Questa è l’umanità

14 Aprile 2024 dc, dal sito Hic Rhodus, articolo dell’8 Ottobre 2023 dc:

Questa è l’umanità

di Claudio Bezzi

Sono angosciato dall’esplosione dell’ennesimo conflitto israelo-palestinese.

Scavando a fondo sulle “ragioni” delle due parti si trova, alla fine, solo un abisso scavato nei decenni da torti reciproci, torti annegati in laghi di sangue e soprusi: si trovano ideologia, razzismo, massimalismo, autoritarismo, opportunismo, molto opportunismo, da entrambe le parti; si trovano leader – di Hamas e del popolo ebraico – ciechi, furiosi, stolti, maneggioni, corrotti, sadici, totalmente preda dell’insensatezza del macello e del folle desiderio di sopraffazione.

E i torti accumulati, anno dopo anno, creano cicatrici nelle popolazioni israeliana e palestinese, cicatrici che solo a tratti, e a fatica, invocano una pace e una disponibilità al dialogo che nessuno ascolta, perché le vendette sulle vendette sulle vendette sono diventate acclamazione popolare dei rispettivi leader sanguinari, assassini, guerrafondai.

In malora tutti gli accordi per la convivenza pacifica, i piani, le decisioni moderate, tutte mandate a male dal sionismo esasperato dei leader di Israele e – ancor più, va detto – dal tatticismo opportunista dei leader palestinesi, a iniziare dal defunto Arafat fino agli attuali capi di Hamas. E così si uccide, si cerca la sopraffazione, l’annientamento dell’avversario, in uno scacchiere che coinvolge pesantemente l’Arabia, l’Iran, gli Stati Uniti, la Russia…

Sono angosciato perché questo conflitto è, in realtà, l’archetipo di tutti i conflitti, tutti, assolutamente tutti, segnati dall’insensatezza dei capi, dall’avidità, dalla follia ideologica, dal desiderio ancestrale di vedere scorrere il sangue della tribù vicina.

Questa è l’umanità.

Se l’aggressività umana è stata probabilmente un vantaggio evolutivo nel paleolitico, il suo mancato superamento oggi, nell’epoca di internet e delle armi di distruzione di massa, in un pianeta affaticato dalla crisi ambientale, da quella demografica, dalla penuria delle risorse, dalla scandalosa disuguaglianza fra popoli e persone, ecco: il suo mancato superamento, oggi, ci tiene tutti su uno scivolosissimo filo di rasoio. Ma non vedo speranza. Questa è l’umanità, un cancro che divora se stesso e rovina tutto ciò che lo tiene in vita.

Lunga vita, pace e prosperità al popolo israeliano.

Lunga vita, pace e prosperità al popolo palestinese.

Lunga vita, pace e prosperità al popolo ucraino, a quello russo, a quello libico, afghano, iraniano, cinese, somalo, nigeriano, …

  • Per una visione dei numerosissimi conflitti in corso, potete consultare l’aggiornato sito guerrenelmondo.it.
  • Un’analisi delle origini del conflitto israelo-palestinese, e delle ragioni della sua continua perpetuazione, è comparsa qui su HR nel 2014, all’epoca di un precedente confronto fra le parti; naturalmente oggi ci sono nuovi fattori, ma la prospettiva storica mi pare ancora valida (la trovate QUI).
  • L’aggiornamento sulle nuove questioni implicate oggi, nel 2013, e sugli attori in gioco, la trovate in QUESTA analisi di Janiki Cingoli, esperto di questioni mediorientali.

Il mondo della ricerca si mobilita per salvare il Servizio Sanitario Nazionale

6 Aprile 2024 dc, dal sito La Stampa, articolo del 3 Aprile 2024 dc:

Il mondo della ricerca si mobilita per salvare il Servizio Sanitario Nazionale

Quattordici simboli della scienza italiana chiedono maggiori investimenti per tutelare la sanità pubblica e un diritto fondamentale

Dal 1978, data della sua fondazione, al 2019 il SSN in Italia ha contribuito a produrre il più marcato incremento dell’aspettativa di vita (da 73,8 a 83,6 anni) tra i Paesi ad alto reddito. Ma oggi i dati dimostrano che il sistema è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali.

Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica hanno reso fortemente sottofinanziato il SSN, al quale nel 2025 sarà destinato il 6,2% del PIL (meno di vent’anni fa).

Il pubblico garantisce ancora a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri per acuzie), mentre per il resto (visite specialistiche, diagnostica, piccola chirurgia) il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare gli interventi o indotti a ricorrere al privato. Progredire su questa china, oltre che in contrasto con l’Art.32 della Costituzione, ci spinge verso il modello USA, terribilmente più oneroso (spesa complessiva più che tripla rispetto all’Italia) e meno efficace (aspettativa di vita inferiore di sei anni). La spesa sanitaria in Italia non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute.

È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento dell’SSN e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali. La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema. Ancora, l’SSN deve recuperare il suo ruolo di luogo di ricerca e innovazione al servizio della salute.

Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni, e uno su tre è stato costruito prima del 1940.

Ma il grande patrimonio dell’SSN è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza. È evidente che le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili. Particolarmente grave è inoltre la carenza di infermieri (in numero ampiamente inferiore alla media europea).

Da decenni si parla di continuità assistenziale (ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione sono timidi. Oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in grado di assisterli.

La spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria, basta un dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività fisica.

Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione (individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità ma anche dei limiti della medicina moderna.

Molto, quindi, si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento dell’SSN agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del PIL), ed è urgente e indispensabile, perché un SSN che funziona non solo tutela la salute ma contribuisce anche alla coesione sociale.

Ottavio Davini

Enrico Alleva

Luca De Fiore

Paola Di Giulio

Nerina Dirindin

Silvio Garattini

Franco Locatelli

Francesco Longo

Lucio Luzzatto

Alberto Mantovani

Giorgio Parisi

Carlo Patrono

Francesco Perrone

Paolo Vineis

Un xxxxxxno in Xxxxxda

27 Marzo 2024 dc:

Un xxxxxxno in Xxxxxda

di Jàdawin di Atheia

Mi sembra giunto il momento di parlare di un personaggio, connazionale, che si è trasferito da alcuni anni in un Paese del nord che amo molto e che, con le sue qualifiche universitarie e professionali di tutto rispetto, ha iniziato a parlare di questo Paese e a svolgere iniziative relative ad esso.

Non voglio entrare assolutamente in contrasto con lui e, per questo, ho mascherato il nome, e il nome del Paese in questione, con cui si fa chiamare, e che è il titolo di un suo libro. Non mi interessa essergli antagonista, anche perché non ne vedo il motivo, né alcuna finalità.

