Il mondo della ricerca si mobilita per salvare il Servizio Sanitario Nazionale

6 Aprile 2024 dc, dal sito La Stampa, articolo del 3 Aprile 2024 dc:

Il mondo della ricerca si mobilita per salvare il Servizio Sanitario Nazionale

Quattordici simboli della scienza italiana chiedono maggiori investimenti per tutelare la sanità pubblica e un diritto fondamentale

Dal 1978, data della sua fondazione, al 2019 il SSN in Italia ha contribuito a produrre il più marcato incremento dell’aspettativa di vita (da 73,8 a 83,6 anni) tra i Paesi ad alto reddito. Ma oggi i dati dimostrano che il sistema è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali.

Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica hanno reso fortemente sottofinanziato il SSN, al quale nel 2025 sarà destinato il 6,2% del PIL (meno di vent’anni fa).

Il pubblico garantisce ancora a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri per acuzie), mentre per il resto (visite specialistiche, diagnostica, piccola chirurgia) il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare gli interventi o indotti a ricorrere al privato. Progredire su questa china, oltre che in contrasto con l’Art.32 della Costituzione, ci spinge verso il modello USA, terribilmente più oneroso (spesa complessiva più che tripla rispetto all’Italia) e meno efficace (aspettativa di vita inferiore di sei anni). La spesa sanitaria in Italia non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute.

È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento dell’SSN e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali. La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema. Ancora, l’SSN deve recuperare il suo ruolo di luogo di ricerca e innovazione al servizio della salute.

Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni, e uno su tre è stato costruito prima del 1940.

Ma il grande patrimonio dell’SSN è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza. È evidente che le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili. Particolarmente grave è inoltre la carenza di infermieri (in numero ampiamente inferiore alla media europea).

Da decenni si parla di continuità assistenziale (ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione sono timidi. Oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in grado di assisterli.

La spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria, basta un dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività fisica.

Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione (individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità ma anche dei limiti della medicina moderna.

Molto, quindi, si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento dell’SSN agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del PIL), ed è urgente e indispensabile, perché un SSN che funziona non solo tutela la salute ma contribuisce anche alla coesione sociale.

Ottavio Davini

Enrico Alleva

Luca De Fiore

Paola Di Giulio

Nerina Dirindin

Silvio Garattini

Franco Locatelli

Francesco Longo

Lucio Luzzatto

Alberto Mantovani

Giorgio Parisi

Carlo Patrono

Francesco Perrone

Paolo Vineis

“Rottami ambulanti”…

8 Ottobre 2023 dc

“Rottami ambulanti”…

di Jàdawin di Atheia

Alcuni giorni fa, alla trasmissione Mi manda Rai 3, hanno incentrato la discussione sulle auto, i motori, l’inquinamento.

All’inizio hanno preso in esame uno spettatore che avrebbe chiesto se era vero che nelle auto a benzina si poteva fare il pieno di acqua e così risparmiare.

Ora, io penso che si siano inventati spettatore e domanda, perchè solo un idiota potrebbe pensare di fare il pieno con l’acqua al posto della benzina. E, naturalmente, si sono divertiti con battute stupide e “dimostrazioni” scientifiche con l’esperto in studio.

Il “dibattito” si è ovviamente accentrato sull’inevitabilità del passaggio al motore solo elettrico, senza prendere in esame i problemi che ciò comporterebbe.

Non hanno fatto cenno al motore a idrogeno, a mio avviso l’unica fattibile alternativa ai motori con carburante, e alla sua applicabilità sicura e affidabile. Ma in altra trasmissione hanno magnificato il treno a idrogeno su una tratta bresciana.

Hanno fatto gli spiritosi sull’acqua al posto della benzina, ma non hanno fatto minimamente cenno al ricercatore italiano che ha brevettato qualche anno fa, e costruito quasi a sue spese, un’auto con motore ad acqua, perfettamente efficiente e funzionante, che ha avuto l’onore della cronaca in un servizio televisivo, e poi il silenzio.

Alla fine della trasmissione uno dei presenti ha fatto lo spiritoso parlando del fatto che ci sono alcuni milioni di auto molto vecchie che non vengono “cambiate”: auto con un valore di 2000-2500 euro, 170 mila chilometri di percorrenza e più di dieci anni di vita. Ha affermato che sono “rottami ambulanti”, e che i loro possessori hanno la colpa di non svecchiare il parco macchine italiano.

Bene: la mia auto, acquistata nuova, ha compiuto 17 anni, ha un valore forse inferiore ai 2000 euro e ha percorso più di 190 mila chilometri. Me la sono potuta permettere grazie a un’eredità, ha sempre funzionato benissimo (tranne ovviamente i malanni di tutte le auto, come la batteria e l’alternatore), più di un meccanico ha affermato che questa versione ha un motore talmente valido che può tranquillmente arrivare a 300 mila chilometri.

