In e-mail il 29 Novembre 2016 dc (non do un giudizio sui gruppi che firmano il documento), originale qui:
C’è chi dice Si. C’è chi dice NO. C’ è chi dice Organizzazione Autonoma!
Pubblichiamo alcune riflessioni frutto di tre dibattiti sviluppati fra compagne e compagni comunisti a Roma e Viterbo nel mese di novembre 2016.
L’avvicinarsi dell’oramai fatidica giornata referendaria del 4 dicembre va intensificando il dibattito nell’opinione pubblica e negli ambienti militanti e moltiplicando le prese di posizione sui temi della riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. I partecipanti alla sfida elettorale stanno caricando l’ennesima chiamata al voto referendario di significati e valenze (riformiste o difensive) che nulla hanno a che vedere con le reali motivazioni alla base della modifica costituzionale e del sistema di voto.
L’estremo trasversalismo dei due schieramenti del si e del no, mascherato dallo “scontro” tra riformatori moderni e difensori amanti della “costituzione più bella del mondo”, esprime invece una aspra lotta tra chi continua a sostenere il processo di integrazione europea e chi si dice favorevole al mantenimento dello status quo, ancora legato a logiche nazionali e clientelari.
Insomma, comunque vada, lor signori padroni e servitori cascano in piedi, scaricando crisi e riforme contro di noi.
La Costituzione del ’46: il compromesso della borghesia post fascista.
La Costituzione, lungi dal rappresentare uno strumento di difesa della classe lavoratrice o addirittura un’arma da utilizzare per un’offensiva rivoluzionaria, fu dalla sua promulgazione la fonte principale di legittimazione della nuova classe dirigente ascesa al potere e il canale di riciclaggio di forze sociali ed economiche che del fascismo avevano costituito il nerbo del consenso (forze armate, Chiesa e gruppi padronali).
I rapporti di forza creati dalla Resistenza costrinsero i padri costituenti ad acrobazie per rassicurare le classi lavoratrici sulla presunta neutralità dello Stato repubblicano. E se è vero che i provvedimenti più efficaci per garantire sulla carta tale neutralità entrarono in funzione solo dopo decenni, sin da subito le più rilevanti scelte strategiche della nuova classe dirigente furono fatte in ossequio dei dettati costituzionali.
La Repubblica fondata sul lavoro riconosceva di fatto il primato delle forze produttive e non intaccava un sistema di relazioni industriali che, rimanendo rigidamente gerarchico e sbilanciato a favore del padronato, inaugurava la stagione più difficile per la classe lavoratrice, costituzionalmente impossibilitata a dispiegare quel patrimonio di lotta di classe che la stagione della Resistenza aveva comunque rilanciato.
Tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50, in nome del primato del “lavoro”, ovvero della produzione industriale, fu costituzionalmente garantita l’azione di contenimento delle spinte operaie causate dalla repressione interna alla fabbrica da parte dei padroni e da quella dello Stato, nonché da forze sindacali intimamente connesse ai partiti e alla logica dei bassi salari, tutti protagonisti consapevoli della distruzione ambientale e della tragedia dell’emigrazione operaia. La riforma agraria del governo De Gasperi pose fine al movimento di occupazione delle terre e significò la consacrazione costituzionale della piccola proprietà privata e del modello rurale maschile e cattolico.
E di fronte alla nuova composizione operaia e al ciclo di lotte degli anni ’60, le soluzioni eversive di Stato, la violenza stragista e le tentazioni golpiste mostrarono quanto l’involucro costituzionale divenisse superfluo quando non in grado di mantenere i rapporti sociali ed economici in termini favorevoli ai padroni.
E di fronte all’offensiva rivoluzionaria delle avanguardie e delle masse maschili e femminili coscienti negli anni ’70, la corporazione politica si compattò in nome della costituzione e per conto della costituzione. Lo stesso Pci si autolegittimò tra le sfere dello stato militare e tra gli uffici riservati e reclamò assieme a gran parte dei sinceri democratici la feroce repressione “antiterrorista”, bloccando in maniera apparentemente definitiva il processo di autonomia e di potere operaio e il movimento femminista rivoluzionario.
E di fronte alle sfide internazionali seguite alla caduta del blocco sovietico, anche il presunto ripudio della guerra, sin dal 1949 sacrificato sull’altare dell’adesione all’alleanza militare NATO, produsse solo un fiorire di formule convenzionali (guerra umanitaria, missione di pace) a copertura della fondamentale sostanza guerrafondaia di ogni Stato borghese e di ogni blocco imperialista.
