anche evidente come il suo obiettivo ultimo sia l’inganno del pubblico, tutto teso com’è a dimostrare che la paura della tecnologia e di ciò che non conosciamo (con la conseguente tendenza al pregiudizio) sia dentro ogni spettatore. 

Così il presupposto con il quale il film si apre, cioè quello di un mondo futuro privo di qualsiasi tecnologia, diventa non tanto un ritorno alla reale umanità dopo l’ubriacatura tecnologica ma lo spauracchio dei disastri che le fobie umane producono.

Lei

Titolo originale Her, USA, 2013 dc (in Italia 2014 dc), commedia (io direi anche fantascienza), durata 126′, regia di Spike Jonz

La scheda a firma di Gabriele Niola da www.mymovies.it

Theodore è impiegato di una compagnia che attraverso internet scrive lettere personali per conto di altri, un lavoro grottesco che esegue con grande abilità e a tratti con passione. Da quando si è lasciato con la ragazza che aveva sposato però non riesce a rifarsi una vita, pensa sempre a lei e si rifiuta di firmare le carte del divorzio. Quando una nuova generazione di sistemi operativi, animati da un’intelligenza artificiale sorprendentemente “umana”, arriva sul mercato, Theodore comincia a sviluppare con essa, che si chiama Samantha (nome e sesso della voce sono fatti scegliere dall’acquirente, nota mia), una relazione complessa oltre ogni immaginazione.

A Spike Jonze interessano le più banali e comuni tra le sensazioni umane ma per arrivare a dar voce e corpo in maniera personale e addirittura “nuova” ai più antichi tra i temi trattati dall’arte (e dunque dal cinema) necessita sempre di passare per un elemento fantastico, l’inserimento di una sola implausibile stranezza per attivare meccanismi e percorsi nuovi.

In passato lo ha fatto con lo sceneggiatore Charlie Kaufman (che di questo è stato maestro) ora ci è arrivato con un film scritto autonomamente (e si nota un po’ di fatica della sceneggiatura nel giungere alla conclusione), un’opera che attinge ai temi della fantascienza classica e li trasforma da obiettivo del film a suo mezzo. Il rapporto con le macchine non come spunto di riflessione ma come strumento per parlare d’altro.

Con il lusso di poter usare l’attrice più attraente del momento solo in audio, senza mai farla vedere (l’intelligenza artificiale parla per bocca di Scarlett Johansson), facendo in modo che sia il cervello dello spettatore a sollecitare il rinforzo positivo legato a quella voce, e appoggiandosi alla capacità superiore alla media di Joaquin Phoenix di “ascoltare”, cioè di essere l’unico inquadrato in ogni conversazione significativa, volto emittente e ricevente di tutte le battute, Spike Jonze riesce a girare una storia d’amore al singolare, senza puntare il dito contro la tecnologia. Anzi.

Attraverso la sua versione estrema della società in cui viviamo (sembra ambientato 10 anni da oggi) Her supera la dicotomia classica della fantascienza tra spirito e materia, ovvero la lotta che in ogni uomo l’umanità compie per emergere e trionfare sul dominio imposto con o dalla tecnologia. Rifiutandosi di mettere in scena il rapporto che avevamo fino a qualche decennio fa con l’avanzamento tecnologico, Jonze arriva invece dalle parti di Wall-E, cioè in quel reame di storie in cui la lotta dello spirito per emergere è aiutata dalla tecnologia e non ostacolata. Non cosa la tecnologia rischi di farci ma chi siamo noi mentre ci guardiamo nel suo specchio.

Ridotto ai minimi termini infatti Her mette in scena il lungo processo attraverso il quale viene elaborata la fine di un amore: venire a patti con l’esigenza di andare avanti, lasciare il passato dietro di sé e voltare pagina attraverso esperienze estreme e grottesche. Questo modo di procedere consente al regista di piegare i generi, fondendo fantascienza e melodramma (ma non c’è dubbio che sia il secondo a prevalere) e dipingendo uno stile di vita e un universo animato dalla più evidente contingenza con il tempo presente. Non c’è un briciolo di fobia nella sua visione ma anzi l’amichevole presa in giro da parte di chi con le novità del presente ha un rapporto di confidenza.

Il risultato è che vedendo Her si ha l’impressione che solo in questa maniera sia possibile operare quell’indagine sull’attualità, tipica delle forme d’arte non ancora morte, quella che consente di scovare quali siano le pieghe in cui poter trovare il sentimentalismo oggi.

In time

Titolo originale In Time, USA, 2011 dc (in Italia 2014 dc), durata 109′, regia di Andrew Niccol

La scheda di Marzia Gandolfi per www.mymovies.it

Will Salas ha venticinque anni da tre anni e la volontà di resistere in un mondo in cui il tempo che resta da vivere è denaro. Nel futuro di Will uomini e donne sono geneticamente programmati per raggiungere i venticinque anni, età dopo la quale avranno diritto a un anno extra e a una vita affannata e consumata a guardare il proprio orologio biologico. Un timer digitale(sotto pelle sul braccio, nota mia) che segna ogni minuto, ora, giorno, mese, anno guadagnato lavorando o rubando. Figlio premuroso di una madre mai invecchiata, Will salva la vita a un uomo ricco di tempo che intuisce la sua nobiltà e lo ricambia con un secolo di vita. Un secolo che Will è deciso a investire, raggiungendo la Time Zone, dove i ricchi vivono blindati e a spese dei più miserabili, e sfidando l’ordine costituito.

Lo aiuterà imprevedibilmente nell’impresa una ricca ereditiera dai grandi occhi e il grande cuore, pronta a ipotecare l’immortalità e a ‘spendere’ finalmente la propria vita.

Dentro un mondo futuribile e una scansione rigorosa degli spazi (il dentro e il fuori, il sopra e il sotto), Andrew Niccol si interroga sul nostro esserci in un orizzonte di senso in cui l’uomo ha definitivamente cessato di essere natura per diventare merce, trattabile e scambiabile sul mercato della vita. Come Gattaca quindici anni prima, In Time abita una società che contempla due classi e mutua i ‘validi’ e i ‘non validi’ in ‘immortali’ e ‘mortali’. La prima classe è quella degli eletti, la seconda è quella dei dominati, dove si producono inevitabilmente l’antidoto e la turbativa. Alla maniera di Ethan Hawke Justin Timberlake incarna l’impresa impossibile di un mortale che, destinato a una previsione di vita di pochi anni e poca speranza, si ribella al suo destino e a quello dei suoi simili attaccando letteralmente il cuore degli immortali. La sua inquietudine febbrile e il suo agire precipitoso, che contraddicono il muoversi flemmatico degli immortali, non mancano di colpire e far innamorare l’algida bellezza di Amanda Seyfried, che fa il paio con quella ‘artificiale’ di Uma Thurman.

L’ereditiera del tempo, figlia irrequieta del mad man Vincent Kartheiser, imparerà a frequentare i sentimenti e a trasformare la nostalgia della vita in vita tra le braccia di un eroe popolare e sotto un carré rosso, fissato e resistente all’acqua e alle fughe.

E se idealmente prossimo a Gattaca è pure il patto ‘di sangue’ tra il protagonista e un immortale che gli cederà generoso il secolo accumulato e il suo posto tra i privilegiati, In Time scarta la riflessione genetica a favore di quella socio-economica, muovendosi in quartieri abbandonati al loro destino di miseria endemica.

Niccol aggiorna il suo cinema alla crisi economica e alle logiche stringenti che si sono affermate nel mondo contemporaneo, focalizzando la sua attenzione sulle speculazioni e sul ridimensionamento del singolo davanti agli organismi di potere sempre più estesi e transnazionali. La teoria del film, come la sua materia, è manifestazione dell’umanesimo che resiste al culto del capitale e dell’accumulo ‘temporale’, misurando la disuguaglianza sociale. Il regista scrive, dirige e produce per questo un ribelle che insorge per rivendicare il valore dell’autodeterminazione politica degli individui e per manifestare il bene come forza materiale, fisica, determinante la vita, determinante per la vita.

Will è l’imprevisto che non si può impedire, è una corsa contro il tempo (ma per il tempo) che sfugge al controllo e ai controllori, è la peripezia dell’abbraccio, è un corpo abbracciato e da abbracciare per sentire finalmente il mondo nella propria carne.

La vita di Adele

Titolo originale La vie d’Adèle (Chapitre 1 & 2), Francia, 2014 dc, durata 187′, regia di Abfellatif Kechiche

Storia d’amore lesbico esplicita, poetica, carnale: a prova di moralista.

Dalla recensione di FilmTV.it:

Adele, una liceale di quindici anni, aspetta il grande amore e un giorno lo intravede in Thomas, giovane tenebroso ma cordiale. La loro però è una storia destinata a non essere vissuta a pieno: lo stesso giorno Adele ha incontrato anche una misteriosa ragazza dai capelli blu che ogni notte diventa protagonista dei suoi sogni e desideri più intimi. Rifiutando dapprima le esperienze oniriche, Adele prova a concedersi a Thomas ma si rende conto di non riuscire ad essere completamente sua e di provar attrazione per le ragazze. Grazie a un amico frequentatore dei locali gay della città, ha la possibilità di rintracciare la ragazza dai capelli blu e lasciarsi travolgere dal suo febbrile, caotico e passionale sentimento.

La vita di Adele
, quinto film del regista Abdellatif Kechiche, è un adattamento molto libero del fumetto francese La Blue est une couleur chaude (Il blu è un colore caldo) di Julie Maroch e racconta al tempo stesso la storia d’amore assoluto tra due donne (una con la vocazione per la pittura e una per l’insegnamento) e la storia di una ragazza che è poi diventata un’insegnante. È questa seconda sottotraccia che ha spinto il regista a voler lavorare sul fumetto per riprendere in mano una storia già da lui scritta subito dopo la realizzazione nel 2003 di La schivata e con al centro un’insegnante amante del teatro che vive sul lavoro le ripercussioni della sua vita privata.

È uno strutturalista, Kechiche, uno che di fronte ai nostri occhi mostra le gabbie, le prigioni in cui siamo rinchiusi. E La vita di Adele è, soprattutto, un film di attrici, di corpi che amano, godono, soffrono, un film di lacrime e sudore, bava muco e saliva, di lingue tese e tremanti, di bocche affamate, assetate d’acqua, vogliose d’umore. Un film che accumula primi piani nella lunga durata, nel CinemaScope, concedendo il tempo e lo spazio perché un volto, uno sguardo e un sospiro si facciano paesaggio interiore. Da un testo chiuso, politico, funereo, un film aperto ad abbracciare la vita, un commovente melodramma naturalista, qualcosa che diremmo “ritratto” se solo non fosse in movimento continuo. Un capolavoro, firmato dal più grande affabulatore realista del cinema d’oggi.

Noi credevamo

Titolo originale Noi credevamo, Italia/Francia, 2010 dc, durata 170′, regia di Mario Martone

Un film che merita di essere visto perché, comunque, contrasta con il rivoltante e martellante nazionalismo-patriottismo di questi mesi (2010 dc) di celebrazione del 150° anniversario della cosiddetta “Unità” d’Italia.

La recensione di www.mymovies.it da parte di Giancarlo Zappoli:

Tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) reagiscono alla pesante repressione borbonica dei moti del 1828 che ha coinvolto le loro famiglie affiliandosi alla Giovane Italia. Attraverso quattro episodi che li vedono a vario titolo coinvolti vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha portato all’Unità d’Italia. A partire dall’arrivo nel circolo di Cristina Belgioioso a Parigi e al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi eventi porteranno i tre a dividersi. Angelo e Domenico, di origine nobiliare, sceglieranno un percorso diverso da quello di Salvatore, popolano che verrà addirittura accusato da Angelo (ormai votato all’azione violenta ed esemplare) di essere un traditore della causa. Sarà con lo sguardo di Domenico che osserveremo gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento.

Assistendo al lungo film di Martone che ha l’andamento classico di quelli che un tempo si chiamavano sceneggiati televisivi (senza che in questa annotazione ci sia alcunché di riduttivo) si ha la sensazione di un deja vu. Perché il cinema italiano non scopre certo con Noi credevamo i lati oscuri e le contraddizioni del Risorgimento. Chi ricorda opere come AllonsanfanQuanto è bello lu murire acciso o Bronte sa che in materia ci si è già espressi con opere di assoluto vigore. È però vero che l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia e il revisionismo storico dominante (che vede il Risorgimento come una sciagura per il Nord) quasi impongono una rivisitazione del tema che Martone mette in scena con accuratezza filologica (anche se restano misteriose alcune strutture in cemento armato) e con un’attenzione iconografica da sussidiario degli anni Sessanta (con un Mazzini già vecchio nel 1830 quando aveva venticinque anni). L’idea di seguire le vicende (in parte storiche e in parte frutto di immaginazione) dei tre protagonisti che accompagnano lo spettatore nella non semplice articolazione delle posizioni che vedevano contrapposti i fautori dell’unità può senz’altro essere efficace se distribuita televisivamente in due serate.

Lo è meno se si pensa a un’opera della durata di tre ore e mezza circa (nota mia: questa è l’originaria durata del film). Perché si finisce con il disperdersi nella pur acuta e documentata ricostruzione. Resta comunque viva, oltre alla consapevolezza di trovarsi dinanzi a un’opera non di occasione e sicuramente non celebrativa, la sensazione di una coazione a ripetere della politica italiana.