Alcune cose, però, le devo dire.

Indubbiamente, col suo libro, le sue pubblicazioni e le sue iniziative nella Rete ha contribuito finalmente a chiarire alcuni aspetti della vita in quel Paese, della sua storia, delle sue dinamiche interne. Ha fornito molte informazioni, sconosciute ai più, e ha sfatato alcuni miti e luoghi comuni che, purtroppo, pesano sull’immagine di questo splendido Paese.

Tutto ciò è innegabile ed è indiscussa la sua importanza.

A suo tempo, nel canale Telegram che ha creato, ho subito notato quello che, a mio avviso, è un errore di italiano e l’ho scritto. L’errore riguarda la concordanza, in una frase, del soggetto e del verbo a lui collegato. Ad esempio la frase La maggioranza delle gente sono stupidi è errata, perché il soggetto della frase, La maggioranza (della gente), è singolare, mentre il verbo e l’aggettivo, sono stupidi, sono al plurale.

Subito l’Amministratore del canale, che dovrebbe essere il moderatore e non l’aizzatore, mi ha subito apostrofato con la frase “Lei ha studiato simpatia ai corsi estivi del Ku Klux Klan o a quelli tenuti da Pippo Calò?”.

Al che ho risposto “Grazie del complimento, la rassicuro, sono autodidatta. Deduco che per lei fare un’osservazione è comunque ‘antipatia’. Sono stupito, per non dire altro”.

L’individuo in questione ha replicato “Vede, caro signore, spuntare dal nulla inviando una sequela di correzioni non richieste senza nemmeno presentarsi o salutare non è ‘fare un’osservazione’, ma rompere le scatole in maniera anche parecchio maleducata”.

La mia risposta a tali idiozie è stata “Intanto non ho fatto ‘sequele’ di correzioni, ma una sola. Secondo: certo che spunto dal nulla, mi sono iscritto pochi minuti fa! Terzo: non saprei come ‘presentarmi’, mi sembra che in questo canale si possa solo commentare ad alcuni post. Quarto: lei è più maleducato di me, questo mi sembra certo”.

Da notare che, per il soggetto, le correzioni “non sono richieste”, quindi in quel canale, come nel gruppo Facebook, criticare e discutere non è ben visto, ma elogiare a profusione e complimentarsi col protagonista ad ogni suo post (decine di messaggi del tipo “grazie”, “sei il migliore”, “bravo”…) è invece la norma, graditissima e benvenuta.

Anche il Protagonista mi aveva risposto dicendo che per lui quel tipo di frase era “normalissimo”, ed io avevo replicato che se è “normalissima”, cioè “molto usata”, non è detto che sia corretta, come ad esempio “gli ho detto” quando l’oggetto della frase è una donna, e andrebbe usato “le”.

Qualche mese dopo mi sono recato in quel Paese, e prima ancora di partire ho inviato una e-mail al Protagonista chiedendo di potere trovarci nella capitale e fare due chiacchiere, ma non mi ha, ovviamente, nemmeno risposto. Poi ho saputo che una certa sera, nello stesso momento, eravamo a poca distanza tra noi, ma pazienza.

L’energumeno Amministratore ha poi manifestato tutta la sua arroganza in altre occasioni, e l’ho bloccato definitivamente in Facebook.

Ora: è chiaro che la lode è accettata, se non quasi richiesta, invece la critica e il dissenso sono molto sgraditi. E che se il Protagonista si è scelto un tale Aizzatore, una ragione pure ci sarà.

Poi è venuta la conferma: ad un certo punto del suo libro, peraltro, come già detto, molto interessante ed utile, scrive “Come succede agli italiani, anche gli xxxxxxxsi amano fare le pulci alla grammatica e all’ortografia altrui per soddisfare il proprio narcisismo”. Ah, eccolo scoperto, il Protagonista! Quelli che lo criticano sono narcisisti. E lui? Ma no!

E prosegue: “È sempre un motivo di riscatto, per la persona qualsiasi, il poter correggere la lingua altrui, anche di qualcuno molto più istruito che ha battuto distrattamente un post sui social media”. Chiara la condiscendenza per le persone “qualsiasi”, e l’auto-considerarsi molto più istruito, che gli errori li fa solo per distrazione!

“Nemmeno quando è ragionevole presumere che l’autore conosca a menadito le convenzioni grammaticali dello standard attuale…tanti riescono a resistere alla tentazione di sfoderare la propria pedanteria, non perdonando una svista, o un errore palesemente imputabile al correttore automatico. È un fenomeno insopportabile, e probabilmente non sradicabile, perché la tentazione di nutrire il proprio ego attraverso l’umiliazione altrui è sempre troppo forte, e pare essere trasversale alle culture”.

Chiaro, no? Ovviamente è ragionevole presumere che il Protagonista conosca a menadito la lingua, e non poteva essere altrimenti: lui ha studiato, per Giove! Ma quelli che lo criticano sono solo pedanti, e lui fa solo sviste, o errori palesemente imputabili al correttore. E certo, tutti gli errori che fa sono palesemente imputabili ad altro. E poi! Proprio lui parla di nutrire il proprio ego! Lui che non fa altro dalla mattina alla sera!

Il libro in questione, del resto, è adeguatamente pieno di errori, che sicuramente sono imputabili ad altri.

Gli errori di punteggiatura sicuramente sono sviste ma, se suscitassero critiche, queste sarebbero segnate da pedanteria e, comunque, irrilevanti. L’uso errato di due punti e punto e virgola, ad esempio: in una pausa della frase per evidenziare il passaggio successivo non si usa MAI il punto e virgola, ma i due punti. Soltanto se le pause e le sottolineature dovessero essere più di una, per le successive si userà il punto e virgola. Anche se, a mio parere, sarebbe meglio evitarle.

Ma il Nostro, oltre a queste quisquilie, si esibisce in “dove” usato al posto di “in cui” o “nel quale” (ma è in buona compagnia con la quasi totalità di italiani, anche giornalisti e letterati), di indicativo imperfetto al posto di congiuntivo, presente o passato che sia, di numerosi “anima”, “animo”, “spirito”, “spiritualità”, “cuore”, “grazie al cielo”, banali e soliti elogi delle civiltà greca e romana, ovviamente comunque superiori a tutte le altre, e l’immancabile espressione “Bel Paese”. Ma si produce anche in affermazioni come “non sta scritto da nessuna parte che essere puntuali sia meglio di essere flessibili, come purtroppo tanti credono”, infatti non solo è meglio, ma è anche eticamente positivo: si chiama rispetto. Ma lui, che si è adattato a fare tanti mestieri per sbarcare il lunario, cosa a cui è stato costretto dalle circostanze, equivoca questo con la tanto decantata flessibilità, arrivando a esprimersi con autentico disprezzo per chi, ahilui, vorrebbe un posto fisso e una vita serena.