Lo spiritosone di turno farebbe bene a considerare che molti italiani non possono permettersi non solo un’auto elettrica, ma nemmeno cambiare la propria auto a combustione con un’altra analoga, nemmeno usata. E che, grazie a provvedimenti idioti e nefasti, come l’Area B di Milano, non possono nemmeno più circolare con un’auto che è costata loro sacrifici, non risate in televisione.

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

Forse è vero che si stava meglio quando si stava peggio

di Claudio Bezzi

Piccola polemichetta che mi era completamente sfuggita, proprio a me, che amo tanto queste cose così rivelatrici del mondo, di tutti noi…

Allora: il 1° maggio Roberto Saviano se ne esce con questo tweet:

Naturalmente i giornalacci di destra ci si sono buttati a corpo morto: “L’orrore della fatica. Ora Saviano elogia il fancazzismo”, titola Il giornale (3 maggio); “Saviano paladino dei fannulloni”, rilancia Libero (3 maggio). E va bene. Mi secca un po’ di più che nel trappolone della polemichina ci si sia infilato Pierluigi Battista sull’HuffPost del 5 maggio, perché mi dispiace sempre quando una persona che stimo per certi versi, inciampa su un verso differente. Battista – va chiarito – riprende ampiamente da una critica di Carlo Stagnaro sul Foglio del 3 maggio.

Cosa dice, in pratica, Stagnaro, rilanciato pari pari da Battista? Che – dati alla mano – la vita media degli italiani, ma anche delle nazioni più povere e disgraziate (viene citato il Ciad) è aumentata notevolmente nei decenni; la mortalità infantile è enormemente inferiore; ci potrebbe essere un’obiezione, diciamo così, “qualitativa”:

Saviano potrebbe obiettare: sì, viviamo più a lungo, ma è una vita più povera perché abbiamo meno risorse e meno tempo. Al contrario, il valore dei beni e servizi consumati ogni giorno dall’essere umano medio è cresciuto da 11,7 dollari nel 1990 a 18,2 nel 2019 (al netto dell’inflazione e a parità di potere d’acquisto). L’apporto calorico quotidiano è balzato da 2.181 chilocalorie nel 1961 a 2.947 oggi. Le persone denutrite sono scese dal 13,2 all’8,9 per cento del totale negli ultimi vent’anni (una tendenza che sembra essersi invertita nel periodo più recente, cosa che dovrebbe preoccupare molto). (Stagnaro, sostanzialmente identico in Battista)

Infine il lavoro, che sarebbe poi stato il tema di Saviano: rispetto a un secolo fa si lavora enormemente di meno, non c’è analfabetismo, si gode di tempo libero (sport, letture…).

Conclusione:

Insomma solo pregiudizi, cecità ideologica, odio per il progresso. Basterebbe informarsi un po’, vero Roberto Saviano? Ma informarsi è anche un po’ un orrore. (Battista)

Ecco, c’è del marcio in Danimarca. E mi dispiace davvero. Se di Carlo Stagnaro non mi importa un fico secco, perché non mi pare qualificato per assurgere a maître à penser (è un ingegnere esperto di economia energetica, area dem – QUI la bio), tant’è vero che scrive delle sciocchezze, come sto per argomentare, mi dispiace che Battista, che porta avanti tante giuste battaglie liberali con una sensibilità che appartiene anche a me, abbia scopiazzato l’altro per mettere subito l’etichetta di pregiudizialità e ideologicità a Saviano, un intellettuale che – ho scritto più volte qui su HR – non mi piace particolarmente, spesso non mi rappresenta, ma sì, è uno dei pochi in circolazione.

Il marcio danese riguarda l’uso mistificatorio dei dati; non a caso Stagnaro è un ingegnere, la forma mentis è quella: i dati, le cose, i fatti. E prendere l’età media della vita e la mortalità infantile viene facile, ma così facile! Peccato che non sia stato un argomento toccato da Saviano. Saviano, sia chiaro, si sbaglia di grosso quando dice “più lavoro” (le ore lavorative sono di molto diminuite), “meno tempo” (il tempo libero è specularmente aumentato) e “meno vita” (dove Saviano non intende – ovviamente – che si vive meno, ma che si vive male). E Breton a parte, che non c’azzecca nulla (il citazionismo è una deriva onanistica dei social media, Saviano può certamente farne a meno), le allusioni agli intellettuali che immaginavano un futuro liberato dal lavoro è solo una banale e mal compresa rimasticazione del giovane Marx. Roba buona per un tweet…

Quindi sì, Saviano non ha scritto un luminoso pensiero, ma l’astio col quale gli viene risposto è mortificante; non considero nemmeno i giornalacci di destra, ma il compitino di Stagnaro è falso, e l’invettiva di Battista fuori luogo.