Oltre alla divisione in due fronti (all’epoca repubblicani e monarchici con tanto di trasmigrazioni da un fronte all’altro) emerge con assoluta chiarezza la quasi genetica incapacità a fare fronte comune, la spinta inarrestabile a dividersi a diffidare gli uni degli altri all’interno dello stesso schieramento. La lettura con uno sguardo che ha origine al sud ribalta poi le tesi leghiste senza essere nostalgica della dominazione borbonica ma non nascondendosi le problematiche lasciate irrisolte da una fase storica di cui il popolo, come spesso accade, ha finito con l’essere più spettatore o oggetto che non protagonista in grado di decidere del proprio futuro. Il Parlamento vuoto in cui un determinato e non conciliante Crispi pronuncia il suo discorso marca simbolicamente la morte di un’utopia.

I ragazzi stanno bene

Titolo originale The kids are all right, USA, 2010, commedia, durata 106′, regia di Lisa Cholodenko.

La recensione di www.filmtv.it da parte di Andrea Fornasiero:

Famiglia lesbica sì, ma non allargata e dunque quasi tradizionale. In I ragazzi stanno bene emergono infatti i limiti del film a tesi, dove (Nota mia: nel quale, o in cui) per dimostrare che la coppia lesbica funziona il padre biologico può essere solo un immaturo, la cui vicinanza alla famiglia risulta distruttiva. La Bening è Nic, una madre in carriera, e la Moore è Jules, che stenta a trovare un’attività redditizia, la prima è più fredda e la seconda più affettuosa. Anche i figli seguono modelli consolidati, con la ragazza diligente negli studi e inibita nelle relazioni, mentre il ragazzo è un po’ ribelle ma ha un cuore d’oro. Infine Paul, il padre biologico interpretato da Ruffalo, è fissato con le coltivazioni per l’appunto biologiche del suo ristorante, va in moto e si gode la vita ma quando cerca di essere responsabile rovina tutto. Mamma e mamma, pur tra nevrosi e insicurezze, sono buoni genitori, benestanti, un po’ chic e senza alcun bisogno di terzi incomodi, tanto meno se maschi. Infatti Jules licenzia senza troppi problemi anche l’uomo di fatica messicano, colpevole solo di un sorriso di troppo. Se pur l’impianto si rivela a poco a poco scontato, l’ironia e l’affiatamento degli interpreti – tanto le tre star quanto il giovane Hutcherson e soprattutto la talentuosa Wasikowska – creano una complicità cui è davvero difficile resistere.

Recensione troppo critica, per i miei gusti: il film è godibilissimo e, semmai, andrebbe consigliato ai moralisti nostrani: chissà che un barlume di luce li illumini, non tanto dal loro inesistente dio ma dallo schermo illuminato da questo film!

i ragazzi stanno bene
Da sinistra: Annette Bening e Julianne Moore

Ecco invece l’opinabilissima recensione di www.cinematografo.it a firma di Gianluca Arnone, che non commento a mia volta solo per pudore…

Julianne Moore e Annette Bening sposano la causa della diversità: ma nozze e film sono convenzionali

Quattro nomination che erano francamente incomprensibili. Fortuna che l’Academy non si sia lasciata infinocchiare dai furbi propositi alla base de I ragazzi stanno bene: normalizzare il cinema camp già a partire dalla confezione. Ipso facto, il senso dell’operazione è racchiuso più nella cornice che nel quadro. La Cholodenko non vuole solo regalare la scena a coppie omo-sposate, figli della banca del seme e inseminatori artificiali, ma ripulirla da eccessi, camuffamenti e ricami gay-pride.

Fuori Almodovar, dentro una poetica indifferente alla differenza, condotta secondo schemi convenzionali, nel travestimento del queer in soap per famiglie. Scelta che frutta solo uno spot radical-chic nascosto sotto cumuli di ovvietà, bric-à-brac psicologici, tempeste ormonali e crisi di coppia.

Anche il cast non giova alla causa: Julianne Moore e Annette Bening sono troppo etero-connotate, i ragazzi – Wasikowska e Hutcherson – fanno presenza, Mark Ruffalo è un personaggio irrisolto e un attore continuamente a disagio. Soffre come gli altri di una terrificante afasia di linguaggio, come se la famiglia dove si può dire tutto e dirlo apertamente, finisse per non avere più nulla da dire. È in fondo la stessa sindrome di cui è affetto il film.

Il discorso del Re

Titolo originale The King’s speech, Gran Bretagna/Australia, 2010 dc, storico, durata 111′, regia di Tom Hooper

La recensione di www.film.tv da parte di Pietro Lanci:

In una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30, Albert (Colin Firth), secondogenito balbuziente del Re Giorgio V, è portato dalla moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter) in visita dal logopedista Lionel Logue (Geoffrey Rush). Logue pretende subito il “tu” dal reale, e lo sottopone a una cura che attinge al laboratorio teatrale quanto alla seduta psicanalitica. I loro scambi in punta di fioretto riscrivono l’episodio di Davide e Golia in chiave di spettacolare, spassoso conflitto di classe, con qualche eco shakespeariana: Logue, attore mancato per eccessiva enfasi, insegna al Duca di York come superare l’incubo di parlare in pubblico. Permettendogli di salire sul trono, dopo l’abdicazione del fratello maggiore David (Guy Pearce) per troppo amore di Wallis Simpson.

Firth introietta l’horror vacui e riproduce a meraviglia quella rigidità affettata del suo personaggio che l’inglese chiama stiffness. Rush è alla pari: colossale. Inutile dirlo, il film va visto, ove possibile, non doppiato. In origine testo teatrale, Il discorso del Re sfrutta il MacGuffin psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra. E dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler (Tucker. Un uomo e il suo sogno di Francis Ford Coppola), che ha sofferto di balbuzie, e del talentuoso regista Tom Hooper, figlio di madre australiana e padre inglese, pluripremiato per la serie in costume John Adams, con la quale ha perfezionato un’economia di messa in scena e drammaturgia.

Se solo Hollywood rivedesse il budget per gli effetti (qui non ci sono scene di massa perché non se ne sente il bisogno), scritturasse più Seidler e credesse in ogni caratterista (Timothy Spall e Derek Jacobi brillano)! L’unico anacronismo è fuori dallo schermo: sul film negli Usa pesa un ridicolo divieto per via di qualche «Fuck!». Per di più, detto a gioioso scopo terapeutico.

Invictus

Titolo originale identico, USA, 2009 dc, durata 133′, regia di Clint Eastwood.

Il film è molto bello e molto ben fatto, come sempre ormai ci ha abituato il grande Clint. Non sono d’accordo col pensiero di Mandela riguardo all’atteggiamento da lui assunto nei suoi 27 anni di carcere, ovvero la poesia di William Ernest Henley che finisce con le parole Son Io il signore del mio destino. Son Io il capitano dell’anima miain quanto troppo semplice (basta essere indomiti e forti, fosse facile per tutti!), e perché parla (ancora!) di “anima”, e nei riguardi dello sport come fattore di cambiamento e di unità del popolo “come poche altre cose fanno”, in quanto per me tale fenomeno (il tifo sportivo) rimane irrazionalità di massa: che possa, nell’occasione, avere funzionato come collante delle parti avverse in nome, tra l’altro, del nazionalismo non può che farmi ribadire ancora di più l’assurdità e l’irrazionalità del fenomeno in sé.

Ecco la recensione di www.filmtv.it a firma di Mariuccia Ciotta:

Le note del piano come gocce di pioggia segnalano la presenza di Clint Eastwood, che avrebbe scelto per sé il ruolo di Mandela, e quello di Charlie Parker in Bird. Perché Invictus. L’invincibileal di là del Sudafrica liberato, e della leggendaria partita di rugby contro i guerrieri maori All Blacks, gira tutto intorno a lui, al regista di Lettere da Iwo Jima, al “revenant”, il fantasma che torna a fare giustizia, a riconciliare i nemici. Più che a un altro film “sportivo”, Million Dollar BabyInvictus. L’invincibile assomiglia a Gran Torino, dove il vecchio, amaro razzista che in Corea uccise i “musi gialli” si innamora di un ragazzino dagli occhi a mandorla, il vicino di casa, tormento e rivelazione, e per salvarlo si fa martire.

Così Mandela, salvato dalla poesia di William Ernest Henley, che dà il titolo al film, libero dopo 27 anni di carcere, sa che per vincere è necessario essere migliori dell’avversario. Per allontanare gli incubi e andare in meta bisogna sorprendere, conoscere bene il proprio carnefice e disorientarlo. La canzone 9.000 Days su musica di Clint e parole di Dina, sua moglie, si intreccia con le composizioni del figlio Kyle e con l’Inno degli Springboks, la squadra nazionale sudafricana, boicottata in tutto il mondo nell’era dell’apartheid, e fischiata dal 90% dei sudafricani. Presidente Mandela, il team, simbolo della segregazione, rischia lo scioglimento.

Ma, contro tutti, il leader nero scommette sulla squadra senza più chance, perdente contro la nazionale inglese, destinata alla sconfitta nella Coppa del Mondo 1995. «Io sono capitano della mia anima», i versi del poeta accompagnano la grande impresa, ritrovare l’unità di un popolo diviso in un campo di rugby, perché «lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire il popolo, come poche altre cose fanno».

Così Mandela, materializzato nei gesti soavi da Morgan Freeman, l’attore militante e amico che ha proposto a Clint Eastwood il progetto (tratto dal libro di John Carlin Playing the Enemy), attraversa il film tra l’entusiasmo dei neri e il rifiuto dei bianchi, la minoranza che aspetta la vendetta. Allenatore appassionato, gettato nella mischia degli Springboks capitanati dal biondissimo Francois Pienaar (Matt Damon) Eastwood coniuga il film d’azione con l’atmosfera rarefatta, il rigore fordiano, la leggerezza di tocco.

Una specie di incantamento, di chi osserva con devozione l’anziano Mandela, il gentile presidente che impara a memoria i nomi dei giocatori, e indossa maglietta e cappello della squadra, spedita a giocare nei ghetti black, tra le baracche di lamiere, la polvere e i ragazzini urlanti dietro l’unico giocatore nero. Nessuno ci crede, neppure le guardie del corpo, costrette a condividere la scorta del presidente con un gruppo di afrikaner dalla faccia minacciosa. Mandela pazientemente convince tutti i suoi collaboratori riluttanti che si tratta di un calcolo politico, che se gli Springboks vinceranno, vincerà il nuovo Sudafrica. 

Ma non è vero. Al Mandela di Eastwood piace il capitano Francois, e non c’è nulla di più delizioso per lui che vedere la trasformazione dello sguardo “nemico” quando si posa sulla cella dove fu rinchiuso per una vita, quando i fantasmi dell’apartheid, uomini neri ai lavori forzati, turbano il bianco giocatore di rugby. Nel tour de force verso la finale, Mandela, impegnato in incontri internazionali estenuanti, trova sempre il momento per il team verde e oro, colori che andranno a comporre la “nazione arcobaleno”. E nel frastuono dei campi, nell’urlo dei tifosi, nella violenza del gioco, Clint mantiene una traccia sottovoce, si ferma, chiama il silenzio, la penombra, inquadra dettagli, e insieme a Mandela si rivolge ai guardiaspalle, alle cameriere, agli “invisibili”, non solo ai campioni.

C’è proprio Clint Eastwood seduto in tribuna accanto al presidente sudafricano, distratto da un bambino smilzo con una borsa in spalla. Il piccolo fende la folla – intanto l’azione degli Springboks travolge i neozelandesi – e si avvicina a una macchina della polizia, gli agenti lo cacciano con la brutalità di un tempo. E mentre i punti si accumulano sul cartellone dello stadio, il ragazzino si ritrova insieme ai due tifosi afrikaner, esultante, a sentire la radio a tutto volume. La vittoria sarà lì, fuori campo, nel corpicino nero sollevato in trionfo dai due giganti bianchi. Più prezioso della coppa d’oro.

2012

Titolo originale identico, USA, 2009 dc, Fantascienza, durata 158′, regia di Roland Emmerich

La recensione di www.filmtv.it , tutto sommato condivisibile, di questo film da cui anch’io mi aspettavo di più: in termini di distruzione, di intreccio, di credibilità pur nell’assunto fantascientifico:

Non è che ci si aspettasse un’opera di fine regia e raffinati tratteggi psicologici, né da Emmerich né dal genere catastrofico, ma 2012 delude anche dal punto di vista spettacolare. Innanzitutto l’introduzione si prende (e perde) molto tempo per chiarire il bizzarro assunto del film ossia: il pianeta si sta surriscaldando dall’interno, come l’avessero cotto al microonde. Chi si aspettava qualche affascinante ricerca sulla mitologia e i vaticini Maya rimarrà a bocca asciutta.