I suoi seguaci (per molti di loro è il termine che meglio li definisce), oltre a distinguersi nel gruppo Facebook e nel canale Telegram, lo hanno fatto anche nel famoso mercato della Rete attraverso cui il suo libro è stato acquistato. Tra le recensioni ce ne sono alcune critiche: tra queste alcune sono stupide, altre più sensate.

Cosa ne hanno detto, nel canale Telegram?

Uno ha detto che era strano che le critiche negative fossero state espresse da chi non risultava che avesse fatto un acquisto certificato di quel libro (così come li contrassegna quel mercato in Rete), e un altro ha affermato che non era affatto strano. Quindi, secondo questi fans (fan deriva, non a caso, da fanatic!), chi criticava era quasi sicuro che il libro non lo avesse nemmeno letto!

Lo stesso atteggiamento è comune in Facebook e in Telegram, in cui lo stesso Protagonista strapazza e maltratta chiunque si esprima criticamente verso il Verbo (il suo, ovviamente).

Alcuni di costoro se lo meritano, e io stesso ero rimasto piacevolmente sorpreso dalla decisione con cui il Nostro li trattava, senza mezzi termini e senza tanti complimenti. “Però!”, mi dicevo, “finalmente ci si esprime sinceramente fuori dal politicamente corretto”.

Certo, ma questo disprezzo lo riserva pressoché a tutti quelli che sono abbastanza critici, o perlomeno dubbiosi, nei suoi confronti e, peggio, lo scrivono!

Alcuni non ne hanno potuto più, e lo hanno abbandonato definitivamente.

Notevole è anche il fatto che costui ha creato un ulteriore gruppo o pagina (non ricordo con esattezza) in Facebook a cui ci si iscrive a pagamento, per sostentare le sue attività.

L’ultima volta che ho controllato, gli iscritti erano sei.

Per fortuna.

Ora, ha certamente tutto il diritto di tessere le lodi al suo Paese, che chiama “Bel”, alla musica lirica, che tanto apprezza, alla “superiorità” culturale dell’Italia nel mondo, di parlare di anima e di spirito: sono opinioni personali, ci mancherebbe.

Ma non può pretendere che tutti lo assecondino.

Nel libro tesse lodi, neanche tanto, nascoste, delle tradizioni in quanto valori in sé, al di là che ci si creda o meno. Secondo il suo ragionamento, le tradizioni sono importanti, ed è importante seguirle anche se non ci si crede. Sottovaluta il fatto che si dica che in Xxxxxxa un numero elevato di persone si dichiarano atee, e cerca di rivoltare in qualche modo la frittata con argomentazioni che si ripeteranno anche altrove.

Come mi è arrivata a casa la copia di una sua Guida di questo Paese, scritta con un’altra persona e pubblicata da una prestigiosa casa editrice oltre Atlantico, sono andato subito a guardare il capitolo relativo alla religione: brevissimo, non appare minimamente la parola ateismo.

I sondaggi e le rilevazioni statistiche non danno mai un quadro esauriente in nessun caso, ma è l’unico modo per avere un’idea su un certo argomento, così feci qualche ricerca. Mi imbattei su un’indagine pubblicata su Esquire nell’agosto del 2018 dc, condotta da WIN/Gallup su 60000 persone in 68 Paesi del mondo, da cui risulta che, benché il Protagonista non ne voglia parlare, gli atei d’Islanda sono il 17% della popolazione, all’ottavo posto in Europa per numero di non credenti.

Quindi, caro Protagonista, sei falso e bugiardo.

Nel gruppo di Facebook ha ripetuto spesso gli stessi concetti, ha affermato che in Italia non possiamo non dirci cristiani (riproponendo la famosa frase di Benedetto Croce, senza citarlo) perché saremmo comunque influenzati da cultura, usanze, tradizioni e stili di vita.

Alcuni membri del gruppo hanno fatto notare che ciò è inesatto e fuorviante, e che ognuno è, di solito e auspicabilmente, quello che diventa, non quello che altri (lo Stato, la Chiesa, la famiglia, la scuola, l’azienda, la patria…) vorrebbero che fosse. Ma non c’è stato verso. Ed infine ho scritto “Rinuncio a commentare. Lascio.”

A un certo punto gira un video sull’argomento relativo ad un pesce, alla sua carne dal sapore repellente, dal suo trattamento, e dalla leggenda natavi intorno come un prodotto di nicchia, e sul riuscire a mangiarla come prova di coraggio e atto di “iniziazione”. Si reca in un certo posto del Paese con un gruppo di italiani, il gruppo di “assaggio”, e subito li elogia perché hanno un gusto superiore.

Proprio così, senza il minimo senso di vergogna cade in uno dei numerosi luoghi comuni beceri sull’Italia e sugli italiani. Manca poco che sciorini le donne italiane le più belle del mondo, i maschi italiani i migliori amanti del mondo, e via scemendo. No, non è un errore, ho proprio scritto scemendo.

Naturalmente gli italiani presenti hanno manifestato subitamente il loro gusto superiore enumerando aspetti e caratteristiche fantasiose di questo pesce, e paragoni quanto meno esilaranti con alcuni formaggi. Non potevano esimersi, una volta così blasonati dal nostro Protagonista.

Nel libro aveva anche affermato che chi credeva che i turisti fossero diventati veramente troppi per il Paese in questione erano degli snob, che volevano ritagliarsi un’Xxxxxxa su misura per loro, erano degli egoisti.

In quel Paese ci sono stato cinque volte, finora, e ho constatato l’aumento vertiginoso del turismo, e l’abbassamento, in corrispondenza, della qualità dello stesso. Già negli anni Novanta del secolo scorso gli stessi abitanti ne erano preoccupati, e organizzazioni di vario tipo, anche internazionali, organizzavano vacanze di lavoro per ripristinare alcuni luoghi affaticati dal solo camminare dei turisti! Volevo partecipare anch’io, ma non ne feci nulla.

Nel 2017 dc ho verificato di persona il disastroso aumento dei turisti, relativa cementificazione del suolo con parcheggi e strutture, e tutto il resto.

Ma nel gruppo Facebook il Nostro disse poi il contrario: non ho capito se perché nel frattempo avesse ragionato un po’ di più, o lo facesse per opportunismo (magari molti del gruppo la pensavano così…costringendolo ad adeguarsi).

Successivamente ebbe a discutere con un tizio. Il tizio era indubbiamente un cretino, e lui aveva innegabilmente ragione ma, quando si scatenò nella polemica, oltre agli argomenti validi che addusse, disse anche che lui aveva molti più “mi piace” di quell’altro, e lo scrisse seriamente, come se questo fosse un argomento valido di confronto!