Perché Stagnaro dice il falso (probabilmente senza accorgersene)? Per la semplice ragione che cita i dati che gli convengono. Per spiegarmi rinvio, rapidamente, alle dannosissime classifiche sulle “città in cui si vive meglio”, che per esempio vengono stilate ogni anno dal Sole 24 ore. Queste classifiche prendono in considerazione i) pochi indicatori (sulle migliaia possibili e immaginabili), ii) di cui si hanno numeri e statistiche (ovvero una minimissima parte degli indicatori possibili, e forse anche importanti, ma dei quali non si possono compulsare statistiche perché non ce ne sono). Il risultato è che un ricercatore un pochino esperto e scaltro potrebbe dire, di qualunque città italiana, che è una delle migliori oppure una delle peggiori, a seconda dei dati che ha utilizzato (una spiegazione tecnica l’ho scritta QUI; una analoga su un’altra classifica politico-culturale QUI; una sulla libertà di stampa QUI. Tutte, nessuna esclusa, sono gravate da pesantissimi errori sistematici).

Ora: è indubbio che viviamo molto più a lungo, che mangiamo di più e meglio, che abbiamo tempo libero, siamo più istruiti, il reddito pro capite medio si è di moltissimo innalzato in tutto il mondo, eccetera. Questa è la parte facile dell’analisi. È anche vero che siamo tutti sovrappeso o obesi, dai 50 anni in su viviamo aiutati da un numero crescente di pasticche, la maggior parte della gente consuma il suo tempo libero guardando serie tv o giocando alla playstation, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è alle stelle, abbiamo paura della guerra, dei cambiamenti climatici, dei virus. C’è una generale estraneità sociale, se non un incattivimento, sconosciuti qualche decennio fa; siamo istruiti abbastanza per leggere il titolo di un giornale ma in pochi lo sono quanto occorre per capirlo; e per venire al lavoro – che avrebbe dovuto essere il tema di Saviano – io vedo enormi conquiste positive, che hanno avuto il loro culmine un paio di decenni fa, mentre mi pare che oggi sia diffuso il lavoro precario e di scarsa qualità, mentre la liberazione dal lavoro, vagheggiata dagli intellettuali citati da Saviano, si sta compiendo grazie a un’intelligenza artificiale che creerà scompensi inenarrabili (come ha scritto più volte, anche recentemente, Ottonieri).

Se ci fossero dei dati “oggettivi” sulla felicità, se fosse possibile misurarla veramente, e se avessimo una bella base storica di dati, non sono affatto convinto che la felicità umana sia apprezzabilmente aumentata nell’ultimo secolo, e a occhio e croce direi che è diminuita.

Allora, probabilmente Saviano aveva in mente un pensiero di questo genere, che ha male espresso affidandosi a una forma di comunicazione sbagliata. Male, molto male. Ma se uno Stagnaro qualunque ha trovato l’occasione per farci capire che è bravino e conosce i numerini, soddisfacendo in tal modo il proprio Ego, male, ma molto male, ha fatto Battista, che sulla scorta del precedente ha semplicemente compiuto quell’operazione ideologica (ma di senso opposto) che imputa a Saviano.

Ecco, questo è il male contemporaneo.

Usiamo i brandelli di informazione che abbiamo senza criticità, senza controllo, senza comprensione, come manganelli per colpire chi ha utilizzato altri brandelli di informazione. Capiamo come ci pare, entro i ristretti limiti delle nostre possibili comprensioni, quello che dicono e scrivono altre persone, nei modi utili e necessari per polemizzare, indignarci, accusare, sempre scivolando su argomenti limitrofi ma utili per la nostra differente perorazione (così hanno fatto anche Stagnaro e Battista), e quindi deviando il pensiero del lettore, che perde di vista il punto centrale.

Gli intellettuali sbagliano. Saviano, come già detto, non sempre mi entusiasma ma merita il mio rispetto; Battista mi piace molto in certe battaglie che propone, ma poi inevitabilmente anche lui scivola maldestramente. È normale che accade, perché costoro hanno bisogno di scrivere, pubblicare, apparire, autopromuoversi. Anche loro sono prodotti di un mercato, anche loro hanno contratti da rispettare, mica come Marx, divorato da bubboni ed emorroidi che gli impedivano di sedersi, sporco e ubriacone, mantenuto da Engels.

E allora, ancora una volta, ci dobbiamo chiedere chi siano oggi gli intellettuali. Ma forse è ora di cambiare domanda e chiedersi dove siano i lettori intelligenti.