Quando, finalmente, iniziano le catastrofi le cose si movimentano e la limousine di John Cusack, con sorprendente manovrabilità e tenuta di strada, fa lo slalom tra palazzi che collassano e baratri che si aprono sul terreno. Bene, ridicola ma esilarante è una sequenza che funziona. Non per questo era il caso di ripeterla ben quattro volte: una con un camper, due con un piccolo velivolo e poi ancora con un grande aeroplano. Certo aumenta la vastità della distruzione, ma è tutto tanto virtuale e inconsistente da non fare differenza.

Rimarrà poi deluso pure chi si aspettava una certa varietà di catastrofi naturali.

Vediamo: c’è un’abbagliante eruzione vulcanica, numerosissimi terremoti, uno tsunami fatto di fretta, ma nessuna tempesta, tornado, incendio, glaciazione, onda magnetica o meteora dal cielo. Meglio tacere dell’intreccio, con il padre single che inevitabilmente deve riunirsi alla famiglia, i cattivi (tutti curiosamente grassi) puniti o sconfitti e i cagnolini destinati a salvarsi contro ogni probabilità. In più si avverte la presenza di direttive di produzione volte a un politically correct di scala globale: i leader europei sono buoni, il premier italiano è pio (ma almeno non è più Berlusconi!), i cinesi sono lavoratori e ingegneri fenomenali ma, per cerchiobottismo, i tibetani sono santi o eroi. È curioso come il presidente americano nero, nobilissimo, abbia il destino segnato da una portaerei: vi si potrebbe leggere un bisogno di espiare i mali dei recenti governi americani, ma un film tanto didascalico e prevedibile davvero non giustifica simili voli ermeneutici.

Andrea Fornasiero

Basta che funzioni

Titolo originale Whatever works, Francia/USA, 2009, Commedia, durata 92′, regia di Woody Allen

La recensione di http://film.35mm.it per un film che finalmente mi ha fatto ridere (ma non solo) come un tempo vedendo i film di questo grande maestro. Ho scelto questa recensione perché è la meno discutibile delle tre che ho letto nel web (anche perché, in effetti, si limita a raccontarne la trama senza addentrarsi in discutibili valutazioni critiche, come spesso capita di leggere…).

Attenzione: viene svelato il finale!

Dopo aver fallito professionalmente, come marito e dopo un tentativo di suicidio, il re dei brontoloni Boris Yellnikoff, trascorre le giornate irritando gli amici che ancora gli restano  con le sue lunghissime tiritere sull’inutilità del tutto. Ex professore alla Columbia University, autoproclamatosi genio candidato al premio Nobel per la Meccanica Quantistica, una notte mentre sta per rientrare nel suo appartamento viene avvicinato da una giovane fuggiasca, Melody St. Ann Celestine, che lo prega di lasciarla entrare nel suo appartamento. Melody è un’ingenua ragazza del Mississippi, che prende alla lettera ogni commento sarcastico fatto da Boris che per aiutarla non fa che ripeterle che è solo una stupida ragazzina senza cervello, troppo fragile per vivere a New York. Ciononostante acconsente a farla restare per qualche notte. Col passare dei giorni però, Melody si sistema e anzi riesce addirittura a calmare Boris durante uno dei suoi soliti attacchi di panico invitandolo a guardare con lei un film di Fred Astaire alla televisione. Ascoltando Melody, Boris comincia a considerare positivamente e inaspettatamente il fattore fortuna, e a valutare la pur scarsa probabilità che le strade di due persone così diverse possano invece incrociarsi. E’ l’inizio di una serie di intrecci sentimentali che coinvolgeranno persino la puritana madre della ragazza, venuta a New York per cercarla…

Boris decide di capitolare e sposa Melody, affascinato dalla sua semplicità. Intanto la madre si scopre artista libertina e il padre, corso a New York per salvare la figlia ed implorare il perdono della moglie, accetta finalmente la propria omosessualità. Melody intanto ha ceduto, a sua volta, alla corte del giovane fascinoso Randy, presentatole insistentemente dalla madre. Boris tentando l’ennesimo suicidio però finisce col cadere su una ignara passante, Helena, con la quale finisce per legarsi. Tutti insieme festeggiano il capodanno e salutano il pubblico, interlocutore del nostro protagonista in tutto il film, inneggiando a caso e libertà.

Altro che storie, questo è un grande Woody Allen, la filosofia esacerbata, cinica, tronfia e sprezzante del protagonista mi ha suscitato simpatia, anche ovviamente per il suo ateismo non dichiarato apertamente ma fatto filtrare tra battute al vetriolo e considerazioni sull’umanità molto ma molto corrosive….Anche la sua gigantesca considerazione di sé ed il disprezzo offensivo riservato persino ai bambini oggettivamente poco dotati a cui insegna, a pagamento, a giocare a scacchi si stemperano, nel finale, in cui accetta la vita, il caso e la fortuna, e l’aumentata compagnia dei suoi amici, finalmente con serenità ed il sorriso sulle labbra, anche se il disincanto ed il pessimismo originario restano (come è giusto che sia).

Religiolus

La locandina italiana del film. Immagine dal web

Titolo originale Religulous, USA, 2008 dc, documentario, durata 101′, regia di Larry Charles

Con Bill Maher, Steve Burg, George W. Bush, Kirk Cameron, George Coyne, Tom Cruise.

Film recentissimo (da noi), uscito nelle sale milanesi il 13 Febbraio 2009 dc, ha suscitato vaste polemiche e le reazioni come di consueto fanatiche e censorie dei soliti credini (loro sì, come al solito, intolleranti!) che, addirittura, in alcune località hanno fatto stampare fascette con la scritta “ateo no” e “vergogna” e le hanno attaccate sui manifesti del film.

Ma la censura ha colpito il titolo stesso del film che, originalmente fondeva in un neologismo il termine religiousreligioso, con ridiculousridicolo….Così ora il titolo è diventato argomento di fraintendimento per i non molto pratici dell’inglese, che lo traducono in religioso non accorgendosi che il termine inglese è comunque errato: testimonio personalmente per avere sentito discussioni e affermazioni del genere ieri, 17 febbraio 2009 dc, prima e dopo la proiezione.

Tra le recensioni del film comparse nei siti on line che si occupano di cinema la più equilibrata e corretta, secondo la mia opinione, è quella di www.filmtv.it :

Bill Maher, autore e presentatore di alcuni talk show “politicamente scorretti” negli Stati Uniti, intervista personaggi di rilievo e credenti comuni sull’esistenza di Dio e sulla reale utilità e importanza delle religioni organizzate mettendo in rilievo, con il suo tipico sarcasmo, gli aspetti più grotteschi e controversi di ogni credenza.

Film geniale, che si scaglia contro falsi miti e fanatismi, dai monoteismi imperanti e imperialisti alle religioni fai da te di sette, Gesù e San Paolo redivivi, rabbini antisemiti. Un doc intelligente, rigoroso e sferzante. In cui si sorride con rabbia, rispetto e incredulità.

Ecco l’articolo e l’intervista su la Repubblica del 12 Febbraio 2009 dc (correzioni e commenti in rosso sono miei):

Intervista a Bill Maher, attore e ideatore del documentario-inchiesta sulle fedi monoteiste
In sala da domani. “Voglio mostrare la violenza dei fondamentalisti di ogni fede

“Religiolus” contro tutti i fanatismi
“Usate la ragione, non la religione”

“Gli attacchi delle chiese? C’è tanta gente che mi ringrazia per quello che dico

di Silvia Bizio

Los Angeles – “Smettete di credere o ne soffrirete le conseguenze”. Ecco la sintesi di un film-documentario divertente e tosto come Religiolus, che in Italia arriva domani, distribuito in 30 copie dalla Eagle Pictures. Diretto dal regista di Borat, Larry Charles, concepito e interpretato da Bill Maher, noto comico televisivo americano, il film è un’allegra inchiesta tra gli aspetti più controversi, inquietanti e talora ridicoli (da cui il titolo) delle tre religioni monoteiste, cristiana, ebraica e musulmana. L’obbedienza al dogma religioso, il fanatismo sono da anni bersaglio dei talk-show tv di Maher, da Politically Incorrect all’attuale Real time with Bill Maher. “Nel film mi premeva affrontare la demistificazione del tabù religioso – spiega Maher, 52 anni – Parlare di un argomento delicato, per molti addirittura incendiario, facendo al tempo stesso ridere”.

Con Religiolus, Maher conduce lo spettatore dal cuore puritano dell’America “redneck” alla libertaria Amsterdam (turbata oggi da nuovi conflitti etnico-religiosi), dalla Terra Santa al Vaticano, intrattenendo conversazioni, spesso ilari, con seguaci di ogni fede e mettendo in discussione qualsiasi “prova” dell’esistenza di Dio, toccando anche temi come l’omosessualità. “C’è un prete – racconta Maher – che per mezz’ora ha proclamato davanti alla cinepresa l’inesistenza dell’omosessualità e poi confessa la propria tendenza sessuale.

Maher, cosa spera di fare con un film come Religiolus?

“Voglio dimostrare che la religione è nociva alla società e potenzialmente in grado distruggere la nostra civiltà. Io spero che questo film possa sortire un effetto pari se non maggiore di quanto abbia avuto sull’ambiente Una verità scomoda di Al Gore. Spero solo che possa stimolare un dibattito civile e ragionevole”.

Nel film lei dichiara esplicitamente che l’Islam è strettamente connesso alla violenza fondamentalista.

“Sì, ma spero che qualcosa possa cambiare in futuro. L’Islam si trova oggi dove il Cristianesimo si trovava nel 1400, quando cominciò gioco forza ad aprirsi e illuminarsi”.

Teme che il film possa renderla bersaglio di attacchi da parte degli integralisti?

Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio. Ma non crediate che tutti ce l’abbiano con me: c’è un sacco di gente che mi ringrazia per quello che dico. Basterebbe che gli agnostici (gli atei no?) si organizzassero un po’ meglio, come fanno i religiosi” (Verrebbe da dire parole sante…).

Lei ha realizzato Religiolus prima delle elezioni presidenziali Usa. È cambiato qualcosa?

Il cambiamento epocale che tutti ci aspettiamo dal presidente Obama deve ancora avvenire. Detto questo, la tematica religiosa e il concetto di fede sono sempre attuali. Il fanatismo dogmatico non è mutato di una virgola da secoli e la tentazione fondamentalista sembra più forte che mai. Per me nessun fondamentalismo è migliore dell’altro: sono tutti aberranti”.

Lei è ateo?

Preferisco definirmi un realista. Sono figlio di un padre cattolico e di una madre ebrea, ma resto convinto che ai fenomeni della natura ci debba pensare la scienza, non la religione”.

Anche col film lei sembra dire che il fondamentalismo avanza in America e nel mondo. Conferma?

Certo. Mi fa ancora paura pensare che noi americani siamo stati guidati per otto anni da un presidente anti-intellettuale, anti-scientifico, maniaco di Gesù Cristo, che ci ha condotti in una palude putrida e stagnante. La separazione tra Stato e Chiesa promulgata dai nostri padri fondatori s’è persa per strada. E quanti altri Paesi si trovano in situazioni simili? Il mio monito è soprattutto ai governanti: ricominciante di nuovo a governare con la ragione. Non con la religione”.

(12 febbraio 2009)

Ultimatum alla Terra

Titolo originale The day the Earth stood still USA, 2008 dc, fantascienza, durata 103′, regia di Scott Derrickson.

Con Keanu Rives, Jennifer Connelly

La recensione di FilmTV www.filmtv.it :

Un alieno giunge sulla Terra, portando con sé un messaggio di pace e intimando la distruzione di tutte le armi, ma l’accoglienza non è quella che ci si può aspettare e le cose rischiano di mettersi molto, molto male.

Remake del classico film omonimo del 1951 di Robert Wise. Ultimatum alla Terra secondo Derrickson non aggiunge niente alla sceneggiatura originale di Edmund North anche se David Scarpa ha riscritto il tutto. Di Klaatu, messianico ambasciatore galattico, si accentua il tratto cristologico in linea con certo spiritualismo new age, mentre Gort, identico nel look ma dotato di un sensore video stile Cylon, subisce l’inevitabile lifting digitale.

La mia:

Grande pubblicità, grande attesagrande delusione. Io mi ero detto “se mi piace lo vedo ancora”, ora mi dico “una basta e avanza”. Il film è noioso (in confronto il film degli anni ’50 è un documentario su Indianapolis), non aggiunge nulla al primo film anzi aggiunge, al posto dei dischi volanti “classici”, queste strane ed improbabili sfere. Non muore quasi nessuno, il robot, inutilmente ingigantito, ha un ruolo ancora minore, e non c’è nessun rinnovamento della storia. Vengono minacciati sfracelli, quel poco che succede avviene in una città evacuata, ci saranno una decina di vittime si e no. Nel primo film il tema era la guerra, in questo l’ecologia: è vero che io sono un catastrofista e avrei voluto la distruzione pressoché totale dell’umanità, ma questo film è di un buonismo disarmante.

No, non ci siamo, non ci siamo proprio.