Facendo questo, senza rendersene conto, si era dimostrato più cretino del suo interlocutore.

Anche sull’argomento Halloween e relative manifestazioni folkloristiche e festaiole si distinse: mentre i tradizionalisti cattolici o nazionalisti affermavano che Halloween era un fenomeno estraneo “alla nostra cultura”, lui affermava esattamente il contrario, descrivendo come alcune manifestazioni di Halloween fossero presenti nella tradizione cristiana ben prima che questa moda diventasse così popolare anche al qua dell’Atlantico. Ma si fermò qui, e secondo me non andò più in là, perché forse si sarebbe accorto che l’origine di tali tradizioni non erano assolutamente cristiane, ma provenivano da altre latitudini.

Dopo che vidi i suoi atteggiamenti durante una spedizione in barca a vela nell’estremo nord, in cui il Nostro, prima scherzando poi, ho il sospetto, sempre più convinto, si atteggiò, nel portamento e nel vestiario, a capitano di vascello, a novello capitano Achab, ripreso in varie pose ieratiche a scrutare il mare o a suonare uno strumento a fiato in posizione elevata tra le vele, e dopo che lessi altre sue affermazioni in Facebook, decisi che era abbastanza anche per me, e lasciai, non senza rammarico, il gruppo Facebook e il canale Telegram.

Non posso fare finta di niente…oltre una certa misura.

Un frequentatore di Facebook e del gruppo del Nostro, uno di quelli che se ne erano allontanati, e con cui ho avuto un breve scambio di idee, ha scritto:

“(Cognome omesso) è di un narcisismo parossistico, che oltrepassa il ridicolo. Fa il tuttologo, salvo sparare clamorose cxxxxte su argomenti di cui non sa nulla, per cui farebbe meglio a tacere. Lui e i suoi accoliti sono brutte persone, invidiose e attaccabrighe. Molto meglio altre realtà che si occupano di Xxxxxxa”.

Spero che le orde di fanatici che lo seguono siano più fumo che sostanza, e non facciano più male che bene all’amore e all’interesse che merita quel grande Paese.

Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

Dal sito del PRC, articolo del 3 Febbraio 2024 dc:

Gli 80 anni di Angela Davis, una comunista con la c minuscola

di Maurizio Acerbo

A nome del Partito della Rifondazione Comunista faccio i più calorosi auguri a Angela Davis per i suoi 80 anni – compiuti il 26 gennaio – di vita straordinaria e esemplare.
 
Nell’occasione vorrei ricordare un passaggio assai importante della sua lunga militanza comunista che forse non è nota a tutte/i quanto la sua epopea di rivoluzionaria afroamericana perseguitata e incarcerata dall’FBI. Per la liberazione di Angela Davis si mobilitò davvero tutto il mondo. Segnalo, come esempi della vastità del movimento, il carteggio tra il filosofo marxista ungherese Gyorgy Lukacs e Enrico Berlinguer e le canzoni che le dedicarono John Lennon e i Rolling Stones.
 
Angela negli ultimi anni si è autodefinita “una comunista con la c minuscola” e questo probabilmente deriva dalla sua presa di distanza di lunga data dalla tendenza a autonominarsi avanguardia e altre caratteristiche autoritarie e dogmatiche del marxismo-leninismo di matrice stalinista.
 
Nel 1992 Angela Davis, la più famosa esponente del Partito Comunista degli Stati Uniti, uscì dal partito con buona parte dei più autorevoli dirigenti e militanti in dissenso con le posizioni conservatrici dell’allora segretario bianco Gus Hall. Per capirci il segretario tifava per i golpisti russi anti Gorbaciov che, tra l’altro, diedero un formidabile assist a Eltsin che approfittò della crisi per assumere la guida del paese verso la restaurazione del capitalismo e la dissoluzione dell’URSS.
 
Angela Davis aveva una statura intellettuale e un dialogo con il meglio della cultura marxista del nord e del sud del mondo che difficilmente poteva ridursi alle posizioni “brezneviane” di Hall. Ricordo che Angela Davis non è stata solo la più famosa prigioniera politica del mondo, ma anche un’allieva del filosofo Herbert Marcuse.
 

Con Angela c’erano il folksinger Pete Seeger, lo storico vittima del maccartismo Herbert ApthekerCharlene Mitchell la prima donna nera candidata alla Presidenza degli Stati Uniti, il veterano degli anni ’30 Gill Green, l’attivista del Free speech Movement di Berkeley e del movimento contro la guerra del Vietnam Michael Myerson.

Uno dei casus belli della rottura fu il differente atteggiamento nei confronti di un saggio che Joe Slovo, leader del Partito comunista sudafricano e del braccio armato dell’African National Congress, aveva scritto sulla crisi del socialismo nell’Europa Orientale nel 1989.
 
Scriveva Joe Slovo: “è più che mai vitale sottoporre il passato del socialismo esistente [in URSS e Europa orientale] a una critica spietata per trarne le necessarie lezioni. Farlo apertamente è un’affermazione di giustificata fiducia nel futuro del socialismo e nella sua intrinseca superiorità morale. E non dovremmo lasciarci inibire solo perché la denuncia dei fallimenti fornirà inevitabilmente munizioni ai tradizionali nemici del socialismo: il nostro silenzio, in ogni caso, offrirà loro munizioni ancora più potenti.(…) Il socialismo può senza dubbio funzionare senza le pratiche negative che hanno distorto molti dei suoi obiettivi chiave. Ma la semplice fiducia nel futuro del socialismo non è sufficiente. Bisogna imparare le lezioni dei fallimenti passati. Soprattutto, dobbiamo fare in modo che il suo principio fondamentale – la democrazia socialista – occupi un posto legittimo in tutte le pratiche future” (Joe Slovo, Il socialismo ha fallito?)
 
Come raccontò Mitchell al giornale del South African Communist Party “invece di incoraggiare la discussione, i vertici del partito [Gus Hall] liquidarono le opinioni di Slovo definendole antisocialiste, antimarxiste e antimarxiste-leniniste”.
 
Angela Davis, che era stata con la componente afroamericana del partito in prima fila per decenni nel movimento antiapartheid, ovviamente aveva un legame assai solido e ben altra stima di combattenti come Slovo e Mandela.
 
L’area di cui era parte la Davis, e nella quale si riconosceva gran parte della militanza afroamericana e dei movimenti, poneva questioni relative a molti temi: dalla strategia sindacale alla mutata composizione di classe (con l’immigrazione che rendeva necessario rivolgersi non solo all’operaio maschio bianco) al ruolo del partito nei movimenti ambientalisti e femministi.
 