Italia, il Paese della gente triste

7 Aprile 2023 dc, dal sito La Bottega del Barbieri, articolo del 16 Dicembre 2022 dc:

Italia, il Paese della gente triste

di Mariano Rampini

Malinconia accompagnata dalla mancanza di stimoli e dal desiderio di migliorare. Quasi che il destino dell’Italia sia di «finire con un lamento». Un quadro niente affatto confortante quello che il Censis dipinge nel suo Rapporto 2022 sulla situazione sociale del Paese.

Il Bel Paese: una favola? Italiani brava gente: un’altra fiaba? Le favole, si sa, hanno quasi sempre un lieto fine. Ma quella che ha come protagonista il nostro Paese è una di quelle che – per usare le parole del Vate (Nota mia: Giacomo Leopardi nella sua poesia A Silvia) – «…ieri ci illuse…» e oggi continua a farlo. Perché le fiabe a un certo punto si scontrano inevitabilmente con la realtà. E se la realtà è quella dei numeri della statistica, la disillusione è ancora più cocente.

A estrarli dal cilindro magico è stato ancora una volta il Censis. Che si è assunto questo doloroso compito da più di cinquant’anni presentando sempre nel mese di dicembre il proprio Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. (https://www.censis.it/)

Una fotografia da molti anni in bianco e nero, con poche, pochissime sfumature di grigio. Basta scorrere i titoli dei Rapporti degli ultimi anni che ci presentano un’Italia «Irrazionale», «Una ruota quadrata che non gira», in preda a un inconsulto «Furore di vivere». Oppure a un «sovranismo psichico» tinto di cattiveria. Sembra quasi che questi numeri siano la rappresentazione di un un’ombra cupa che si stende in ogni angolo di quello che fu, e avrebbe potuto continuare a essere, il Paese del sole.

Quest’anno la musica non cambia, anzi peggiora. L’esterno – quel mare sconosciuto e infido che tanti temono – è entrato di prepotenza nelle nostre case. Prima la pandemia con il suo corollario di incertezze, dubbi, paure, insicurezze. Poi è giunta anche la guerra e non sono pochi coloro che credono di ascoltare da lontano il galoppo furibondo dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Un numero per tutti: 61%. Questa l’altissima percentuale, secondo le rilevazioni del Censis (in verità mai smentite nel lungo arco di tempo in cui i suoi ricercatori hanno lavorato) degli italiani che temono il deflagrare di un nuovo conflitto mondiale. E ancora: si ha paura (59%, ben più della metà dei nostri concittadini) del ricorso alle armi nucleari. Pochissimi di meno (il 58%) coloro che pensano a un’entrata in guerra dell’Italia.

La storia ‒ pardon, la Storia ‒ è entrata nelle nostre case, ci ha messi dinanzi a una realtà che solo pochi (ahimè) ricordano. Cosa succede allora? Che le richieste degli italiani non cambiano: sicurezza (nel lavoro, nella cura della propria salute), maggiore equità sociale. Come se bastasse la bacchetta magica sventolata come propaganda elettorale, per assicurare a tutte e tutti un futuro migliore. Ma sembra scomparsa ogni tensione ideale. Anche quella ‒ di per se stessa negativa ‒ del populismo. Non ci sono reazioni forti, voglia di ribellione, desiderio di agire per cambiare. Su tutti si è stesa una coperta livida di disillusione che conduce – il Rapporto Censis è chiaro su questo punto ‒ alla malinconia.

Il post-populismo

Non che manchino le richieste di un miglioramento delle condizioni di vita (reali, non come quelle che, ricorda il Censis, sono evocate da qualche “leader politico demagogico”). Ma sono voci sommesse. Con una punta di disperazione: i ricercatori presentano un dato che fa tremare le vene ai polsi. Il 92% degli italiani pensa a un’inflazione capace di durare a lungo. Una larghissima fetta di popolazione (siamo ben oltre il 70%) teme che non potrà contare su significativi aumenti delle proprie entrate. Ne deriva la paura di un’ulteriore diminuzione del tenore di vita: lo temono quasi il 70% degli intervistati e la percentuale sale a sfiorare l’80% in chi ha già un reddito basso. La propensione al risparmio (una delle voci in genere considerate positive da più di un’indagine statistica) sembra essere scomparsa: il 64,4% ha già cominciato a intaccare le proprie riserve economiche (Nota mia: non è che manca la propensione al risparmio, è che le difficoltà costringono ad intaccare i propri risparmi!).

Da qui il nodo gordiano che stringe alla gola il nostro Paese. Le diseguaglianze, qualcosa che gli italiani dichiarano di odiare. Differenze eccessive tra retribuzioni dei dipendenti rispetto a quelle dei dirigenti (87,8%), buonuscite milionarie dei manager (86,6%), tasse poche e mal pagate dai giganti del web (84,1%), facili guadagni degli influencer (81,5%), sprechi per feste e mondanità delle “celebrità” (78,7%), uso dei jet privati (73,5%). Insomma un insieme di elementi che sembrano tutti contrapporre un esercito di meno abbienti a una minoranza di “ricchi” – senza virgolette è più vero – sciuponi.