Io sono leggenda

Titolo originale I am legend, USA, 2007 dc, fantascienza, durata 101′, regia di Francis Lawrence, con Will Smith

Grande attesa per questo film, con un interessante soggetto catastrofico, nel quale la distruzione è causata da un virus creato per curare il cancro ma che degenera e trasforma, dilagando tra la gente anche per via aerea, la popolazione in un incrocio tra vampiri e zombie. A parte Will “Orecchie a paletta” Smith, che nonostante l’antipatia che provo per lui da Independence Day regge alla grande la parte di quasi assoluto protagonista, il solito finale consolatorio e patriottico delude alquanto. Era stato girato un altro finale, tutto sommato migliore: cercare nel web per credere…

La recensione da www.filmtv.it :

Dal celebre romanzo di Matheson una New York senza occhi che cerca la propria immagine

Robert Neville è l’ultimo uomo sulla terra. Un virus mutante ha abbattuto la popolazione mondiale e gli infetti che sopravvivono subiscono una mostruosa metamorfosi: creature che ibridano il vampiro e lo zombi, si aggirano di notte a caccia di sangue fresco. Robert esce di casa la mattina, si procaccia il cibo cacciando cervi nelle strade di New York e lancia messaggi radio.

Al tramonto si barrica in casa, aspettando che si plachino le grida di un’umanità bestiale, affamata e rabbiosa. New York si adagia nella sua apocalisse silenziosa, e piano piano si arrende al deserto.

Tratto dal celeberrimo romanzo di Richard Matheson, il film diretto da Francis Lawrence (alla sua seconda regia dopo Constantine) racconta bene una città senza occhi che cerca disperata la propria immagine e la solitudine alienante di un uomo. Purtroppo il film non si assume fino in fondo le proprie responsabilità e abdica al misticismo consolatorio di chi non ha argomenti migliori: il problema è sempre quello della (ri)nascita di una nazione, con l’aiuto di Dio. Non siamo dalle parti di 28 giorni dopo. Piuttosto ci tocca la retorica patriottica alla Kevin Costner, quello di L’uomo del giorno dopo, per intenderci.

Silvia Colombo

Changeling

Titolo originale identico, USA, 2008 dc, Giallo, durata 141′, regia di Clint Eastwood.
Con Angelina Jolie, John Malkovich, Michael Kelly, Jeffrey Donovan, Jason Butler Harner, Devon Conti, Eddie Alderson, Gabriel Schwalenstocker, Jason Ciok, Kevin Glikmann, Anthony Giangrande.

La recensione di FilmTv http://www.filmtv.it/ :

Torna il vecchio Clint vestendo i panni di regista, ancora con un film drammatico che ha per protagonista una donna (Angelina Jolie) e una sua battaglia.

Los Angeles, 1928. Christine, che vive in un sobborgo, lascia come tutte la mattine suo figlio Walter a scuola per recarsi al lavoro. Il bambino viene rapito ma l’accorata preghiera della madre perché i rapitori glielo restituiscano viene ascoltata e, dopo alcuni mesi, il piccolo torna a casa. Frastornata dalle emozioni e dalla folla di poliziotti e giornalisti, accoglie il bambino nella sua casa. Ma in cuor suo sa perfettamente che quello che è tornato non è suo figlio. La polizia, i media e l’opinione pubblica non le danno però retta. Inizia quindi un battaglia per far emergere la verità, con l’aiuto di un attivista – il reverendo Briegleb -, ma incontrando una grande resistenza del sistema.

Anche questo film, che cammina con il passo fermo e silenzioso dell’ultimo Eastwood uguale a quello di Henry Fonda in un film di John Ford, è un asciutto e desolante capitolo di ammissione d’impotenza nei confronti dell’intransigenza del fato e dell’ingiustizia. Forse il migliore di Angelina Jolie. Disperata, coriacea e affusolata come un cipresso o una stalattite, alterna immensità della sofferenza e feroce determinazione rievocando attrici del calibro di Barbara Stanwyck o Joan Crawford.

La recensione di MyMovies http://www.mymovies.it/ :

Los Angeles, marzo 1928. In una mattinata di sabato Christine Collins, una giovane donna che lavora in un centralino, lascia a casa da solo il giudizioso figlio Walter che ha avuto da un uomo che li ha abbandonati. Al ritorno dal lavoro fa una terribile scoperta: il bambino non c’è più e di lui si è persa ogni traccia. Finché, 5 mesi dopo, la polizia locale che non gode di buona reputazione, sembra aver risolto il caso. Consegna infatti a Christine un bambino che dice di esser Walter e che un po’ gli assomiglia. La madre è però certa che non si tratti di suo figlio ed è supportata in questo anche da altre persone che lo conoscevano bene, a partire dalla maestra. Le autorità di polizia, sostenute da un’opinione pubblica desiderosa di rassicuranti lieto fine, insistono nella loro versione fino a decidere di internare Christine attribuendole disturbi mentali che l’avrebbero spinta a non riconoscere nel sedicente Walter il proprio figlio. Christine però non si arrende e, sostenuta dal reverendo Guistav Briegleb, continua a lottare perché le ricerche di Walter continuino.

La sinossi che avete appena letto sembrerebbe essere il frutto della creatività di un buon sceneggiatore di Hollywood invece si tratta della pura e semplice realtà. Una realtà che lo sceneggiatore J.Michael Straczynski ha riportato in luce grazie alla segnalazione di un amico che lo ha informato che numerose carte processuali di cause tenutesi negli anni Venti a Los Angeles stavano per andare al macero e che, tra queste, c’erano gli atti di un processo che avrebbe potuto interessargli.

Così la vicenda della lavoratrice Christine Collins in lotta contro l’arroganza di una polizia corrotta ed incapace può inscriversi come nuovo ritratto nella lunga serie di figure alla ricerca di giustizia che il cinema americano ha portato sullo schermo. Il nobile cavaliere Clint Eastwood non poteva non interessarsi a una simile vicenda. Essa contiene numerosi elementi che costituiscono la base dell’etica eastwoodiana: l’individuo solo contro il Potere corrotto, l’infanzia segnata da traumi irreparabili, il rapporto tra il sistema sanitario e i pazienti/oggetto, la pena di morte.

Senza aver bisogno di citare il relativamente recente Mystic River basta andare con la memoria a Un mondo perfetto per avere la prova di come le sofferenze inflitte ai più piccoli stiano da tempo a cuore al regista. In questa occasione il repubblicano Clint sembra però voler lavorare su un doppio registro. Da un lato narra l’impari lotta dell’individuo nei confronti di un potere che si arroga qualsiasi diritto di limitazione delle libertà in nome di presunte esigenze di sicurezza (e qui le misure adottate dall’amministrazione Bush non possono non venire in mente). Dall’altro, dopo una cruda e significativa sequenza sull’esecuzione di un serial killer, sembra aver desiderio di rileggere i sentimenti e i legami familiari con uno sguardo che ha bisogno di rivolgersi a un passato in cui l’imperitura arroganza del Potere poteva vedersi contrastare da una solidarietà popolare e da una determinazione nella ricerca della verità che oggi sembrano essersi drasticamente ridimensionate. Clint non smette di ricordarci che i diritti individuali non devono ‘mai’ venire calpestati. Lo fa, in questa occasione, riuscendo anche a commuoverci.

di Giancarlo Zappoli

The Passion (il titolo in italiano è “La passione di Cristo”). Questa è l’e-mail critica che ha inviato ad Atheia l’amico Lucio Garofalo il 5 Maggio 2006 dc:

UN FILM ORRENDO

Ho visto il film di Mel Gibson, “The Passion” (il titolo in italiano è “La passione di Cristo”) mandato in onda su RAI 1 la sera di Pasqua, addirittura in prima serata.

Francamente ho assistito ad un film inguardabile, eccessivamente truculento e vomitevole.

Un film da vietare, in quanto è in grado di atterrire e inorridire persino il più feroce serial killer. Eppure è stato trasmesso in televisione, su una rete pubblica, esattamente sul primo canale nazionale, in una fascia oraria che viene abitualmente classificata come “protetta” per i minori.

La mia riflessione non è mossa da un proposito bigotto e farisaico, degno di un baciapile, anzi.

A scanso di equivoci preciso subito che non amo per nulla la censura, al contrario la detesto e sono ostile ad ogni forma di censura e divieto, di ispirazione politica, ideologica, religiosa, tranne la censura fondata su autentici e rigorosi giudizi di ordine estetico ed artistico.

Ebbene, proprio in virtù di motivazioni estetiche confesso di essere stato nauseato dal film di Mel Gibson, un autore/attore che critico soprattutto per il suo pessimo gusto, oltre che per il suo insopportabile integralismo religioso e per il suo fanatismo antisemita che è fin troppo palese. Inoltre, non si può ignorare che il signor Gibson, prima di tentare la fortuna come regista, si è affermato sulla scena dello starsistem hollywoodiano come attore protagonista di film il cui tasso di violenza e raccapriccio è sempre stato assai elevato e fastidioso.

Come autore e regista Mel Gibson non poteva certamente smentirsi.

A mio modesto avviso, il suo film è presuntuoso e velleitario in quanto ha la presunzione e la pretesa di essere realistico, ma è semplicemente orrido e sadico, impregnato di un oltranzismo religioso e politico di segno reazionario e razzista. In fondo, le aspre polemiche che accompagnarono l’uscita del film nelle sale cinematografiche erano più che giustificate.

Il film di Gibson è esageratamente e inutilmente “realista” e fantasioso insieme, crudelmente iper-realista e mistificante, un film a cui si può probabilmente riconoscere un solo “merito”, se di merito si può parlare, e nemmeno tanto pregevole essendo in netta discordanza con il resto, ossia l’aver restituito, almeno in apparenza, un tratto di autenticità sotto il profilo dell’identità linguistica nel contesto storico-ambientale di riferimento, in quanto all’epoca di Gesù l’aramaico era la lingua parlata dagli Ebrei, mentre il latino era l’idioma usato da Pilato e dai Romani.

Tuttavia, in questo dato non c’è nulla di veramente nuovo e straordinario.

Semmai, come dicevo, si rileva una netta dissonanza, una stonatura, nel senso che la presunta e pretenziosa fedeltà dei dialoghi agli idiomi originali (aramaico e latino) contraddice vistosamente con l’eccesso di fantasia e di mistificazione storico-culturale, anche rispetto alla narrazione dei Vangeli, a cominciare dai Vangeli sinottici di Luca, Marco e Matteo, laddove si evince chiaramente che la vera causa per cui Gesù venne condannato a morte fu la rivolta contro i mercanti del Tempio di Gerusalemme. Questo atto di “sedizione” di stampo anarchico ante-litteram fu la vera “blasfemia” commessa da Gesù, poiché il gesto era un vero e proprio attentato contro il fariseismo dell’epoca, contro il potere ipocrita e affaristico imposto dai sacerdoti del Sinedrio, qualcosa di simile al ribellismo dei giovani odierni contro i MacDonald’s, visti come simboli dell’economia del mercato globale, delle sue ingiustizie e disuguaglianze sociali, delle sue violazioni dei diritti umani più elementari, a cominciare dal diritto alla salute.

Certo, esistevano anche altre ragioni, ma la classica goccia che fece traboccare il vaso fu proprio la brusca cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme. Per questo il Sinedrio (neanche nella sua totalità) decise di far arrestare Gesù, per consegnarlo ai Romani che lo crocifissero. D’altronde la crocifissione era la pena capitale prevista dal diritto romano per i “sediziosi” e i “sovversivi”, e fu applicata in tantissimi casi di insurrezioni politiche e sociali.

A titolo emblematico mi limito a citare la famosa rivolta degli schiavi capeggiati da Spartacus.

Faccio queste puntualizzazioni (provando ad attenermi non solo ai Vangeli sinottici prima menzionati, ma anche ad altre fonti storiche) per smascherare l’acceso, estremo e rozzo antisemitismo che trasuda da ogni sequenza della pellicola cinematografica di Mel Gibson.

Del resto non occorre un grande sforzo dialettico per dimostrare una verità così manifesta.

Tuttavia, aggiungo altre osservazioni relative all’estetica grottesca e primitiva del film, che concede troppo, in modo insulso, perverso e grossolano, alle sequenze sceniche più orripilanti.

Quello di Mel Gibson è un film sulla figura di Gesù, anzi sulla passione di Cristo, ma non presenta e non suggerisce alcunché di spirituale e poetico, essendo totalmente privo di speranza, di gioia e di amore, che pure sono i valori più autentici e preziosi trasmessi e contenuti nel messaggio evangelico, mentre indulge eccessivamente ad immagini di orrore, sangue e violenza, nella peggiore tradizione horror splatter del cinema hollywoodiano.

La cruda rappresentazione, che pretende d’essere realistica, del supplizio di Gesù, è forse fin troppo realistica e brutale, a tal punto da diventare fantastica, stucchevole e spettacolaristica. In alcuni tratti la descrizione risulta quasi patologica e agghiacciante, nella misura in cui offre una morbosa e minuziosa ricostruzione dei dettagli più cruenti e sanguinosi, dal momento in cui Cristo viene fatto prigioniero dalle guardie del Sinedrio, quindi viene consegnato ai soldati romani che lo flagellano senza pietà, martoriandone la carne con armi sempre più terrificanti, e attraverso una massacrante via crucis si giunge alle sequenze riservate alla crocifissione, nelle quali il regista non risparmia alcun orrore, come del resto in tutto il film, ma propone un’overdose massiccia di strazianti violenze, con varie fratture di ossa e altri tormenti inflitti sul corpo di Gesù, eccedendo in una riproduzione ultra-spettacolare che è puramente gratuita e scurrile e si poteva facilmente evitare.