Con metodi alquanto stalinisti il numeroso gruppo di autorevoli dirigenti e militanti che aveva presentato il documento “L’iniziativa per rinnovare e unire il partito” fu epurato dalla direzione nel congresso del 1991 dopo che a molti sostenitori fu impedito di partecipare.
 
Ne seguì la scissione (con inevitabili liti su sedi e fondi) e la costituzione della rete dei Committee of Correspondence per tenere insieme i militanti. Il compito di questi comitati era quello di tenere in collegamento i militanti usciti e quelli rimasti nel partito. Oggi si chiamano ‘Committess of Correspondence for democracy and Socialism‘ e lavorano per l’unità consentendo il doppio tesseramento al Partito Comunista USA o ai Democratic Socialists Of America.
 
Le posizioni di Angela Davis e del suo gruppo nel 1991 sarebbero state definite in quegli anni in Francia o in Italia di rifondazione comunista.
 
In sintesi non rinunciavano al comunismo sulla base proprio di una critica radicale del “socialismo reale” e rivendicavano la necessità di un rinnovamento contrapposto sia al conservatorismo che all’abiura.
 
Insomma se si confrontano i documenti della Rifondazione italiana – prima nel no a Occhetto nel Pci e poi di movimento e partito – la sintonia è evidente anche se assai diversi storia e contesti.
 
Angela Davis ha proseguito, dopo la separazione dal partito che l’aveva candidata per due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il suo impegno come intellettuale militante e attivista dando un contributo pratico e teorico di straordinaria importanza negli USA e a livello internazionale.
 
Col tempo molte delle sue posizioni sono state fatte proprie anche dal suo vecchio partito con cui ha mantenuto rapporti non settari come testimonia il messaggio che ha inviato per il centenario del CPUSA esaltandone la gloriosa storia.
 
Il marxismo di Angela Davis è profondamente radicato nella storia afroamericana e nelle lotte dei popoli colonizzati. Non a caso sottolinea l’importanza del “black marxism” di autori come Cedric Robinson e il carattere razziale del capitalismo fin dalle origini nella tratta degli schiavi che fornì i capitali per la rivoluzione industriale (come d’altronde insegnava Marx nel libro I del Capitale).
 
Il suo femminismo nero critico di quello bianco mainstream ha anticipato l’approccio intersezionale e il cosiddetto “femminismo del 99%”: “”Il femminismo deve lottare contro l’omofobia, lo sfruttamento di classe, razza e genere, il capitalismo e l’imperialismo”.
 
Angela Davis ha tenuto una linea diversa dal CPUSA che dagli anni ’90 sostiene una sorta di fronte antifascista di sostegno critico al Partito Democratico. Angela Davis, come Chomsky, non ha rinunciato alla prospettiva della costruzione di un terzo partito effettivamente di sinistra che rompa il sistema bipartitico. Parlando ai giovani di Occupy Wall Street disse: “Il sistema bipartitico non ha mai funzionato, ma non funziona ora e abbiamo chiaramente bisogno di alternative. Personalmente credo che abbiamo bisogno di un forte, radicale, terzo partito. Nel frattempo, questo movimento, che non è un partito, può compiere molto più di quanto i partiti politici non siano in grado di realizzare e così mi sembra, che il modo migliore per esercitare pressioni su questo corrotto sistema bipartitico è quello di continuare a costruire questo movimento e di dimostrare che raggiunge non solo tutto il paese ma va al di là dell’oceano”.
 
Per questa ragione Angela Davis non si fece coinvolgere nella campagna di Bernie Sanders nelle primarie democratiche pur apprezzandone i contenuti. Va detto che Sanders riuscì a catalizzare, mobilitare e popolarizzare intorno al socialismo le nuove e vecchie generazioni di attiviste e soprattutto larghi settori popolari e di classe lavoratrice. Angela Davis però, di fronte al pericolo di una vittoria di Trump, fu costretta come Chomsky e tanti altri a dare indicazione per i democratici sottolineando sempre però che non è quello il partito su cui fare affidamento.
 
Un segno di attitudine non settaria. Angela Davis, come noi, pensa che “Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese” (forse uno dei motivi per cui fui allergico alla conversione della sinistra al maggioritario nei primi anni ’90 è che sono cresciuto leggendo autori e storie della sinistra radicale USA). Nel 2016 dopo la vittoria del miliardario fascistoide è stata tra le protagoniste della marcia delle donne contro Trump con un discorso memorabile.
 
Credo che Angela Davis sia stata lungo i decenni una delle più importanti figure a livello internazionale della rifondazione comunista (ovviamente come insegnavano Ingrao e Rossanda il compito storico di una rifondazione va molto al di là dei confini di un singolo partito come il nostro).
 
Lo è stata con l’attivismo e con un’elaborazione che è sempre stata intrecciata con la sua internità ai movimenti e alle lotte nel suo Paese e a livello internazionale come con la memoria storica della lunga “tradizione degli oppressi”. Per esempio segnalando sempre il carattere razzista degli USA e il legame tra la repressione della sua generazione di militanti neri e quella che continua a colpire i giovani afroamericani in maniera sistemica e trasmettendo alle nuove generazioni l’eredità di figure come Martin Luther King e Malcolm X. Oppure rendendo omaggio alla storia del mitico sindacato dei marittimi della costa occidentale (a cui dedicò tanta parte di Noi saremo tutto Valerio Evangelisti) durante il movimento Black Lives Matter nell’intervento allo sciopero dei portuali di Oakland.
 
È una leader del sessantotto globale che, al contrario di tante/i altre/i, non si è rifugiata nel reducismo né è passata dalla parte delle classi dominanti.
 
Angela è una delle voci più autorevoli dei movimenti e della sinistra radicale negli USA e nel mondo.
 
Il comunismo democratico e internazionalista, marxista nero, femminista e intersezionale di Angela Davis è un punto di riferimento imprescindibile.
 
Dirsi comunisti con la c minuscola è una buona cosa.
 
La compagna lesbica Angela Davis è la dimostrazione di come il rozzobrunismo sia un’attitudine reazionaria e di destra. La sinistra può essere fucsia rimanendo – anzi essendo più coerentemente -anticapitalista e antimperialista come insegna la straordinaria biografia militante e intellettuale di Angela Davis.

Tolkien e Meloni

08 Gennaio 2024 dc, dal sito Doppiozero, articolo del 04 Gennaio 2024 dc:

Tolkien e Meloni

di Stefano Jossa

Chissà come avrebbero reagito la presidente Meloni e il ministro Sangiuliano all’idea che l’immaginario di Tolkien si radichi in un precedente italiano.

Probabilmente l’argomento avrebbe fomentato un rigurgito di orgoglio nazionalistico, suggerendo un motivo in più per sostenere la mostra dedicata all’autore de Il Signore degli anelli, in cui tradizionalismo, conservatorismo e mistificazione si combinano in una singolare miscela di appropriazioni e fraintendimenti.

Eppure alla comparsa del primo volume della saga (The Fellowship of the Ring nel 1954) il grande critico inglese C. S. Lewis, professore a Oxford, autore di saggi letterari di straordinaria influenza e scrittore di fantasy in prima persona con Cronache di Narnia, sosteneva, nella presentazione sul risvolto di copertina del libro, che l’unico paragone possibile per Tolkien sarebbe stato solo con il più grande poeta del Rinascimento italiano, Ludovico Ariosto, l’autore di Orlando Furioso: ‘If Ariosto rivalled it in invention (in fact he does not) he would still lack its heroic seriousness’ (‘Se pure Ariosto lo sorpassasse per la ricchezza dell’invenzione (cosa che comunque non fa), gli mancherebbe sempre la sua grandiosità eroica’).

Solo Ariosto all’altezza di Tolkien, ma un gradino più in basso, perché il secondo aveva saputo costruire un mondo ‘così multiforme e così fedele alle proprie leggi interiori; […] così apparentemente oggettivo, così ripulito dalla contaminazione con la psicologia meramente individuale di un autore; […] così rilevante per la reale situazione umana e tuttavia così libero dall’allegoria’, da introdurre il lettore a una ‘varietà quasi infinita di scene e personaggi: comici, semplici, epici, mostruosi o diabolici’.

Non sembra che Tolkien avesse particolarmente gradito il riferimento, che pure lo inseriva di default tra i grandi classici della letteratura occidentale. Ai giornalisti di The Telegraph, Charlotte e Dennis Plimmer, che molti anni dopo (era il 22 marzo 1968) gli chiedevano cosa ne pensasse, rispose semplicemente: ‘I don’t know Ariosto, and I’d loathe him, if I did’ (‘non conosco Ariosto, e lo odierei se lo conoscessi’).

Il rifiuto tolkieniano si spiega con la volontà di essere unico e originale, ma certo il riferimento ariostesco non sembrava un gran servizio allo scrittore da parte dell’amico critico: quanti tra i lettori inglesi e americani di allora avrebbero potuto cogliere il parallelo con un classico italiano che pochi conoscevano e quasi nessuno leggeva, essendo fra l’altro disponibile, in quel momento, solo nell’originale italiano e nella vecchia traduzione di William Stewart Rose del 1831?

Proprio in quel 1954 che vedeva l’uscita di La Compagnia dell’anello, tuttavia, l’editore newyorchese di ascendenza italiana Sante Fortunato Vanni dava alle stampe una nuova traduzione, in prosa, del poema ariostesco, da parte del grande esperto di Rinascimento italiano Allan Gilbert, professore di letteratura inglese alla Duke University, e di Ariosto aveva parlato diffusamente, nel suo libro sulla rappresentazione dell’amore nel Medioevo, The Allegory of Love (1936), proprio lo stesso Lewis. Il riferimento colto era rivolto allora a immettere subito la nuova saga tolkieniana in un orizzonte accademico, di letteratura alta, che favorisse una lettura non solo popolare, ma soprattutto intellettuale.

Nazionalisticamente propizio, ma populisticamente pericoloso, il riferimento diventa subito a doppio taglio per gli obiettivi politici di Meloni e Sangiuliano.

Come dimostrare che esiste una cultura di destra in Italia, fondata sulla lettura de Il Signore degli anelli, se il suo predecessore italiano, rivendicato per di più dal critico più importante della società letteraria inglese del tempo, e amico personale dell’autore, fa parte di quella cultura alta che è tradizionale appannaggio della sinistra? Antico, difficile e intellettualmente complesso sono infatti aggettivi agli antipodi della definizione di cultura promossa dal governo italiano attuale, che punta tutto sulla contemporaneità, l’immediatezza e la semplificazione, secondo i canoni della comunicazione mediatica del nostro tempo.

Ariosto, del resto, è nome che il lettore italiano di media cultura associa subito a Italo Calvino che è stato, comunque si prenda il suo rapporto tormentato col comunismo, un campione della cultura di sinistra. Il quale in Ariosto aveva proprio trovato un principio di opposizione al fascismo, all’insegna dell’avventura intellettuale, della complessità rappresentativa e del rifiuto delle parole d’ordine grazie all’osservazione della realtà. Tutto ciò che a Meloni e Sangiuliano potrebbe fare semplicemente paura, perché implica il passaggio dalla propaganda alla politica.

Bisognerà allora andare a vederla, la mostra, per confermare o scardinare i pregiudizi: che sia un’appropriazione indebita da parte della destra di governo; che rilanci un’immagine falsificata e mistificatoria dello scrittore; che immetta i suoi scritti in un orizzonte di militanza partigiana che è estraneo a ogni forma d’arte; e che, di conseguenza, sia una mostra scadente.

Antiteticamente: che Tolkien fosse oggettivamente conservatore; che la sua militanza cattolica e anti-liberale lo iscriva ipso facto a una cultura di destra; che sia un difensore della tradizione, della famiglia, della fratellanza e della patria; e che, di conseguenza, si tratti di una mostra giustissima.

Anziché ridurre il discorso all’affermazione apodittica che la cultura per definizione non può essere di destra, o all’altrettanto superficiale dichiarazione che la letteratura e l’arte si muovono a un livello superiore, per cui non possono essere né di destra né di sinistra, converrà cercare delle coordinate di riferimento per orientarsi in un dibattito che in Italia è ancora irrisolto.

Immersa nella cornice splendida della galleria, tra De Chirico, Fontana, Mondrian e Pistoletto, la mostra rischia di subire financo logisticamente un senso di minorità, relegata in un angolo rispetto alla grandezza dell’arte contemporanea, una curiosità a suo modo appendicolare e fuori luogo: non sarebbe stato allora opportuno legarla quanto più possibile ai pezzi in esposizione, mettendo in rilievo, ad esempio, i cortocircuiti dell’immaginario tra i 32 mq di mare circa di Pino Pascali e la Terra di Mezzo, o tra l’eroismo mitologico dell’Ercole e Lica di Canova e l’eroismo modernista della saga tolkeniana, o tra La tana di Mimmo Paladino e la casa della famiglia Baggins?

Se l’obiettivo fosse stato quello di immettere Tolkien nell’universo estetico della contemporaneità, valorizzando la riflessione su spazio, tempo, natura, mondo e identità, anziché isolarlo totemicamente, forse questa sarebbe stata una strada da esplorare.

Ci troviamo invece fin dall’inizio di fronte all’inchino riverente piuttosto che all’indagine delle potenzialità d’interazione: «la mostra celebra la vita, esalta il lavoro accademico, svela la maestosità della produzione letteraria di Tolkien», si legge sul pannello introduttivo.