Il fattore che però deve indurre a una profonda riflessione chiunque intenda farsi portavoce di queste rivalse è che vengono pronunciate con acrimonia ma senza mostrare alcuna vera volontà di riscatto.

Non c’è desiderio di conflitto, di mobilitazioni collettive (di ogni tipologia dagli scioperi alle manifestazioni di piazza). Gli italiani appaiono spenti, incapaci di reagire. Malinconici. Appunto: veri e propri «cittadini perduti della Repubblica».

Una prova? Quella delle ultime elezioni dove 18 milioni di italiani (all’incirca il 39% degli aventi diritto al voto) hanno scelto di non votare (astensioni, schede bianche o annullate, rileva il Censis), di non esprimere il proprio scontento attraverso l’unico vero strumento che la democrazia mette nelle loro mani. Fra il 2018 e il 2022, questo esercito silenzioso e malinconico è cresciuto di oltre quattro milioni di unità.

Una malinconia profonda, figlia dell’incertezza, facile a diffondersi in un Paese dove punti di riferimento reali mancano. Quelle che non mancano sono le promesse elettorali mai mantenute. E, soprattutto una sorta di stanchezza mentale che non induce più nessuno a pensare di cambiare le proprie sorti attraverso forme di sacrificio. In sostanza gli influencer possono dire ciò che vogliono ma una fetta larghissima del campione (oltre l’83%) non ha intenzione di seguirne le indicazioni. I prodotti di prestigio non attirano più di tanto (lo dichiara il 70 e passa per cento). Né tantomeno lo fa la moda (torniamo ben sopra l’80%). Soprattutto, poi, da segnalare come il 36% sia disposto a dedicarsi al lavoro per “far carriera” e magari guadagnare di più.

Insomma tirando le somme il Censis rivela come un’alta percentuale ‒ ci si avvicina al 90%, quindi davvero alta ‒ di italiani, dinanzi al susseguirsi di eventi non controllabili (pandemia, guerra, crisi ambientale) provi tristezza, malinconia, incapacità di affrontare questioni di molto superiori a quell’«io» che aveva dominato l’ultimo decennio. Quasi che ci si sia andati a schiantare contro un muro insuperabile. Quello della realtà. Il muro dell’essere cittadini di un mondo dove quei cavalieri a cui si accennava in precedenza galoppano indisturbati da sempre.

Molti, moltissimi i dati che fornisce il Rapporto. Un volume che ogni politico del nostro Paese dovrebbe portare con sé nella propria borsa (firmata?). E consultare prima di assumere qualsiasi decisione che possa influenzare i comuni destini.

La sicurezza sanitaria, ad esempio. Un 53% del campione teme la non autosufficienza e l’invalidità. Con loro ci sono gli italiani che hanno paura di perdere il lavoro (47,6%) o di subire incidenti o infortuni (43,3%) sempre sul lavoro. O di non poter disporre di redditi sufficienti in vecchiaia (ben più del 47%). E non manca la paura diffusa verso l’assistenza sanitaria: il 42% esprime i propri timori per la necessità di pagare di tasca propria eventuali, «impreviste» emergenze di salute.

Qui si innestano altri numeri. E danno poco conforto ma, al tempo stesso indicano con precisione dove dovrebbe agire la mano del governo o dei governi che seguiranno all’attuale.

La povertà invisibile?

A cominciare dalla povertà. Già, perché in Italia esistono famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta (un valore che oscilla e che è comunque legato al rapporto fra la composizione familiare e la possibilità di acquisto dei prodotti di un “paniere” di beni essenziali: cibo, medicine ecc. – NDR). E non è un fenomeno marginale. Il Rapporto Censis (supportato in questo anche dai dati dell’Istat e della Caritas) cita un numero che fa rabbrividire: 1,9 milioni di famiglie cioè 5,6 milioni di persone, dunque 1 milione in più rispetto al 2019. Buona parte di esse (il 44,1%) risiede nelle Regioni del sud.

Cosa si fa per loro? Si parla di lavoro, di assistenza? Si possiede una percezione esatta delle loro necessità? E, soprattutto quali possibilità vengono offerte per uscire da questa tragica posizione? Come potranno inserirsi nel mondo del lavoro i tanti giovani tra i 18 e il 24 anni che sono usciti dal sistema di «istruzione e formazione»? Già, perché il problema della povertà è anche questo e i numeri sono impietosi soprattutto nel confronto europeo. In Italia la dispersione scolastica interessa, a livello nazionale il 12,7% di questi giovani nelle regioni del Sud, contro una media europea che si arresta al 9,7%.