Il ribrezzo e il disgusto trascendono ogni limite nel momento in cui si pensa che l’inaudita volgarità del film si annida (neanche tanto) dietro un’ipocrita parvenza di raffinatezza e ricercatezza linguistica, che occulta invece un bieco tentativo di mistificazione storico-culturale e un’operazione ideologica di stampo reazionario e antisemita.

Sin dall’inizio del film si ravvisa tale intento propagandistico, almeno io l’ho colto in quanto è fin troppo evidente il tentativo di demonizzazione compiuto da Gibson rispetto alle azioni, ai comportamenti e alle presunte responsabilità degli Ebrei rispetto alla morte di Cristo.

In modo particolare nella prima parte del film, quando Gesù viene arrestato dalle guardie del Sinedrio, viene processato e giudicato dai sacerdoti e poi quasi linciato dalla folla inferocita, il popolo ebraico (non dimentichiamo che Gesù era un Galileo, un Israelita, ed era amato dalla sua gente, soprattutto dalle masse reiette e diseredate che lo accolsero trionfalmente al suo ingresso a Gerusalemme) viene dipinto come una stirpe abietta, fanatica, maledetta, nei termini di un “popolo deicida”, seguendo la tradizione dell’antisemitismo ideologico classico.

Insomma il regista ha compiuto precise opzioni di natura politico-religiosa, ed ha  scelto il tipo di estetica cinematografica che gli era più consona, anche per subdole finalità commerciali.

Pertanto, confermo le mie convinzioni in merito al cattivo gusto artistico di Mel Gibson, e ribadisco la necessità e l’opportunità di censurare e vietare il film per motivi estetico-creativi.

Di sicuro non era un film da proporre ad un pubblico come quello di RAI 1 in prima serata, quando è noto a tutti che a quell’ora anche i bambini (milioni di bambini) restano davanti al video, spesso privi di qualsiasi sorveglianza da parte degli adulti.

A mio parere è stata una decisione assolutamente irresponsabile ed infelice assunta dalla RAI.

Se i dirigenti dei network nazionali, addirittura della principale rete televisiva (di un ente pubblico come la RAI, a cui versiamo un canone annuo) scelgono di mandare in onda un film talmente disdicevole e diseducativo, non solo per i bambini, non dobbiamo meravigliarci che il signor Berlusconi e la sua banda di criminali e sovversivi legalizzati riescono ancora a riscuotere quasi il 50% dei consensi dell’elettorato nazionale, ossia la metà circa dei voti di un popolo che si è abbrutito e imbarbarito dopo oltre un ventennio di Tv spazzatura.

Lucio Garofalo

Il caimano

Italia/Francia, 2006 dc, politico, durata 112′, regia di Nanni Moretti

L’attesissimo film di Nanni Moretti nella recensioni di www.cinematrografo.it :

24/03/2006  – Drammatico, disperato, politico. È il morso di Nanni Moretti all’Italia di oggi, sospesa “tra orrore e folklore

Chi si aspetta un film su Berlusconi rimarrà deluso: il nostro Presidente del Consiglio rimane sullo sfondo, relegato in un ruolo minore. Ecco la prima sorpresa del Caimano di Nanni Moretti, commedia con andamento vivace, allegro, sentimentale, drammatico. L’altra, che non andrebbe svelata, è in chiusura della storia ed è duplice: chi interpreta Berlusconi (non lo vuole fare nessuno) e come e dove finiranno società e istituzioni. Moretti corona un sogno e ne infrange un altro, quello dei militanti che volevano una presa di posizione, un’opera su e contro Berlusconi.

Come Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio, il Caimano è un film sul cinema. Dalle comparse ai protagonisti, tanti i volti noti, soprattutto per gli addetti ai lavori, che il pubblico percepirà in parte. Così il gioco di citazioni, di frecciate divertite, sarcastiche, di veri ritratti d’autore: Michele Placido che reinterpreta se stesso, una prima donna, rude, volgare e scanzonata. Il quasi ottuagenario Giuliano Montaldo, regista di vecchie glorie come Sacco e Vanzetti e Tiro al piccione, che Silvio Orlando, di mestiere produttore, rimprovera aspramente quando lo molla all’improvviso perché Aurelio De Laurentiis ha deciso di finanziare il suo copione su Cristoforo Colombo. “Se non era per me, gli dice, non avresti lavoratoNessuno ti voleva, ti chiamava più da anni”.

Il secondo livello, il sottoplot, è sentimentale e drammatico: Moretti (che compare due volte) mette in scena l’Italia di oggi, la crisi sociale, etica, morale, le rovine della famiglia, la crudeltà della separazione dopo decenni di fiducia nell’istituzione del matrimonio. I figli a metà, le coppie di fatto, l’omosessualità, l’incapacità di accettare il cambiamento. Berlusconi compare qua e là nelle prime inquadrature, interpretato dal semisosia Elio De Capitani, nella sceneggiatura “sognata” da Silvio Orlando.

Niente di nuovo? Sì, la disperazione di un Paese, di un popolo, ripiegato in se stesso. Diventato villano, violento, indifferente. Sospeso “tra l’orrore e il folklore” come dice Jerzy Stuhr (grande attore e regista nella vita, qui nei panni del produttore che finanzia Il Caimano). “La vostra è un’Italietta – prosegue Stuhr – quando pensiamo che siete arrivati al fondo e vi solleverete, ci stupite ancora. Continuate a scavare”. E a dirlo non è, come nelle barzellette, un inglese, un francese, un tedesco, ma un polacco.

Il terzo livello è la storia, il film nel film. Orlando è il produttore fallimentare di lavori di serie B (Mocassini assassini, Stivaloni porcelloni…) che viene contattato da una giovane regista, Jasmine Trinca. Lei non ha mai girato un lungometraggio, ha 24 anni e un copione in mano: Il Caimano, molto ispirato alle vicende del nostro Presidente del Consiglio. Orlando si sta separando dalla moglie, Margherita Buy, e non ha nulla da perdere. Inserti veri (il famoso discorso di insediamento all’Europarlamento del 2 luglio 2003, quando Berlusconi dà del kapò al capo della delegazione tedesca Schultz) si mescolano a quelli di finzione, in un’escalation raggelante che raggiunge il culmine, il paradosso, alla fine del film. Un bravo regista sa dirigere gli attori: è un piacere vedere recitare Silvio Orlando, bravissimo anche nella disperazione, e Margherita Buy nella parte anche quando urla e piange. Buono il risultato della giovane Jasmine Trinca, nettamente superiore a tutti i ruoli da lei finora interpretati.

Marina Sanna

Angel-A

Titolo originale identico, Francia, 2005 dc, commedia, B/N, durata 90′, regia di Luc Besson

La recensione di www.cinematografo.it :

17/03/2006 – Il ritorno alla regista del francese Luc Besson. Dopo sei anni con una fiaba romantica e dai toni universali.

Luc Besson torna alla regia. Con una tenera fiaba d’amore Piccolo, brutto, scuro, lui. Alta, bionda, avvenente, lei. Gli opposti si incontrano. A Parigi. Un rendez-vous casuale quanto fatale: sia André che Angela si stanno per suicidare gettandosi da un ponte sulla Senna. Ed entrambi si buttano. Lui perché i debiti non gli lasciano scampo. Lei per salvarlo.

Tanto basta. Il ritorno di Luc Besson alla regia dopo sei anni di operosa latitanza si deve a un atto d’amore, quello per la splendida protagonista Rie Rasmussen: difficile dargli torto. Pur mosso da – e forse pure concluso in – ragioni sentimentali, Angel-A non si rinchiude in un’idiosincrasia affettiva impermeabile dal pubblico, anzi aspira esplicitamente a una universalità dai toni fiabeschi. Una fiaba calata nella Parigi contemporanea, politicamente tradotta nell’anti-americanismo d’ordinanza e nelle estemporanee tirate anti-razziste, ma anche sottratta all’hic et nunc dalla fotografia in bianco & nero del fedele Thierry Arbogast.

In questo territorio contraddittorio Besson installa il conflitto etico-pragmatico tra il truffatore da strapazzo e l’angelo della saggezza, che si riversa nella corporeità, ovvero nella fisicità antitetica dei protagonisti. Non c’è storia, in fondo, ma non manca sviluppo morale. Fortunatamente Besson non si prende troppo sul serio, lascia trapelare dalle immagini l’occasionalità del progetto, quasi si schermisce. E a noi quasi viene voglia di assecondarlo.

Federico Pontiggia

Truman Capote

Titolo originale Capote, USA, 2005 dc, biografico, durata 98′, regia di Bennett Miller

La recensione di www.cinematografo.it:

17/02/2006 – Elegante, ambiguo, controverso: è il celebre scrittore americano. Nella folgorante interpretazione di Philip Seymour Hoffman Truman Capote descrive in maniera dolorosa e complessa quello che è sostanzialmente un peccato di Hybrisovvero di tracotanza: la problematica genesi di un capolavoro della letteratura, nato dal sangue e da un grado di disperazione molto personale.

Nel novembre del 1959, infatti, un’intera famiglia di agricoltori fu massacrata da due sbandati finiti nella loro proprietà, nella campagna americana. Un drammatico fatto di cronaca che colpì l’attenzione del giornalista del New Yorker e scrittore Truman Capote, reduce dal grande successo di Colazione da Tiffany. Raffinato, elegante e gay, Capote partì alla volta della piccola cittadina del Kansas insieme alla sua assistente Harper Lee che proprio in quel periodo stava per pubblicare il suo romanzo più famoso: Il buio oltre la siepe, vincitore l’anno successivo del premio Pulitzer.

La palese ostilità degli abitanti del piccolo Stato conservatore nei confronti dell’eccentrico giornalista proietta sin da subito lo spettatore in un’atmosfera molto pesante e densa, vagamente alleggerita dall’humour sarcastico di Capote che fa di tutto per entrare nelle grazie dei concittadini delle vittime.

Tutto precipita, però, quando i due assassini vengono arrestati. Capote – che ormai ha deciso di scrivere un romanzo che lui sa già essere il suo capolavoro – finisce per diventare loro amico e vincendone la diffidenza inizia ad ottenere le loro confidenze.

Condannati a morte, i due sono abbandonati a se stessi, con il giornalista che se da un lato trova loro un avvocato, dall’altro se ne va per un anno in Spagna con il suo compagno (lo scrittore Jack Dunphy ) a scrivere quello che è uno dei libri più importanti della letteratura americana: A sangue freddo.

Costretto a tornare e a fronteggiare l’estenuante fine dei due balordi (l’esecuzione avverrà quattro anni dopo i tragici fatti di sangue) Capote sembrerà non trovare più la strada per tornare indietro dalla discesa nell’abisso delle personalità dei due omicidi.

Intenso e coinvolgente, Capote è una riflessione sulla manipolazione in nome dell’arte e sui limiti da non superare. Una pellicola diretta dal pressoché esordiente Bennett Miller con protagonista uno straordinario Philip Seymour Hoffman capace di dare vita ad un personaggio al tempo stesso fascinoso, ma non simpatico, né tantomeno positivo. Una figura controversa, ambiziosa, ma anche fragile nel suo rapporto di presunta amicizia con un assassino con cui sente di avere diversi punti in comune.

Marco Spagnoli

Aeon flux

Titolo originale identico (le prime due lettere spesso fuse insieme in maiuscolo), USA/Germania, 2006 dc, fantascienza, durata 93′, regia di  Karyn Kusama

La recensione di www.cinematografo.it:

24/02/2006 – Fantascienza pura (con vocazione indipendente) su etica, scienza e uso politico della paura. Affascinante Charlize Theron.

Ispirato alla serie televisiva creata dieci anni fa dall’ideatore di Animatrix, Peter Chung, Aeon Flux è una pellicola di fantascienza “pura”. Lontana dalle suggestioni alla Lara Croft e da derive splatter – horror o collegate al mondo delle arti marziali, Aeon Flux è una produzione interessante dalla vocazione di film indipendente ad alto budget.

Nella città perfetta di Bregna, quattrocento anni nel futuro, quando il mondo così come lo conosciamo oggi è stato distrutto da un virus, un gruppo di terroristi combatte il governo dispotico del Presidente Trevor Goodchild che – a dispetto del cognome che farebbe pensare a qualcosa di positivo – sembra fare in modo che dissidenti e persone innocenti scompaiano misteriosamente.

La letale ribelle Aeon Flux è pronta ad ucciderlo. Quando ne ha finalmente l’occasione, non riesce a farlo. Che cosa le è accaduto quando ha guardato Goodchild negli occhi? Soprattutto, perché questo l’ha chiamata con un nome che lei non ricorda, ovvero Katherine? A chi appartengono i ricordi che ogni tanto emergono nella sua mente? A quale vita?

Interpretato da un’affascinante Charlize Theron con un carismatico Marton Csokas, il film è una pellicola sulla necessità di continuare a sperare nella Natura nonostante tutto.

Sexy ed elegante, sinuoso e intenso Aeon Flux è una riflessione profonda, ma anche di intrattenimento, sui rischi della scienza sganciata dall’etica e sull’esercizio di paura e menzogna per mantenere il potere.