La Costituzione servì in effetti come arma nelle mani del potere, per legittimare in termini politici e giuridici la subalternità dei lavoratori e delle donne e la persecuzione dei rivoluzionari e delle rivoluzionarie. E non lo fece per colpa di una malcelata strumentalizzazione da parte del gruppo di potere che governò l’Italia nel secondo dopoguerra (la DC) ma perché era costitutivamente intesa a rendere più efficace lo sviluppo capitalista. Perché costitutivamente intesa a collocare tale processo di sviluppo dentro la sfera di mercato occidentale. Perché costitutivamente borghese.
I motivi del sì, una riforma funzionale.
I promotori, dopo aver inopinatamente indicato nel referendum una sorta di plebiscito per rafforzare un governo privo della “normale” legittimazione del voto, hanno fatto poi ricorso a una serie di argomenti populisti per spiegare i motivi della scelta di modificare una parte della Costituzione. La riduzione dei costi della politica, lo snellimento delle procedure legislative, la “maggiore partecipazione dei cittadini” (sic!), la valorizzazione delle autonomie sono tutte prese per i fondelli che nascondono i reali motivi esogeni che sono alla base dell’avventura referendaria.
È bene ricordare che essa nasce non come risposta a specifici mali italiani, ma perché coerente con i disegni di ridefinizione degli Stati nazionali dettati a livello europeo. Il processo di concentrazione continentale politica, monetaria e industriale che risponde al nome di Unione europea, processo per noi irreversibile nonostante i conati reazionari dei sovranisti, impone il riadeguamento delle forme statuali e delle costituzioni che le dettano, piegandole alle esigenze del capitalismo europeo.
In assenza di un movimento di lavoratori e lavoratrici cosciente e di profilo internazionale le costituzioni “progressiste” diventano inutili e obsolete, perché non servono più ad assorbire conflitti deboli e sconnessi (nonostante le profezie dei “nostri amici”) e risultano troppo lente e costose a fronte della velocità richiesta dai cicli attuali di estrazione di profitto.
Il superamento della costituzione del 1948 infatti, è già avvenuto attraverso l’introduzione di meccanismi finanziari, strumenti legislativi e pratiche di governo che ne hanno” de facto” modificato la struttura e l’indizione del referendum non è -come si vuol far credere- né una gentile concessione del governo Renzi, né il frutto di una mobilitazione popolare, bensì di una clausola prevista dalla Costituzione dato che in Parlamento non si è raggiunta la maggioranza dei due terzi necessaria per approvare la riforma. Altrimenti non staremmo nemmeno a discutere.
In una formula, la riforma costituzionale vuole consacrare il processo già in atto, finalizzato a rendere più facile, economico e veloce prendere le decisioni di merda che comunque la classe dirigente ha preso, prende e continuerà a prendere.
I motivi del no, declinato a piacimento.
Seguendo il dibattito sul referendum, balza agli occhi come il variegato fronte del no, che svaria da raggruppamenti politici che preferiamo non citare, fino a gran parte del movimento antagonista, individuino nella possibile caduta di Renzi il motivo principale della loro propaganda referendaria. Se dal punto di vista dei raggruppamenti politici tale visione è certamente comprensibile, meno chiari risultano i moventi del “no sociale”, del “no costituente” o del “no operaio”, anch’essi precipitati nella visione personalistica della politica che tanto piace al giornalismo attuale.
Si dice che le ragioni del no rappresenterebbero dal punto di vista tecnico un vantaggio per i lavoratori, favoriti da contrappesi istituzionali. Già facciamo fatica a individuare nella storia dell’Italia repubblicana momenti in cui tali contrappesi fossero realmente serviti alla classe lavoratrice; già prendiamo atto di come tali contrappesi siano allo stato attuale svuotati di senso, logica ed efficacia dal compiuto processo di internazionalizzazione del capitale e dalla costruzione di un blocco di potere europeo.
Ci sembra poi veramente difficile comprendere perché le ragioni del no siano tecnicamente più vicine agli interessi dei lavoratori. Se andiamo a studiare la riforma proposta, l’istituto referendario, che tanta parte di movimento e di sinistra radicale hanno sempre individuato come un terreno praticabile e preferibile di democrazia diretta, riesce addirittura rafforzato, sacrificando, in finale, solo un’istituzione di regia memoria (Senato) che, al pari, per esempio, dell’arma dei carabinieri, rappresenta nel panorama politico internazionale un’anomalia tutta italiana, una vestigia di tempi passati e, per fortuna, sepolti dalla storia.
Ci risulta altresì complicato comprendere come un rafforzamento dell’esecutivo, tendenza peraltro già in atto in diversi Paesi d’Europa tramite provvedimenti eccezionali e decretazione d’urgenza, significhi ineluttabilmente un peggioramento per i lavoratori, a meno di non magnificare virtù taumaturgiche di parlamenti che da sempre sono luoghi deputati a legiferare in funzione del capitalismo e, al massimo, servono in certi casi da ostacolo non in virtù di meccanismi di rappresentanza, bensì a causa di rapporti di forza sociali ed economici più favorevoli ai lavoratori e costruiti all’esterno della sfera statale.