Nella Ue c’è una quota di 25-34enni diplomati pari all’85,2%. In Italia si scende al 76,8% (71,2% nel sud). Non basta: anche i laureati, cioè quella parte di giovani che potrebbero inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro sono pochi rispetto al resto d’Europa. La percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio terziario raggiunge quota 26,8% in Italia (20,7% al sud) rispetto a una media europea ben più alta pari al 41,6%.

La sanità è davvero per tutti?

Abbandoniamo in chiusura il Rapporto Censis restando nel campo dei numeri. Questa volta a gettare luce sulle ombre dell’assistenza sanitaria (troppe, davvero troppe) è un altro Rapporto, quello curato dall’Opsan, l’osservatorio sulla povertà sanitaria (https://www.opsan.it/) che è l’organo di ricerca della Fondazione Banco Farmaceutico, onlus creata nel 2008 ma già operante fin dai primissimi anni del secolo.

Cosa ci mostra quest’altra indagine? Che nel 2022 sono state 390 mila le persone costrette a ricorrere a svariate realtà assistenziali per potersi curare. Si torna a parlare di povertà assoluta confermando i dati Censis e aggiungendovi quello relativo alla “povertà sanitaria”.

Il Servizio Sanitario Nazionale, in sostanza, lascia fuori della porta ‒ nonostante la sua impronta universalistica ‒ moltissimi cittadini. Nel Rapporto Opsan si legge che: «nel 2021 (ultimi dati disponibili) il 43,5% (cioè 3,87 miliardi di euro) della spesa farmaceutica è stata pagata dalle famiglie (+6,3% rispetto al 2020), con profonde differenze tra le possibilità di quelle povere e quelle non povere».

In sostanza gli indigenti hanno a disposizione pro capite 9,9 euro mensili contro i 66,83 euro di chi indigente non è. Restando nel solo campo dei farmaci la quota a disposizione dei meno abbienti è pari a 5,85 euro mensili contro i 26 euro di chi dispone di maggiori entrate.

In sostanza, il 60% della spesa sanitaria di chi vive in povertà finisce in “emergenze” mentre le famiglie con maggiori risorse destinano il 38%.

Perché avviene questo? Per un meccanismo perverso ‒ figlio dei tanti tagli subiti nel tempo dall’assistenza farmaceutica del Ssn ‒ non esiste copertura per i cosiddetti farmaci Otc, quelli «da banco»: si è creata così una vera e propria frattura tra coloro che sono sotto la soglia di povertà e coloro che, invece, ne sono al di sopra.

Aumentano anche le diseguaglianze tra le fasce più ricche della popolazione e quelle medio-basse: nel 2021 a ridurre le spese sanitarie a loro carico (la rinuncia riguarda in generale le visite mediche e gli accertamenti diagnostici periodici) sono stati oltre 4 milioni e 768 mila famiglie (pari a quasi 11 milioni di persone). Di queste, neanche a dirlo, 1 milione e 884 mila persone vivono sotto la soglia della povertà assoluta.

L’elenco dei numeri presentati è certamente lungo. E i numeri, si sa, non destano simpatie perché spesso impediscono repliche demagogiche. Però pensare di ignorarli o, quantomeno, di nasconderli sotto un tappeto, per spostare l’attenzione degli italiani verso problematiche ‒ l’immigrazione in particolare, quella che molti definiscono invasione ma che tale non è e che a conti fatti contribuisce in maniera fattiva al benessere nazionale (articolo) ‒ destinate ad usum delphini (Nota mia: il link alla voce in Wikipedia che spiega l’uso di questa espressione in latino) e solo a quello, è un peccato mortale. Soprattutto perché fomentando paura e insicurezza, si colpiscono al cuore la speranza, il desiderio di riscatto, la dignità e il desiderio di vivere delle persone. Si lascia loro, insomma, solo un’esistenza malinconica. E non dovrebbe essere questo il destino di un Paese.

Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

11 Marzo 2023 dc, da Hic Rhodus, articolo del 12 Dicembre 2022 dc:

Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

di Ottonieri

In questi giorni, gli appassionati di tecnologia (e non solo loro) sono eccitatissimi a causa di ChatGPT. Basta cercare un po’ per trovare decine di articoli online, e anche i maggiori media generalisti come il New York Times gli hanno dedicato numerosi articoli.

Di cosa si tratta? ChatGPT è un chatbot, ossia un sistema di intelligenza artificiale che utilizza il linguaggio naturale per comunicare con i suoi utenti, ed è in grado di sostenere conversazioni sensate in molte lingue, incluso l’italiano.

A differenza dei normali chatbot che ormai incontriamo sui portali di quasi tutte le aziende, ChatGPT ha sia un’eccellente competenza linguistica sia un “addestramento” basato su un’enorme quantità di dati, che per essere elaborati hanno richiesto grandi risorse di calcolo.