Marco Spagnoli

Million dollar baby. Un gran bel film di e con Clint Eastwood

Titolo originale identico, USA, 2004 dc, drammatico, durata 112′, regia di Clint Eastwood

La recensione di www.35mm.it

“Million dollar baby”: La cognizione del dolore

Clint Eastwood cambia forme e toni rispetto a “Mystic River”, ma non smarrisce quell’intensità classica e moderna al tempo stesso che ne fanno uno dei più grandi cineasti in circolazione.

Dopo la discesa dolorosa nelle acque melmose del fiume Mystic, Clint Eastwood riparte.

Dopo aver ‘messo il punto’ su un genere (il noir derivante dal gangster movie) con una autorevolezza che non si vedeva dai tempi di Kubrick, si innamora della sceneggiatura di Paul Haggis che tratteggia esistenze in cerca di redenzione e riscatto, in quel mondo a parte fatto di palestre maleodoranti dove si cresce tirando e incassando pugni.

Clint si rimette in gioco in prima persona, intuendo che la sua faccia di cuoio e il suo humour velenoso sono ideali per impersonare Frankie Dunn, allenatore troppo attaccato ai propri pugili, troppo impegnato a proteggerli per fargli (mia nota: “far loro”) spiccare il volo. Ma anche uomo di chiesa (mia nota: irlandese, e con molti dubbi) e padre addolorato per una figlia che non vede più (mia nota: per tutto il film non si riesce a capire perché si sono separati, cosa la figlia rimproveri al padre per rispedirgli tutte le lettere che lui le invia: per me questo mistero è forse l’unico limite al film). Un surrogato di lei arriverà dietro le spoglie di Maggie Fitzgerald, macchina da pugni che ha solo bisogno di essere oliata e messa in pista.

Il quadro è abbastanza chiaro, le dinamiche psicologiche sono riconoscibili ma mai stucchevoli, e per buona parte il film scorre pacato, essenziale, classico. Gli screzi dialettici virili tra Frankie, Scrap (nota mia: Nerone, se non dici chi è Scrap pensi di fare un buon servizio al lettore che non ha ancora visto il film?) e Maggie potrebbero venire da un western di Ford, la fotografia ‘non lavata’ e vecchio stampo di Tom Stern ci trasporta in una dimensione ‘altra’ da quella luccicante dei film odierni, le note di steel guitar danno al tutto il sapore di una vecchia ballata folk, suonata in veranda al chiaro di luna.

Poi, nell’incontro che può portare Maggie il titolo, lo scarto improvviso che fa deragliare.

Haggis e Eastwood decidono per un accanimento del destino che impone alla loro eroina un martirio fisico e mentale di stampo quasi ‘vontrieriano’. Dolore e dignità, da temi sommessi e mimetizzati, come erano nel racconto, vengono sovraesposti e sbattuti in faccia allo spettatore, e ci vuole la mano felice di un regista in stato di grazia per conservare una ‘misura’, un tono asciutto che lascia attoniti.

Scorrono i titoli di coda, si rimane soli con le proprie lacrime, a chiedersi se siano sacrosante o inevitabilmente ‘costruite’ da uno snodo di sceneggiatura ‘vagamente’ ricattatorio (nota mia: io non vedo questo carattere ricattatorio, e non penso che Eastwood sbatta in faccia allo spettatore alcunché, forse, al contrario, rende veramente evidenti e decise le tematiche che, come dice Nerone, nel racconto erano troppo sommesse e mimetizzate!).

Giorgio Nerone

Fahrenheit 9/11

Titolo originale identico, USA, 2004 dc, documentario, durata 115′, regia di Michael Moore

La recensione da http://www.35mm.it/. Altre interessanti recensioni su http://www.cinematografo.it/

Fahrenheit 9/11″: lo dice Orwell

di Mattia Pasquini

Nessuna sorpresa. Michael Moore non ha bisogno di cambiare nulla nella struttura del precedente fortunatissimo “Bowling a Columbine” per regalarci un nuovo lucido sostanziato e riuscito atto d’accusa ai soliti soggetti. Anche loro gli stessi. Lo stesso. Le novità (ma anche queste non lo sono completamente, non per tutti) sono tutte dentro il film, nelle lunghe ricerche di Moore e collaboratori, nei documenti e nelle testimonianze di combattenti, dirigenti, madri, democratici e repubblicani, pentiti e sostenitori, commercianti e iracheni che non fanno altro che delineare un quadro vergognoso della tanto celebrata ‘Lotta al terrorismo’.

Dell’uso, la fornitura delle armi, il loro commercio tra Stati Uniti e Talebani – e del definitivo impiego – si era già detto nel precedente, stavolta non c’è bisogno di mostrare null’altro di quel fatidico 11 settembre che le reazioni della gente, i terribili rumori a riempire un’evocativo schermo buio, gli sguardi levati al cielo e lo sfruttamento da parte di alcuni soggetti politici ai propri fini. L’abitudine a non dare spiegazioni cozza contro la dimostrazione di collegamenti economici, di interessi, di favoreggiamenti e inammissibili vicinanze tra i Bush e i Bin Laden… Ma questa è solo una parte (la prima) del film, propedeutica; dopo un prologo sulla controversa elezione di Bush, a scapito del già festeggiante Gore (chi sapeva che il responsabile Fox nel momento in cui la rete televisiva propendeva per la vittoria di Bush in Florida era il di lui cugino? Divertente…), e sui suoi primi – esilaranti a tratti – sette mesi di mandato, la seconda parte del documentario è tutta dedicata alle tristi e note conseguenze di quei fatti.

C’è spazio per ridere amaramente delle contraddizioni di una politica assente sul territorio e capace di infiltrare agenti in gruppi pacifisti, ma incapace di essere presente in caso di reali necessità e tutta tesa a spostare i propri uomini oltre confine oppure ad approfittare delle sacche di povertà ed indigenza come potenziali serbatoi cui attingere offrendo condizioni di vita migliori – dovute di diritto e che non si è in grado di salvaguardare altrimenti – in caso di arruolamento.

Politici elusivi, ammissioni sconcertanti, inadempienze gravi e conflitti di interesse si alternano a dolori veri, confronti, documenti ufficiali, incredulità, impotenza, racconti dal fronte, domande senza risposta e confessioni soddisfatte di tanti responsabili delle grandi aziende pronti a godersi una “buona situazione per gli affari”, pur se “negativa per la gente”, e gli effetti delle opportunità di commercio offerte in Irak “come in nessun altra parte del mondo oggi”.

le testimonianze e le storie raccontate certo abbassano il tono, si ride meno, si piange, la progressione è meno dinamica, ma in fondo stiamo parlando di un documentario. E che documentario. Grazie Michael, ancora una volta. Con la speranza che il maggior numero di gente lo veda, negli Stati Uniti, in America (e non è lo stesso), nel mondo, e abbia voglia di approfondire ed andare oltre la scodella calda di tanta ‘informazione’ capace solo di amplificare gli slogan xenofobi di una politica sempre più anacronistica e in malafede. 

Volevo solo dormirle addosso

Italia, 2004 dc, drammatico, durata 97′, regia di Eugenio Cappuccio

Dal libro è stato tratto l’omonimo film sul mondo del lavoro nella new economy italiana. Il motto aziendale: far credere alle persone di essere importanti e poi “segarle” senza pietà.

Articolo tratto da Zeus News, notiziario libero e indipendente dedicato a Internet, all’informatica, alle nuove tecnologie e alla telefonia fissa e mobile http://www.zeusnews.it/, –  L’occhio di Zeus, 18-11-2004 dc:

“Volevo solo dormirle addosso” è un film vero sulle vere aziende italiane: un film perfetto, migliore anche del film francese sullo stesso argomento “Risorse Umane”. 

La frase attorno a cui gira tutto il film è “Io ti stimo”: il protagonista, giovane manager in carriera, la ripete alla nausea, persino alla mamma. È la frase tipica di tutti i progetti di motivazione e “fidelizzazione” delle risorse umane, per farle sentire centrali. Per esempio, nel Gruppo Telecom Italia c’è il “Progetto Sono”, in Vodafone si chiama “People Care”, nella fantomatica impresa del film invece c’è “People First”. 

Far credere alle persone di essere importanti e poi “segarle” senza pietà, come si dice spesso nel film. È tutto vero: dalla contrattazione dei dipendenti sulla cifra da avere come incentivo alla fuoriuscita da un’azienda, che deve avvenire all’interno di un budget prefissato, ai dipendenti che contestano la cifra perché un anno prima al loro collega era stato dato molto di più, al vecchio dipendente che non si fida ad andare in pensione prima della fine dell’anno perché ha paura che cambino le regole, fino alla dipendente malata di cancro da sbattere fuori senza pietà. 

Non manca la donna che ha avuto quattro maternità e rientra, perfettamente, nel target su cui tagliare. È vero e realistico perfino nella preoccupazione che queste pressioni per mandare via le persone non turbino il clima aziendale e non provochino problemi con il sindacato. 

Bellissima la metafora del “sesso senza amore”, del volerle solo dormire addosso, che il manager pratica nei rapporti personali: un sesso meccanico e senza anima, come i rapporti falsamente amicali tra i dipendenti dell’azienda. 

Ci sono poi degli stereotipi che rendono bene alcuni schemi sempre più presenti nella vita aziendale odierna: il manager francese spietato e glaciale, in rappresentanza di un potere multinazionale distante ma onnipotente; la manager cinese che dice con disprezzo al giovane “killer”: “Voi italiani non accettate le sfide, non volete vincere l’avversario, volete mettervi d’accordo con lui”. 

Un’altra metafora della condizione umana dell’azienda postmoderna è quella delle battute tra un vecchio manager italiano dell’ufficio personale e la giovane manager cinese. Il manager italiano dice: “Pensa che un dirigente mi ha detto: tagliami lo stipendio ma non ridurmi l’ufficio”, commentando che le dimensioni dell’ufficio sono uno status symbol. La cinese risponde: “Oggi il vero status symbol è l’ufficio invisibile”, intendendo così il cellulare e il notebook che il protagonista si porta continuamente appresso, dal tavolo di lavoro al letto di casa, uniche vere compagnie di un uomo povero di affetti e autentici rapporti umani. Fantastiche anche le riunioni in cui si fa il punto sull’avanzamento del programma di “taglio delle teste”. 

Il film prende ispirazione da un romanzo di Massimo Lolli che vendette molto qualche anno fa: questo romanzo è ripreso anche in un capitolo di “Stress Economy”, saggio sulla condizione umana e lavorativa nelle aziende postmoderne, scritto a due mani da Alessandro Gilioli e Renato Gilioli. 

Anche lì si parla di un’azienda che apparentemente è tutta centrata sulla qualità della vita dei dipendenti, ma che poi non esita a licenziarne un buon numero a partire da quelli più in difficoltà, come il dipendente maniaco del gioco del lotto e preso dai debiti. 

Il film è del regista Eugenio Cappuccio ed è splendidamente interpretato dal giovane attore Giorgio Pasotti. Il vecchio capo del personale che il giovane manager sostituisce e che dice poche parole di augurio: “Non perdere tempo e fai il tuo target” (cioè i 25 lavoratori da tagliare da Ottobre a Novembre) è un piccolo cameo di Carlo Freccero, già alto dirigente Rai, che aveva interpretato se stesso anche in un film di Piero Chiambretti. 

Si può dire che il film colma un vuoto dell’attuale produzione del cinema italiano, in cui non esistono i Ken Loach e i Micheal Moore; anche il cinema degli intellettuali più attenti al politico e al sociale, il cinema dei Moretti e degli Scola, si attarda più sul privato e sui drammi umani e familiari che nella descrizione del mondo del lavoro italiano, dei drammi e delle vicende dei suoi uomini e delle sue donne. 

Abbiamo intervistato Massimo Lolli, l’autore del libro da cui è stato tratto il film. Lolli è autore di un nuovo libro nello stesso filone “Io sono Tua” e attualmente, dopo essere stato direttore del personale di aziende come Nokia ed Ericsson, è manager delle human resources alla Marzotto. 

ZN: Il cuore del suo romanzo “Volevo solo dormirle addosso”, da cui è stato tratto l’omonimo film di successo, sembra la totale schizofrenia tra il progetto di motivazione e di “fidelizzazione” (parola abusatissima) delle risorse umane e le esigenze legate ai costi. Questi ultimi portano a tagliare senza pietà quelle risorse umane a cui si voleva far credere di essere utili, preziose, indispensabili alla stessa azienda. Ci sono aziende che investono milioni di euro in progetti così e nel frattempo preparano esternalizzazioni e mobilità. Quanto sono coscienti i dirigenti e i consulenti di questa contraddizione, quanto può reggere? 