Più idolatra di così è difficile immaginarlo: si comincia infatti col figlio perfetto, che assistette «all’eroica sofferenza e alla morte precoce in estrema povertà della madre»; col cristiano perfetto, che fu educato nella fede da padre Morgan; e col padre perfetto, che riuscì a fare della sua famiglia un’opera d’arte di cui i personaggi sono i figli.

Compaiono documenti interessanti, come il Macbeth posseduto dal figlio Michael per lascito paterno, e le pagine dell’Oxford English Dictionary cui collaborò; ma non sarebbe stato più suggestivo far diramare intorno agli oggetti i percorsi della sua formazione, della sua vita intellettuale e della sua ispirazione letteraria (come avviene, ad esempio, nella mostra su Italo Calvino attualmente in corso alla Biblioteca Nazionale di Roma)?

Di lui si sarebbero potute esplorare le contraddizioni, psicologiche e culturali, tanto utili ai fini dell’esplorazione del suo universo creativo: pronto a deludere l’educatore per amore nei confronti dell’unica donna della sua vita, capace di riscattare la sua mancata vocazione col sacerdozio del figlio primogenito e incline a far apprezzare i testi per il loro contenuto narrativo anziché come documenti storici, fu un marito fedele, un cattolico coerente e un docente amorevole, oppure un marito piuttosto assente, un padre quasi padrone e un filologo almeno distratto?

Nel laboratorio dello scrittore si entra solo attraverso tre video: un’intervista in cui Tolkien si esercita a scrivere in elfico, spiegando che «le lingue hanno un sapore», come «un nuovo vino o una nuova leccornia»; un’altra intervista in cui ricostruisce la genesi della sua saga, associando l’anello alla bomba atomica e l’evasione letteraria alla fuga dalla prigione; e una ricostruzione dei meccanismi della parentela linguistica.

Davvero poco, per chi si aspettava almeno una tavola con l’alfabeto del runico e un pannello con la storia delle lingue elfiche. «Come scriveva Tolkien» è qualcosa di cui la mostra non dà neppure un assaggio, mancando certamente uno degli obiettivi possibili, lo scrittore, che invece viene ridotto ad autore, col mito della persona a prevalere, ancora una volta, su qualsiasi altra sua attività, soprattutto quella creativa.

Anche qui una delle mostre in corso proprio in questo periodo avrebbe potuto aiutare (quella su Italo Calvino alle Scuderie del Quirinale): entrare nel mondo visivo di Tolkien immaginando «cosa vedeva quando chiudeva gli occhi».

Alla traduzione visiva dei suoi libri, tra copertine, illustrazioni, vignette, pubblicità, film, videogames e giochi da tavolo, sono dedicate le sale successive, in una vertiginosa successione di disegni, poster e fotogrammi, fino ad arrivare ai rifacimenti e alle parodie più recenti che annoverano, fra i tanti titoli, Paperino e il signore del padello di Giorgio Pezzin con Franco Valussi per «Topolino» (1995), Il signore dei porcelli di Stefano Bonfanti e Barbara Barbieri per la collana Zannablù dell’editore Dentiblù (2014) e (ma perché?) L’elenco telefonico degli accolli di Zerocalcare per BAO (2015).

Come dimostrano i titoli appena riportati tutto è rivolto, infine, alla celebrazione di una possibile italianità di Tolkien, a partire da quel viaggio in Italia dell’estate del 1955 durante il quale affermava di essere «innamorato dell’italiano» e di sentirsi «abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo»: valorizzando la suggestione di un dialogo implicito con Benedetto Croce, che fu tre volte a Oxford durante la vita di Tolkien, la sua partecipazione alla Dante Society (dal 1945 al 1955), e l’idea da lui stesso proposta che Venezia avrebbe fornito uno scenario ideale per Esgaroth, i curatori (tra cui Oronzo Cilli, autore di un interessante e faziosissimo Tolkien e l’Italia per Il Cerchio Editore, 2016) inseguono un Tolkien italiano che potrà piacere a chi si nutre di patriottismo quotidiano, ma storicamente e letterariamente non ha ragion d’essere.

Costruita intorno a un’italianità d’accatto, la mostra ignora proprio quello che avrebbe potuto essere l’unico precedente italiano, quell’Orlando Furioso da cui siamo partiti.

Eppure fin dal 1954 la lettrice cui Mondadori aveva richiesto un parere sull’opportunità o meno di tradurre The Lord of the Rings, la scrittrice di origine tedesca Ruth Domino Tassoni, additava una possibile direzione ariostesca: dopo aver affermato che Tolkien «riprende una delle più antiche funzioni della letteratura: raccontare meraviglie», sosteneva che le sue «vicende dovrebbero venir recitate in grandi sale, con pioggia e vento fuori, e possibilità di lungo ozio. Come nelle antiche saghe, la storia si diffonde, si spezza e riprende in intricati episodi, un motivo conduce ad un secondo e ad un terzo, e dentro una vicenda nasce una nuova vicenda e dentro questa fioriscono canti e poesie».

Non era, questa, la descrizione della struttura narrativa del capolavoro ariostesco? Non bastava, però, per proporre la pubblicazione dell’opera, che alla lettrice sembrava «per un editore cui preme un sicuro guadagno» troppo «un rischio».

Né piacque, l’opera, otto anni dopo, a Elio Vittorini, direttore editoriale della Mondadori, che trasformava il «rischio» paventato dalla prima lettrice in un’inclinazione negativa, considerato che «il successo del tentativo [di traduzione e pubblicazione] richiederebbe la forza di un vero e proprio genio (che Tolkien dà prova di non essere) e la convalida di una attualità, ma ciò non si verifica affatto».

Rifiuto confermato da Vittorio Sereni e sancito da R.C. per la casa editrice.

Avevano capito poco, se a farne un film pensavano già in quegli stessi anni i Beatles (con George Harrison che ambiva al ruolo di Sam) e se a sessant’anni di distanza papa Francesco ci vedrà addirittura un’allegoria dell’«uomo in cammino»: ma la questione del fantasy in Italia è argomento ancora tutto da affrontare (e che la mostra neppure sfiora).

Molti sono i documenti utili e grandiose alcune sale, ma la mostra privilegia la celebrazione rispetto all’interpretazione, che è ciò che nasce dal fare confronti, dal mettere in dubbio, dal promuovere ipotesi e favorire la discussione: non essendoci fonti con cui dialogare (dal poema epico medievale in inglese antico Beowulf al romanzo fantasy di E.R. Edison The Worm Oroborous) né termini di paragone (l’ovvia contesa con Harry Potter, ma anche gli Snerg di E.A. Wyke-Smith), mancando interlocutori critici del suo e del nostro tempo (dalle prime recensioni alle analisi più recenti), Tolkien ne esce fuori come un monumento, isolato e intoccabile.

Ciò che emerge, insomma, è la solita ansia eroica della destra, il bisogno del campione da adorare anziché del modello o maestro con cui confrontarsi: il gran cacchio, come diceva Gadda del Duce. Al centro c’è infatti la persona, come recita il titolo, dedicato a Tolkien «Uomo, Professore, Autore», tutti rigorosamente con la maiuscola: un santino, laico, ma in odore fortissimo di santità.

Torniamo ad Ariosto e Tolkien.

Alcuni lettori inglesi non capirono il riferimento colto e si limitarono a cercare parallelismi: poiché in inglese tanto l’orca quanto l’orco si chiamano orc, l’orca ariostesca, che minaccia donne nude legate a uno scoglio dagli abitanti dell’isola di Ebuda per placarla attraverso i sacrifici umani, è diventata un precursore degli orchi tolkeniani che attaccano nani, elfi e uomini nella Terra di Mezzo.

Di fronte a tanta mancanza di intelligenza (ma non di humour, che forse non sarebbe dispiaciuto né ad Ariosto né a Tolkien), si può ricordare che nel 1971 (proprio un anno dopo la pubblicazione integrale in italiano de Il Signore degli anelli presso Rusconi, con la prefazione di Elémire Zolla, dopo la comparsa dei primi due libri presso Astrolabio nel 1967 nella traduzione di Vicky Alliata di Villafranca), l’editore americano Ballantine pubblicava una nuova traduzione inglese dei primi 13 canti dell’Orlando furioso (su 46) da parte dell’autore di fantascienza e saggista Richard Hodgens.

La notizia resterebbe una pura curiosità editoriale, se Ballantine non fosse appunto l’editore americano di The Lord of the Rings. Il sottotitolo di questa prima parte (cui non ha fatto seguito la continuazione della traduzione, purtroppo) era The Ring of Angelica: più esplicito di così! La prefazione era di Lin Carter, autore di fantascienza che nel 1969 aveva pubblicato un saggio su The Lord of the Rings. L’illustratore era David McCall Johnston, famoso per le sue illustrazioni di opere cavalleresche e fantasy. Un intero progetto di assunzione di Ariosto nel mondo di Tolkien si prefigurava dietro la scelta di Ballantine.

In America Ariosto veniva annesso all’orizzonte del fantasy esattamente nello stesso momento in cui in Italia Tolkien veniva divulgato con potenzialità reazionarie.

Per quanto accolto e apprezzato soprattutto negli ambienti hippy nel corso degli anni Sessanta, per il suo ritorno alla natura e il suo culto della libertà, in Italia negli anni Settanta il capolavoro di Tolkien diventava lo strumento di un riscatto della cultura di destra, complici lo statuto pubblico dell’editore e l’immagine controversa del prefatore.

Editore aperto a suggestioni ermetiche, esoteriche e mistiche, Rusconi pubblicava De Maistre e Jünger, che potevano essere percepiti, come infatti furono, come autori di destra.

Zolla, a sua volta, era visto con sospetto dagli ambienti intellettuali caratterizzati da un razionalismo illuminista e scientista coi paraocchi, per cui i suoi interessi per le religioni, il misticismo e l’occultismo lo facevano spesso passare (erroneamente) per oscurantista e destrorso.

Rifiutato per questi motivi Tolkien dalla sinistra, non risultò difficile alla destra appropriarsene, facendo leva anche su un presunto conservatorismo dell’autore che è solo in parte fondato, ma soprattutto (come ha scritto Giuseppe Pezzini, uno dei curatori della mostra, professore di latino a Oxford e Tolkien Editor per  Journal of Inklings Studiesnulla ha a che vedere con la sua opera letteraria.

A partire dal biennio 1976-77 Tolkien diventava in Italia un autore di destra.

Nel 1976 Monica Centanni e Marilena Novelli fondavano la rivista Eowyn, che avrebbe dovuto rilanciare il dibattito sulla donna all’interno del MSI: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società», si leggeva su una delle prime copertine.

Eowyn, principessa di Rohan, è l’eroina che appare nel secondo libro della saga di Tolkien, Le due torri: innamorata invano dell’irraggiungibile Aragorn, è una donna forte, che lotta per il suo popolo, ma sa anche accettare il destino che la vuole consapevole dei suoi limiti e cui si sottomette (a proposito: con l’eccezione della madre e della moglie, non ci sono donne nella mostra, neppure tra i personaggi).

Il 6 dicembre dello stesso anno la band Gruppo Padovano di Protesta Nazionale (la futura Compagnia dell’anello) presentava in un concerto a Roma la canzone che sarebbe diventata l’inno del Fronte Nazionale della Gioventù, Il domani appartiene a noi, in cui «la terra dei Padri», «la Fede immortal» e «la Tradizion» (obbligatoria anche qui la maiuscola) compaiono come i valori fondanti di una comunità che lotta contro l’oscurità e guarda ai raggi del sole.

L’anno dopo vedeva la nascita dei campi Hobbit, invenzione creativa di alcuni leader del Fronte della Gioventù, la sezione giovanile del MSI: Generoso Simeone, Umberto Croppi, Giampiero Rubei, Marco Tarchi e Nicola Cospito.

Associare Tolkien e Ariosto avrebbe significato parlare di letteratura, di complessità, di diversità e di dialogo. Rivendicare il rifiuto di Vittorini come occasione per una storia più fortunata, protesa verso una direzione piuttosto che un’altra, rischia di negarla, invece, la letteratura, che è in effetti la grande assente della mostra.

Ognuno può fare le appropriazioni che vuole, ma deve anche saperle fare: se cultura di destra vuol dire banalizzazione e mitizzazione, opposizione pregiudiziale alla sinistra e strumentalizzazione di qualsiasi discorso a uso suo proprio, allora avrà ragione chi pensa che destra e cultura siano semplicemente in antitesi.

Ma se cultura di destra vorrà dire un’occasione per promuovere sguardi alternativi e proposte nuove, urge definirne orizzonti di senso e prospettive di ricerca: dal momento che non si può più ricorrere all’opposizione tra progressismo e conservazione, razionalismo e irrazionalità, elitismo e populismo, che non hanno retto alla prova della storia, perché la destra di oggi non è più antimoderna, anticapitalistica e antiburocratica, che si ricominci a pensare la politica all’interno di categorie critiche non può che essere un bene.

A patto che la destra voglia davvero promuovere la cultura, fondata sull’orizzonte della ricerca e la capacità del confronto, anziché fare solo propaganda.