Ci risulta infine inaccettabile che a causa del desiderio di attaccare il processo di funzionalizzazione e centralizzazione del potere continentale si giunga a difendere di fatto una realtà infame come lo Stato-Nazione, individuandolo come bastione contro la rapacità dell’imperialismo europeo, soprattutto di marca tedesca. La forma dello Stato-Nazione non solo, come detto, ci sembra superato in termini politici ed economici, ma è stato combattuto per decenni da quelle stesse forze che il fronte del no aspira a “rappresentare”. Tale atteggiamento contraddittorio e ambiguo da ogni punto di vista giunge oggettivamente a porsi a fianco a forze “sovraniste”, se non peggio, che, molto più coerentemente, perseguono il consenso e sfruttano il risentimento popolare per indirizzarlo a una visione di dominio nazionale e identitario.
Il problema, al nocciolo, non può quindi essere tecnico. Non può essere un problema di Europa, non può essere un problema di svolta autoritaria. Il problema è politico e ha due facce: Renzi e il movimento stesso.
Si dice che Renzi stia perdendo consenso, che stia alla frutta, che esista un variegato blocco popolare più o meno distinto e sicuramente maggioritario antirenziano da conquistare magicamente alle ragioni del movimento e delle campagne ambientali e sociali che esistono ma che stentano, secondo tale visione, a farsi conoscere al di là dei soliti canali militanti.
Non è certo la prima volta che ad autunno le truppe del Movimento cominciano ad agitarsi per qualche “grande evento” capace di catalizzare l’attenzione, evidentemente incapaci (o forse non desiderosi) di provare a imporre e valorizzare una propria agenda di lotta. La logica da “grande evento”, così osteggiata quando si tratta di un evento capitalista, sembra in effetti da contrastare solo fino a un certo punto, ovvero fino a quando non garantisca visibilità e pubblicità alla propria autorappresentazione.
Probabilmente tutti i compagni e tutte le compagne sanno bene che una scheda in un’urna referendaria non può modificare o fermare processi che trovano nel mercato mondiale la propria storica sedimentazione e nelle istituzioni dei blocchi continentali le proprie sedi vincolanti per gli stati. Ma si lasciano comunque affascinare dal mito di una “comunità dei movimenti” e di quello delle “mille piazze” che appaiono come soluzioni adatte a liberarsi di quei fantasmi che infestano le menti e agitano le notti delle individualità che compongono l’antagonismo attuale: isolamento, marginalità e invisibilità.
È un problema antico, certamente impossibile da evitare, che sin dagli albori del movimento rivoluzionario ha determinato scelte e revisioni di consolidati patrimoni teorici, magari mai smentiti dalla realtà dei fatti, ma spesso giudicati dalle soggettività “impazienti” come limiti all’allargamento e all’affermazione della propria opzione sociale. Eppure è un problema che la partecipazione a ogni referendum e, soprattutto, a questo referendum non fa altro che aggravare, destinando, al netto delle scelte opportuniste, l’inquietudine che anima le pur sincere coscienze di molti compagni e molte compagne a naufragare sugli scogli della poltiglia mediatica e della retorica politicista.
Proprio nel momento storico-politico in cui grandi masse, la maggioranza dei cittadini italiani ed europei, perdono fiducia nell’istituto truffaldino del suffragio universale, rendendo il “partito dell’astensione” il primo partito, ci si mette a rincorrere tornate elettoralistiche o a mettersi al soldo di qualche magistrato-sindaco o di qualche finto partigiano.
Sinceramente la partecipazione del movimento antagonista alla sfida referendaria di dicembre ci sembra il punto più basso mai raggiunto in termini di autonomia della classe e dei movimenti stessi, in termini di prospettiva reale e politica di cambiamento, in termini di proposta di ricomposizione delle lavoratrici e dei lavoratori, in termini di adeguamento del dibattito militante, in termini di salvaguardia del patrimonio di lotte sociali ed economiche, in termini di scissione dal pantano della politica, di chiarezza delle proprie identità e delle proprie proposte.
L’idea di rilanciare cicli di lotte e di entusiasmo a partire da “grandi eventi” ha mostrato la sua inefficacia in decine e decine di occasioni. Al contrario, alti momenti di rivolta e insurrezione, pure se avvenuti in occasione di crisi istituzionali, sono riusciti più “forti” perché erano il risultato di un clima di conflittualità militante diffusa, oggi pressoché del tutto assente.
Quella al referendum, anche quando non mossa da moventi di opportunismo, anche quando non esprima il tentativo di ricondurre all’ovile elettorale, è quindi una partecipazione politica e militante insipiente, vecchia, stanca. Uno spreco di energie. Non appassionante e non produttivo.
Uscire dall’impasse
L’attuale scarnificazione dei rapporti sociali ha rivelato apertamente il carattere brutale, assassino e nocivo del modello di produzione capitalista. Il capitalismo stesso si va giovando della necessità, a causa delle sofferenze finanziarie, e della possibilità, a causa dell’assenza di conflitto reale, di fare a meno degli strumenti tradizionali di mediazione tra capitale e lavoro. La crisi dello Stato democratico non corrisponde a una crisi del dominio reale del Capitale, che, snellendo l’apparato burocratico, distruggendo il Welfare State, accorpando unità amministrative, riducendo i costi del lavoro, procede a concentrare il potere politico ed economico e tenta di rilanciare il profitto.
Il nostro problema non è quello di arginare tale riadeguamento capitalista, a meno di non destinare la nostra azione a una battaglia di retroguardia e di conservazione di un sistema preesistente che abbiamo fino ad oggi combattuto. Come Marx giudicava più conveniente per la rivoluzione la “libertà di commercio” rispetto ai protezionismi, così i rivoluzionari romani a inizi del ‘900 non rimpiangevano lo Stato pontificio, sebbene la Chiesa costituisse un freno alla speculazione capitalista nella Capitale.
E’ chiaro quindi che un intervento autonomo e di classe in questa situazione, più che attardarsi nell’utopico sogno di salvare una vecchia signora decrepita (la Costituzione) dovrebbe stare nel “movimento reale che supera lo stato di cose presenti”, cioè sfruttare le opportunità che, seppure con rapporti di forza sfavorevoli, si pongono nel corso della lotta tra le classi. E oggi queste opportunità si chiamano diffusione del modo di produzione capitalista all’intero pianeta con conseguente rottura dei confini tra generi, contaminazione migratoria e concentrazione metropolitana del proletariato.
Partecipare al referendum costituzionale non è un errore solo in termini di strategia. Ma anche in termini di un presunto interesse tattico. Sostenere che la scadenza referendaria rappresenti una opportunità da cogliere, è un segno di debolezza perché indice di una scelta subalterna allo scontro interno al sistema dei partiti sul terreno del parlamentarismo. L’agenda dei movimenti sembra ancora una volta influenzata da logiche istituzionali, tanto più se si considera l’apertura di credito riservata da ampi settori di movimento alle giunte “anomale” che governano Roma, Torino e Napoli.
Che si tratti del governo delle città o di quello del Paese ci sembra che – in questa fase – l’agire e il pensare dei movimenti esista solo in quanto riflesso delle contraddizioni del Potere, che non si dia capacità autonoma di elaborazione ed iniziativa per tutte quelle aspirazioni/necessità di vasti settori sociali che pure esprimono una domanda politica.
Ritenere residuali le battaglie nelle scuole, sul lavoro, in difesa dell’ambiente, sulla casa può anche paradossalmente essere giusto, ma solo se ci si interroga sull’assenza della capacità di costruire organizzazione autonoma a partire da tali lotte. Questo referendum non è evidentemente vicino ai problemi della classe cui si ritiene di appartenere, ma solo a quelli dei leader che di tale classe si ritengono i rappresentanti. È questo il ceto con il quale si pensa di ricostruire il tessuto connettivo della classe?
Dal punto di vista teorico occorre cogliere nella semplificazione dei meccanismi burocratici e nella velocizzazione istituzionale che il referendum potrebbe sancire a dicembre, ma che saranno eventualmente realizzate sotto altre forme e in altri momenti, anche senza il burattino Renzi, la nostra urgenza di riadeguare una pratica e una teoria di lavoro militante che mostra ogni giorno drammaticamente la sua insufficienza e la sua autoreferenzialità.
Certamente il lento processo molecolare di ricostruzione di un terreno propizio alla lotta di classe, necessario per sedimentare processi di autorganizzazione, è lento, talvolta noioso e quasi sempre faticoso, scandito più da denunce penali e provvedimenti amministrativi che da risultati felici e brillanti.
Dal punto di vista pratico occorre ribadire che, nonostante le difficoltà e le asperità, solo lo stimolo e la valorizzazione delle lotte e della capacità di autorganizzazione della classe lavoratrice, nonché la capacità di sedimentare, coordinare e collegare i risultati acquisiti in mesi e anni di “scavo della talpa” dentro un processo di organizzazione autonoma, fuori e contro la Democrazia e i suoi istituti e per abolire lo stato di cose presenti, possono rilanciare un’opzione concreta di comunismo e di libertà.
Comitato di Lotta Quadraro
Centro Sociale I Pò
Assemblea per l’Autorganizzazione
Iskra Roma
Comitato di lotta Studenti, Lavoratori e Disoccupati Viterbo e Civita Castellana
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