Massimo Lolli: “La contraddizione fra investimento in risorse umane e dismissione di risorse umane non può comporsi se la logica è la seguente: l’azienda A investe sulle risorse umane di A per sostenerne l’occupazione in A. In questo senso la contraddizione non è componibile e, specie nella cultura italiana, refrattaria al valore e alla pratica della trasparenza, si traduce in una incongruenza fra dichiarato ed effettivo. Nella cultura anglosassone la logica invece è: l’azienda A investe sulle risorse umane di A per sostenerne l’occupabilità nel mercato; qui la contraddizione si compone. Non so se questa logica possa reggere e per quanto tempo, ma almeno, così formulata, è chiara e trasparente”

ZN: In Italia dopo Bianciardi e Volponi (e prima ancora Svevo) non c’è più stata una “letteratura aziendale”, cioè una letteratura legata all’ambiente della grande impresa e, soprattutto, a quello delle figure impiegatizie e dirigenziali. Per ricordare un film legato allo stesso modo, ad esempio, bisogna andare a “Impiegati” di Pupi Avati di vent’anni fa, all’inizio dello yuppismo. Perché non fiorisce questo genere letterario, a suo avviso? Ha dei modelli di riferimento? 

Massimo Lolli: “A me pare che il tema del (post) lavoro stia emergendo nuovamente al cinema e in letteratura. Al cinema penso a Loach, a Comencini, a Cantet; in letteratura penso a Nata, Avoledo, Falco. Non ho modelli di riferimento perché mi definisco un illetterato e, quel che è peggio, un illetterato presuntuoso”. 

ZN: La percezione lucida e amara del mondo dell’impresa moderna, senza infingimenti e al di là di ogni retorica aziendalese, come ti permette di continuare a fare questo lavoro? 

Massimo Lolli: “Non sono un manager che sogna di scrivere storie. Anzi, se non facessi il manager, non saprei che storie scrivere. Io credo che occorra ribaltare la domanda: proprio guardando in faccia l’ombra, il male, il rimosso che è fuori e dentro di noi, possiamo liberarcene e progredire. Io sono un riformista: il riformista rimane per migliorare, il rivoluzionario si allontana per distruggere e ricreare.

The dreamers – i sognatori

Titolo originale The dreamers, Italia/Gran Bretagna/Francia, 2003 dc, drammatico, durata 130′, regia di Bernardo Bertolucci

Una delle più centrate recensioni, da http://www.35mm.it/

Armonia.
Bertolucci riesce a miscelare in modo magistrale vita reale e cinema in un connubio profondo e mai banale. I personaggi sono vivi e rappresentano esattamente lo stato d’animo confuso di un periodo di grande cambiamento come il ’68. Ma non vi è solo la confusione politica (che in realtà i due personaggi ignorano per quasi tutto il film). Vi è soprattutto la confusione interiore dei due fratelli, bloccati nel piccolo nido sicuro di bambini, un nido che non vogliono abbandonare e che proteggerebbero anche a costo della loro vita, come dimostra Isa. Vi è la confusione di Mattew, che non riesce mai a inserirsi del tutto nel rapporto morboso di Isa e Theo. C’è anche la componente genitoriale, che benché sia in secondo piano, non è sottovalutata: genitori assenti, in senso affettivo e in senso fisico, genitori che lasciano assegni su assegni e che ridono delle idee dei loro figli.

Equilibrio.
Mattew si trova catapultato nel sogno di questi due bambini, nel loro mondo fantastico fatto di cinema, erotismo, alcool e nient’altro. Inizialmente diffidente, entra a far parte attivamente anche lui del sogno morboso di Theo e Isabelle. Ma non ci entra mai completamente: da un lato il fortissimo, quasi indissolubile legame dei due fratelli, da l’altro la divergenza di idee sulla vita, sul loro particolare modus vivendi, lo allontana sempre di più, fino al distacco finale.

Bertolucci gioca a fare l’equilibrista: cinema, vita, sesso, alcool, sesso, politica, cinema, sesso, politica, vita. Non cade mai, riesce sempre a destreggiarsi egregiamente, senza scadere nel volgare o nel banale. Vi è certamente una nota voyeuristica nel film (che molti hanno criticato), ma questa è voluta, a mio avviso, per far capire allo spettatore il loro punto di vista, i loro giochi erotici e il loro modo di vedere la vita. Se fosse stato censurato, o Bertolucci avesse lasciato all’immaginazione dello spettatore le scene di nudo, il film non avrebbe avuto ragion d’essere, sarebbe stato incompleto. Fa tutto partedel loro sogno.

Leggerezza.
Il regista non vuole dare giudizi, non vuole fare alcuna condanna o istigazione: si limita a descrivere la dimensione onirica dei tre sognatori sospesi tra cinema e realtà. Ciò viene rappresentato benissimo: dal loro modo di vivere (sempre nell’appartamento, quasi senza mangiare, facendo sesso e giochi erotici nella cucina o nello studio, chiacchierando nella vasca da bagno-bellisimo il gioco di specchi- ed usando il salotto come camera da notte) ai continui salti ai film d’epoca che i tre ragazzi riproducono in modo talmente fedele, che le loro sagome coincidono perfettamente con quelle dell’originale (a tal proposito, di grande effetto la scena di Isabelle che rappresenta la Venere di Milo).

Ma ogni sogno ha una sua fine. Il grido di Isabelle “La strada è entrata in camera!” segna la fine del loro sogno. Le urla dei manifestanti penetrano nel loro nido sicuro “Dans la rueDans la rue!” portandoli via con sè.

Un film di grande impatto, divertente, commovente e particolare, regia meravigliosa ed equilibrata, perfetta colonna sonora e attori, nonostante i temi trattati e le scene imbarazzanti, a dir poco eccellenti.

Valentina Frugiuele

dibabykiky

Mystic river

Titolo originale identico, USA, 2003 dc, drammatico, durata 137′, regia di Clint Eastwood

Una delle recensioni, tra quelle favorevoli, ad uno dei più recenti film, da regista, di Clint Eastwood, da http://www.35mm.it/

Un fiume…

Un buon film, intenso, carico di emotività e dolore; dolore straziante per un abuso infantile che finisce per sconvolgere una intera esistenza, dolore allucinante per la perdita di una figlia, o ancora sofferenza per l’abbandono di una moglie…3 vite, quelle di Jimmy Sean e Dave legate in passato, spezzate da un abuso orrendo, che tornano ad incrociarsi in concomitanza con una nuova tragedia. La figlia maggiore di Jimmy viene brutalmente assassinata; Sean è il poliziotto incaricato dell’indagine, Dave il probabile assassino.

Un film sull’innocenza perduta troppo bruscamente e prima del tempo, e che si trasforma in rabbia, in follia omicida, e che segna fatalmente la vita di tre uomini… E’ impossibile non partecipare al dolore straziante di Jimmy al ritrovamento del cadavere della figlia, o ancora allo sfogo, rabbioso e compassionevole al tempo stesso, di Dave, che porta ancora, e per sempre, nel corpo e nell’anima, le cicatrici infertegli dai suoi aguzzini…

Clint Eastwood riconferma (nel caso ce ne fosse stato bisogno) il suo grande talento di regista e firma, avvalendosi di uno stile classico, un ottimo dramma venato di thriller. Il cast è davvero eccezionale e completamente in parte: a cominciare dai protagonisti maschili ( Penn, Bacon e Robbins) senza trascurare le loro antagoniste femminili ( la lucida e nel finale spietata Laura Linney e la fragile e insicura Marcia Gay Harden), le quali si prodigano con più o meno consapevolezza, a lavare le colpe dei mariti e, al contempo, ad accelerare la loro caduta verso gli inferi… E su tutti (i cadaveri che nel suo fondale albergano) il Mystic, fiume dalle acque oscure, luogo in cui tutte le colpe vengono purificate, che continua il suo eterno corso ignaro (o forse complice silente) delle vite che sulle sue rive sono state spezzate.

di: protection

Lost in Translation-L’amore tradotto

Titolo originale Lost in translation, USA, 2003 dc, sentimentale, durata 105′, regia di Sofia Coppola. Altro esempio dell’idiozia italiana nelle traduzioni dei titoli: il limpido Perso nella (in) traduzione diventa lo stupido L’amore tradotto!

La recensione da http://www.35mm.it/

Paradossale trovarsi davanti a un siffatto titolo italiano, proprio riguardo un film che vuole focalizzare l’attenzione sulle difficoltà di comunicazione e sui diversi sguardi (e/o traduzioni) con i quali opposte alterità si osservano e riproducono. Il titolo originale, “Lost in translation”, appare sicuramente più corretto per fotografare il gioco di ammirazione e imitazione di due culture tanto opposte, la giapponese e la statunitense, ormai diventate omogenee.

Tra scimmiottamenti di modelli non propri, più o meno imposti, gag sui giapponesi (ma fa ancora ridere lo stereotipo e il deriderlo…?), disfacimento dei rapporti personali e le crisi e le insoddisfazioni di due età a confronto, si muove un Murray stanco ma ‘pigliatutto’ che riesce a tenere sulle sue spalle l’intero film della Coppola, riuscendo ad incarnarne le diverse anime.

Complementare, e decisamente apprezzabile, è la giovane Scarlett Johansson, ottimo contraltare del protagonista, soprattutto nella sua curiosità e nei suoi bisogni un po’ naive a tratti e privi di presunzione (solo per moda?) occidentale. Una nota: c’è anche “La dolce vita” e il nostro “Marcello” nella notte che i due protagonisti passano insieme…

di: Mattia Pasquini

Le invasioni barbariche

Titolo originale Les invasion barbares, Canada/Francia, 2003 dc, commedia nera, durata 99′, regia di Denys Arcand

La recensione da http://www.cinematografo.it/

In più occasioni ci è capitato di trattare la questione “dolce morte” e le terapie in grado di alleviare il dolore dei malati terminali o incurabili, ma la visione che ci propone il canadese Arcand probabilmente ci resterà negli occhi più di altre… Abbandonando il punto di vista medico (non possiamo né vogliamo permettercelo) ci resta un bel film, cinico, commovente, critico e divertente… cosa chiedere di più? Nello scontro rappresentato di mondi e di generazioni, di stili di vita e di ideologie, emergono tratti notevoli, ma si tende a non focalizzare l’attenzione su un aspetto preciso. Il cinismo di un reduce da una vita dedicata al piacere e alla bellezza, forse troppo condizionata da fantasie, speranze ed ideali? Il disincanto di un giovane broker forse poco attento alla sostanza delle cose e dei rapporti abituato a risolvere tutto aggirando le regole? La critica nei confronti di una chiesa lontana e deludente troppo impegnata sul temporale? O forse, come suggerisce il titolo, l’11 settembre ha davvero segnato l’inizio delle nuove grandi invasioni barbariche?

L’Impero (non a caso il titolo completo recita “Il declino dell’Impero Americano continua”!) U.S.A. ha per troppo tempo tenuto i ‘barbari’ lontano dalle sue frontiere, con ogni mezzo e dopo aver goduto (non sola certo) dei benefici delle stragi di ‘indigeni’ (la colonizzazione delle Americhe ha richiesto 200 mila morti per i quali Arcand lamenta – giustamente – la mancanza di memoria e rispetto).

Le invasioni sono quelle dei barbari o quelle statunitensi ai danni altrui? O è la barbarità a essersi diffusa in una società moderna in cui “l’intelligenza è finita” (veniamo citati anche noi… ‘Se prima gli USA avevano i Jefferson e gli Edison, ora hanno Bush e dove c’erano i Machiavelli, i Raffaello ed i Leonardo ora c’è Berlusconi’ …ci sarà da esserne orgogliosi?) e forse bisognerebbe sperare proprio nel tanto demonizzato mondo arabo?

Una regia inizialmente senza particolari meriti e un montaggio non entusiasmante crescono ed escono alla distanza, anche se rimane la sceneggiatura – equilibrata e dagli scarti notevoli in grado di sopperire ad altre mancanze – il punto di forza di una commedia in grado di evidenziare critiche molto precise alla società in cui viviamo, con la scusa di raccontarci una storia davvero e sinceramente commovente.

di: Mattia Pasquini

Frida

Titolo originale identico, USA, 2002 dc, biografico, durata 120′, regia di Julie Taymor

Vediamo un po’ cosa hanno scritto i cosiddetti “critici” di questo bellissimo film di Julie Taymor, che attendevo da tempo.

Da http://www.libero.it/

“Vita, arte, amori e disgrazie di Frida Kahlo, ieri mito della pittura messicana, oggi icona pop, con gossip e deformazioni agiografiche al seguito (mia nota: cosa si intenda dire rimane un mistero). Ne fa le spese anche il marito amatissimo e donnaiolo Diego Rivera, altro grande artista di cui nel ‘Frida’ di Julie Taymor compare soprattutto il volto “glamour”. Ed ecco i quadri, le liti, il terribile incidente che spezzò la spina dorsale della pittrice, e poi Tina Modotti, Trotzkij, Rockefeller, Picasso, Breton. Stessa formula di ‘Shakespeare in Love’. Ma Frida è più divertente, azzardato e ridicolo” (mia nota: forse ridicola è solo questa “critica”). (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 17 gennaio 2003 dc)

“Ad onta delle ottime intenzioni della brava Salma, il risultato è un classico album di figurine d’epoca dove si trovano allineati in dose massiccia i luoghi comuni del genere artista-maledetto (…) (mia nota: per non parlare dei luoghi comuni, ben peggiori a mio avviso, di questo “giornalista” ben noto..) Ma forse la cosa peggiore è che la Taymor voleva fare un altro film; così, appena può, infila qui e là una sequenza quasi sperimentale, che contrasta in maniera vistosa col tono convenzionale di tutto il resto” (mia nota: costui non sa ciò che dice, e viene pure pagato per dirlo. Ma già lo conoscevo, purtroppo). (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 19 gennaio 2003 dc)

“Snobbato dai critici e ignorato dalla giuria alla Mostra di Venezia, ‘Frida’ appartiene a quel tipo di film che anziché venir promossi dai festival ne escono danneggiati. È invece una pellicola di classe, firmata dall’imprevedibile Julie Taymor e interpretata da Salma Hayek, un’attrice con il fuoco dentro che d’ora in poi va tenuta d’occhio”. (Tullio Kezich, ‘Corriere della Sera’, 18 gennaio 2003 dc) (mia nota: come sempre Kezich è il migliore!)

“Julie Taymor, ardita regista di Broadway, sembrava adatta a sparigliare le carte, sì da non ridurre l’avventurosa vita di Frida Kahlo, artista e pasionaria, a uno sceneggiato da museo delle cere. E invece in Frida la Taylor vola piatta, lasciando al truccatore il destino di Salma Hayek, la tenace diva che a ogni costo ha voluto questo kolossal triste, né profondo né paradossale”. (Claudio Carabba, ‘Sette’, 9 dicembre 2002 dc). (mia nota: e questo invece è senz’altro uno dei peggiori…)

“‘Frida” è il classico ‘biopic’, sia pur riveduto e corretto da uno stuolo di sceneggiatori. Il meglio è nella prima parte, nella nascita dell’amore fra i due artisti, nella rivalità che diventa amicizia fra Frida (Salma Hayek) e la prima signora Rivera (Valeria Golino), nella bravura di Alfred Molina, che dona grazia ed emozione a un personaggio poco simpatico come Rivera. E negli interventi grafici di sapore surreale. La formula ricorda ‘Shakespeare in Love’. Ma ‘Frida’ è più divertente, azzardato – e a tratti ridicolo.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 23 gennaio 2003 dc)
(mia nota: straordinario! Ferzetti clona se stesso, con qualche modifica, dalla critica di cinque giorni prima!)

“La protagonista Salma Hayek è brava e i costumi di Julie Weiss sono bellissimi; il film è per metà grottesco e per metà stereotipato.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 24 gennaio 2003 dc) (mia nota: questa è un’altra che ha capito tutto…..[sigh!])

L’uomo del treno

Titolo originale L’homme du train, Francia, 2002 dc, drammatico, durata 90′, regia di Patrice Leconte

La trama e una parte della recensione di http://www.cinematografo.it/

“Uno sconosciuto arriva in un villaggio dell’Ardèche: il suo nome è Milan. Fa conoscenza con Manesquier, un insegnante in pensione e, nonostante siano molto diversi, fanno amicizia. Milan avrebbe voluto vivere la vita tranquilla di Manesquier, mentre lui ha sempre desiderato fare l’avventuriero come Milan. Nel giro di tre giorni per entrambi accadrà un evento importante: Milan deve rapinare la banca del luogo e Manesquier deve sottoporsi ad un intervento…

“‘L’uomo del treno” poteva risultare un film a formula, l’ennesima variante del soggetto di ‘strana coppia’; invece – grazie a immagini sobrie e dialoghi di un’intelligenza che fa bene alla salute – era uno dei più belli, personali, affascinanti in concorso all’ultima Mostra di Venezia (…) Se nello strano, letterario mondo di Patrice Leconte tutti sono un po’ filosofi e poeti, l’assenza di realismo non disturba perché è coerente col gioco allegorico della doppia osmosi di personalità fra i protagonisti. Solo nell’epilogo il tono scade un po’; guarda caso, proprio quando il film, fino ad allora disinvolto e brillantissimo, si lascia andare all’ambizione sbagliata di un finale troppo gonfio di significato”. (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 24 novembre 2002 dc)

L’uomo che non c’era

Titolo originale The man who wasn’t there, USA, 2001 dc, drammatico, B/N, durata 116′, regia di Joel Coen

La trama e una parte della recensione di http://www.cinematografo.it/

Nell’estate del 1949 in una piccola città della California del Nord, Ed Crane, un barbiere assai scontento della propria vita, spera di poterla cambiare quando, scoperto il tradimento della moglie, decide di ricattare l’amante. Nonostante la sua mancanza di scrupoli, però, le cose andranno in maniera diversa perché l’amante di sua moglie viene trovato ucciso.

I luoghi degradati, la vita misera e il senso di fatalismo che caratterizzavano il vecchio noir americano sono colti benissimo: la fotografia di Rober Deakins (ispirata ai ritratti di Richard Avedon), soprattutto nel ritrarre volti che si direbbero davvero ripresi dal passato, è perfetta. Invece il film, pur molto godibile, non lo è. Intanto perché ha troppo l’aspetto di un ricalco, di una copia d’epoca: come andava di moda ai tempi di Peter Bogdanovich, ma più difficile da accettare per lo spettatore odierno. Poi per il senso di indecisione che sembra avere preso i Cohen nell’ultima parte, spingendoli a diluirla in tre o quattro finali diversi”. (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 14 maggio 2001 dc)

El Alamein-La linea del fuoco

Titolo originale identico, Italia, 2002 dc, guerra, durata 112′, regia di Enzo Monteleone

La trama e una parte della recensione di http://www.cinematografo.it/

Quando viene evocato il nome di El Alamein, storico luogo di battaglia tra le sabbie infuocate dell’Africa del Nord, vengono richiamati alla mente scontri, rumore di carri armati, sibili di bombardieri, atti eroici di generali famosi – due su tutti Rommel e Montgomery – e soldati semplici. Ma questo film non vuole raccontare la Storia, ma tante storie. Quelle degli uomini italiani schierati nel ‘settore sud’, dove le condizioni climatiche e logistiche sono le più disagevoli: di giorno caldo torrido, di notte freddo, con i rifornimenti che tardano ad arrivare e le missioni suicide nei campi minati, ma soprattutto la mancanza di informazioni sulle sorti delle battaglie condotte al nord dal grosso dell’armata italo-tedesca.

“Al di là di ogni ideologia i veri problemi del film sono di ordine cinematografico. Perché Monteleone, già sceneggiatore di film come ‘Mediterraneo’, ‘Marrakech Express’, ‘Alla rivoluzione sulla 2 cavalli’, evita la retorica bellicistica ma non quella generazionale. Sicché questi soldati persi nel deserto del 1942, confrontati al pericolo, ai disagi, alla dissenteria, alle cannonate che piovono improvvise a volte polverizzandoli letteralmente, finiscono malgrado tutto per somigliare un po’ troppo ai ‘combattenti’ o ai reduci di altre epoche. (…) È vero che ogni film storico parla anche, forse soprattutto del presente. Ma qui oltre a scegliere facce, gesti, voci, molto contemporanei, domina una chiave ‘soft’ che per non speculare sull’orrore toglie impatto al racconto e dribbla i veri problemi di messinscena posti dal soggetto. Peccato, le bellissime interviste ai reduci girate durante la preparazione e confluite in un notevole video presentato a Venezia, ‘I ragazzi di El Alamein’, lasciavano sperare in tutt’altro film”. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 8 novembre 2002 dc)

Le fate ignoranti

Titolo originale identico, Italia/Francia, 2001 dc, drammatico, durata 116′, regia di Ferzan Ozpetek

Molto bello. La recensione di http://www.libero.iol.it/

Antonia e Massimo sono sposati da molti anni ed il loro sembra essere un matrimonio felice. La vita di Antonia ruota tutta attorno alla figura del marito che ama profondamente così, quando un terribile incidente la priva di Massimo, cade nella depressione più totale. Antonia non lavora più, non frequenta più le sue amiche ma si chiude nel suo dolore escludendosi dal resto del mondo. A nulla servono le prediche della madre o l’aiuto della domestica Nora.

Accade però che, per puro caso, la donna scopra della relazione extraconiugale che Massimo portava avanti da sette anni. Decisa a conoscere l’identità dell’amante di suo marito, Antonia comincia le sue personali indagini. Riuscirà a trovare chi cerca e, con gran sorpresa, non si troverà di fronte ad una donna ma ad un uomo: Michele.

Dopo un drammatico confronto, i due si accorgono delle tante cose che hanno in comune e Antonia impara a conoscere ‘l’altra famiglia’ che Massimo si era costruito. Un nucleo di persone che non hanno distinzioni di sesso, di età o provenienza sociale, una famiglia ‘aperta’ completamente diversa da quella che lei e Massimo rappresentavano.

Da Michele ed i suoi amici Antonia avrà modo di imparare molte cose e, soprattutto, che la vita continua…

Fucking Åmål – Il coraggio di amare

Titolo originale Fucking Åmål, Svezia, 1988, commedia, durata 98′, regia di Lukas Moodysson

Film svedese, ambientato in una cittadina di provincia, tra i ragazzi delle scuole. Una ragazza lesbica, e per questo derisa dagli altri ragazzi, é innamorata di una compagna, che a sua volta é a disagio con i ragazzi e con l’ambiente. A dispetto di tutto e di tutti le due ragazze si conosceranno e si ameranno e riveleranno il loro amore di fronte all’intera frotta dei loro stupidi ed immaturi compagni di scuola. Un gran bel film.

Il grande Lebowsky

Titolo originale The big Lebowsky, USA/Gran Bretagna, 1997, commedia, durata 117′, regia di Joel Coen

Gran bel film. Lietta Tornabuoni ne ha parlato su “L’Espresso”. Riproduco uno stralcio del suo articolo.

Il film è un esempio della capacità dei fratelli Coen di cogliere il presente ostentando di rimpiangere il passato, di restituire come nessuno l’aria del tempo: oltre ad essere un film entusiasmante, ricco diidee, d’invenzioni visuali, d’intelligenza, di divertimento, di stile. L’ironia, o meglio l’irrisione, la derisione, è la chiave di lettura del ridicolo o della demenza sociali.

Il protagonista non ha occupazione, come tanti adesso, non ha amori né ideologie né passioni, non pretende di dare alla propria vita altro senso se non quello di viverla con meno problemi e più gioco possibile.

Nel 1991 della guerra del Golfo, in California, Jeff Bridges, il piccolo Lebowsky detto Dude (Drugo nel doppiaggio italiano), torna a casa di notte, ci trova due criminali che lo picchiano, quasi lo affogano tuffandogli la testa nel cesso, per sfregio gli pisciano sul tappeto, urlano pretendendo il pagamento dei debiti accumulati da sua moglie. È un errore di persona, un caso di omonimia: la vittima designata era il grande Lebowsky, un miliardario invalido autorecluso in una sterminata dimora, che all’arrivo di Bridges per avere almeno un tappeto nuovo, incongruamente lo incarica d’occuparsi dell’ambiguo rapimento della propria giovane moglie piccante e scapestrata.

Lui preferirebbe starsene al bowling a giocare e chiacchierare con amici e nemici: John Goodman (strepitoso) che non riesce a dimenticare il Vietnam e che come molti violenti soldati combina un guaio dopo l’altro; Steve Buscemi, laconico e dolce; John Turturro, fiammeggiante aggressivo campione di bowling, gay latino di nome Jesus.

Durante avventure caotiche all’inseguimento della ragazza sequestrata s’incontrano: un tetro gruppo di nazi-nichilisti, un pornoproduttore vestito di bianco che è Ben Gazzara, una artista concettuale (“la mia arte è apprezzata per la sua natura vaginale”), il mignolo di un piede femminile con l’unghia laccata di verde tagliato e avvolto nell’ovatta, un Saddam Hussein addetto alla distribuzione delle scarpe da gioco in un bowling onirico. E il protagonista, ex-ragazzo degli anni Settanta, scoraggiato, fumato, mite ma non inerme, resta l’unico a conservare decenza e umanità in una società isterica, mistificata, assassina.

L’avvocato del diavolo

Titolo originale The Devil’s advocate, USA, 1997, thriller, durata 143′, regia di Taylor Hakford

Grande prova ulteriore di Al Pacino. Forse il doppiatore Giancarlo Giannini ha esagerato con voce roca e sopratoni. Ma il film merita veramente, soprattutto nel finale: alla fine, tutto ricomincia col giornalista che si trasforma nel diavolo, vincente un’altra volta con la sua più grande arma, la vanità.

Interessante l’esposizione che fa della sua filosofia: il mondo è suo, non c’è dubbio, ma il grosso del lavoro l’hanno fatto gli esseri umani. Guerre, assassinii, stermini, corruzione, lotte fratricide, inquinamento, speculazioni e quant’altro non hanno poi grande bisogno del diavolo per diffondersi e imperversare in tutto il mondo.

A me personalmente che scrivo, poi, non è affatto antipatica l’idea, che non è proprio tutta di questo film, di ribaltare il concetto di Bene e Male: il cosiddetto Male non è altro che la forza della vita, del piacere di vivere, della libertà che le religioni e il cosiddetto Bene ci vogliono impedire di assaporare. Il vero Male è allora il Bene, del cristianesimo in particolare: una vita contrita, triste, austera, rigida, frigida quanto ipocrita e collusa con tutto ciò che dichiara, a parole, di combattere. Andate a vedere questo film, in ogni caso: vi divertirete e magari rifletterete.