Non è un caso che i più sofisticati sistemi di intelligenza artificiale orientati all’uso del normale linguaggio umano siano realizzati dalle stesse grandi aziende multinazionali che forniscono servizi elaborativi su scala mondiale, come Google, Microsoft, Meta/Facebook, eccetera. OpenAI, la società che ha realizzato ChatGPT, a suo tempo era stata fondata da diversi investitori, tra cui Elon Musk, come una no-profit, ma nel corso del tempo ha intrapreso anche attività commerciali (Musk ne ha abbandonato il consiglio d’amministrazione alcuni anni fa, mentre tra i maggiori finanziatori oggi c’è Microsoft).

ChatGPT è insomma semplicemente l’ultimo e forse più perfezionato esempio di sistemi di intelligenza artificiale dotati di capacità “generaliste” e di una cultura enciclopedica anche se, come OpenAI tiene a precisare, non infallibile e non aggiornata agli ultimi mesi.

Per il momento, usarlo richiede solo una registrazione gratuita, e chiunque può fare una chiacchierata con “lui” visitando il sito https://chat.openai.com/. Io l’ho fatto, ed è certamente interessante, ma l’hanno fatto anche centinaia di migliaia di altre persone, che hanno chiesto a ChatGPT le cose più disparate, come si può leggere in decine di articoli e post che riportano quelle conversazioni, tanto che ChatGPT è diventato uno degli argomenti più discussi su Internet negli ultimi giorni.

Il tono ricorrente di questi commenti è la sorpresa. ChatGPT è in grado non solo di rispondere a domande complesse o di intrattenere conversazioni sugli argomenti più vari, ma può produrre “contenuti” apparentemente originali e molto diversi tra loro, come compiti e tesine per la scuola, software, brani musicali, e poesie, come il brano che segue e che gli ho chiesto personalmente di dedicare alla luna:

Luna, splendida e pallida,

che in cielo brilla di luce propria,

attraverso le nuvole e le tempeste,

sei sempre lì, a brillare serena.

Luna, sorgi al tramonto,

e con il tuo chiarore illumi la notte,

mentre la terra riposa.

Certo, non è un granché, e contiene anche un errore (l’italiano non è sicuramente la lingua che ChatGPT “conosce” meglio), ma non è il caso di essere troppo esigenti!

Oltre alla sorpresa, molti articoli su ChatGPT manifestano preoccupazione. Sembra che improvvisamente a tanti osservatori presumibilmente competenti sia venuto in mente che i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT, ossia “generalisti”, possano nel prossimo futuro sostituire o rendere inutile il lavoro di moltissime persone, in attività intellettuali, soprattutto quelle che comportano la raccolta e l’organizzazione di informazioni. Insegnanti, giornalisti, avvocati, copywriter… improvvisamente, sembra che sia accaduto chissà cosa.

La verità, purtroppo, è che ChatGPT è informatissimo, ma la maggioranza delle persone, anche quelle che dovrebbero essere informate per dovere professionale, no. Sorprendersi delle capacità di un chatbot, sia pure sofisticatissimo, e trarne previsioni più o meno pertinenti è segno che finora di quanto sta accadendo non si è capito nulla, e quindi non si ha nemmeno idea di quello che, inevitabilmente, accadrà.

Non a caso, su Hic Rhodus sia Claudio Bezzi che io, partendo dai rispettivi punti di vista e competenze, scriviamo da anni che l’impatto sociale dei sistemi di General Artificial Intelligence sarà enorme, e che è assolutamente indispensabile prenderne atto e avviare immediatamente iniziative politiche difficili e complesse, cosa che in realtà non sta affatto accadendo.

ChatGPT, per interessante che sia, non rappresenta che una tappa prevedibilissima di questo percorso rivoluzionario, e la sua esistenza non modifica in nulla le previsioni che è ragionevole fare, se non agli occhi di chi previsioni non ne sa fare. D’altronde, si può dire che chi oggi si sorprende e si allarma almeno dimostra di seguire la realtà, e infatti possiamo osservare che la nostra politica appare completamente ignara di questi temi.

Quindi, a beneficio dei molti che evidentemente non hanno seguito l’avanzata delle tecnologie di Intelligenza Artificiale, e neanche, molto più modestamente, quanto qui ne abbiamo scritto negli ultimi anni, ricapitoliamo quello che certamente accadrà, quello che probabilmente accadrà, e quello che dovrebbe assolutamente accadere ma probabilmente non accadrà.

Certamente, i sistemi di Intelligenza Artificiale diventeranno sempre più sofisticati e sempre più in grado di svolgere, come e presto molto meglio degli esseri umani, tutte le principali attività lavorative che comportino in qualsiasi forma l’acquisizione, l’interpretazione, l’elaborazione e l’impiego di dati e informazioni.

Certamente, si realizzeranno sempre nuovi sistemi di questo genere, e tra qualche mese ne sarà presentato qualcuno più potente e versatile di ChatGPT, ammesso che non esista già. Altrettanto certamente i più potenti e sofisticati di questi sistemi non saranno posseduti né dai singoli cittadini, né dalle aziende, neanche le più grandi, ma saranno centralizzati e offerti sotto forma di servizi “a consumo” da pochissimi colossi dell’economia digitale, il cui potere economico e politico crescerà ulteriormente.

Probabilmente, l’effetto netto di tutto ciò sull’occupazione sarà una pesante perdita di posti di lavoro, e un’ancora più pesante obsolescenza delle competenze di chi lavora oggi. Il mantra degli economisti che dicono che la perdita di posti tradizionali sarà compensata dalla creazione di “nuovi lavori” è probabilmente privo di fondamento, perché a essere sostituiti saranno anche coloro che oggi sviluppano o gestiscono sistemi informatici, che in prospettiva saranno tutti centralizzati e offerti sul cloud. E spariranno moltissimi posti di lavoro che consideriamo “intellettuali”, come abbiamo visto, e che non saranno compensati da nulla.

La conseguenza inevitabile, e quindi altrettanto probabile, sarà lo svuotamento del sistema fiscale e di welfare che oggi è basato pressoché integralmente sul lavoro. Le casse degli enti previdenziali non riceveranno contributi dai robot, e il gettito delle tasse sul reddito delle persone fisiche crollerà, perché ci ritroveremo in un mondo di “PIL senza lavoro”. L’intero apparato statale diventerà insostenibile, a meno che…

Improbabilmente, i politici, la classe dirigente, l’opinione pubblica del nostro e degli altri Paesi occidentali capiscano dove stiamo andando a parare e decidano un intervento coerente, coordinato e lungimirante per ridisegnare completamente il sistema fiscale e contributivo, affrontando ovviamente l’ostilità dei grandi service provider online, che, come Twitter, Meta/Facebook, Google e persino Amazon, non a caso si stanno liberando di personale “in eccesso” (altro che “nuovi posti di lavoro nella tecnologia”).

Lo scenario probabile che descrivevo prima, di alcuni colossi digitali che forniscono alle aziende di tutto il mondo servizi sostitutivi della manodopera umana, richiede una risposta improbabile, ossia leggi che sostituiscano l’attuale gettito fiscale e contributivo basato sul lavoro umano con altre fonti, ad esempio eliminando le tasse sul reddito e i contributi previdenziali e sostituendoli con una megatassa sulla produzione di valore aggiunto (ma io non sono un tecnico, e non vorrei dover essere io a pensare l’improbabile soluzione di cui sto parlando), finanziando anche una forma di reddito universale di cittadinanza per chi non lavorerà, e saranno molti.

Tutto questo è chiaro da anni, ma non abbiamo anni perché chi ci governa se ne renda conto e decida di occuparsene. Se su Hic Rhodus, che non è un think tank e che non è composto di addetti ai lavori, scriviamo da anni articoli con titoli come I robot ci manderanno tuttì in pensione? , di quasi sei anni fa, vuol dire che il problema è evidente.

Proprio per questo è sconfortante assistere, da un lato, alla “sorpresa” di giornalisti e osservatori professionali, e, dall’altro, alla totale cecità dei nostri politici, che anzi, negli stessi giorni, stanno lavorando su una manovra finanziaria e progettando provvedimenti che dimostrano una completa incomprensione della realtà. Quando leggiamo che il governo vuole togliere il reddito di cittadinanza a “chi può lavorare”, è chiaro che non stanno capendo proprio nulla. Possibile che nessuno tra questi giornalisti, esperti, politici, si informi su quello che succede? Evidentemente sì.

In conclusione, per quanto interessante e promettente, ChatGPT non è “sorprendente”, sarà presto superato da altri sistemi analoghi, che nell’arco di pochi anni saranno in grado, per esempio, di scrivere i contenuti di qualsiasi rivista online non solo come Hic Rhodus ma anche come quelle “professionali”, creare illustrazioni digitali migliori di quelle di artisti umani, ricercare precedenti legali, e mille altre attività intellettuali e anche “creative”.

Noi esseri umani possiamo far finta di niente e occuparci di “quota 103”, oppure cercare di progettare un mondo in cui il nostro benessere non dipenda più dalla possibilità di svolgere un lavoro, per la buona ragione che la maggioranza delle persone un lavoro non l’avrà. Sarebbe bello che i nostri governanti si preoccupassero di ragionare su questo, che creassero gruppi di studio, che a Roma e a Bruxelles mettessero la disoccupazione tecnologica al centro delle strategie sul welfare. O almeno, sarebbe bello che leggessero Hic Rhodus, sarebbe già un passo avanti! O, forse, dobbiamo sperare che ci leggano i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT?