L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

Cercando da tempo, e non avendo ancora trovato, L’istinto materno non esiste che ritengo scritto o riferito a Susan Sontag, ho trovato questo articolo, molto interessante, sul sito The Vision, pubblicato il 17 Giugno 2020 dc:

L’istinto materno non esiste. Non volere figli non è egoista.

di Jennifer Guerra

Quando dico di non volere figli, la maggior parte delle persone mi risponde che sono troppo giovane per saperlo e che fra una decina d’anni, quando raggiungerò i fatidici trenta, cambierò idea, perché prima o poi arriverà il fantomatico “Istinto Materno”.

Non ho mai provato il desiderio di essere madre, non ho mai provato tenerezza di fronte a un bambino, voglio fare mille cose nella vita tranne che svegliarmi alle tre di notte per accudire un neonato, non faccio corrispondere la mia idea di realizzazione personale alla procreazione.

Insomma, diventare madre non fa per me. Nemmeno quando ero bambina mi divertivo a giocare con i bambolotti, al contrario di molte mie coetanee che amavano imitare la mamma alle prese con pannolini e biberon. Spesso mi sono chiesta cosa ci sia in me che non vada, perché tante altre ragazze che conosco abbiano questo desiderio, e io no.

Evito il più possibile di parlare di questa cosa in pubblico, un po’ perché è capitato che i miei interlocutori mi prendessero come una sorta di mostro egoista, un po’ perché la mia unica reazione alla frase “Prima o poi l’istinto arriverà” è ormai una poderosa alzata di occhi al cielo. Questa è d’altronde la risposta che si sentono dare molte donne che esprimono la volontà di essere child free. “Prima o poi l’istinto arriverà”, come se fosse una grazia del cielo o Babbo Natale.

Il punto è che l’istinto materno non arriverà mai, perché proprio come il vecchietto con la barba bianca e l’abito rosso, non esiste.

Parlare di istinto materno o, meglio, della sua assenza in Italia è un tabù. In un Paese in cui la questione della natalità viene affrontata con una farsa imbarazzante come quella del Fertility Day, con tanto di opuscoli raffiguranti clessidre per ricordare che il tempo scorre e che il tuo utero ha una data di scadenza, o in cui si permette alle associazioni pro-vita di appendere enormi manifesti in cui si paragona l’aborto al femminicidio, qualsiasi discorso riguardante la complessità della maternità si perde in lotte ideologiche e moralismi.

Dopotutto, come afferma la sociologa Orna Donath nel suo saggio Regretting Motherhood: A Sociopolitical Analysis, non si può parlare di maternità senza ricollegarla all’amore nei confronti dei bambini, che nel contesto delle società contemporanee occidentali è considerato “sacro” ed è visto come “un test della morale femminile”.

Così, l’associazione tra l’amore e la maternità viene istituzionalizzata e una “buona donna”, capace cioè di sentimenti buoni, è anche automaticamente una “buona madre”. Ovviamente, chi non adora i bambini non può che essere “cattiva”.

L’amore nei confronti dei bambini sembra uno di quei valori assoluti e intoccabili, che dev’essere sempre manifesto e totalizzante. Chi non è capace di questo amore è spesso preso dal senso di colpa che deriva dalla sensazione di inadeguatezza, dall’incapacità di aderire alla norma sociale che vuole la donna sempre e solo una buona madre.

Il senso di colpa secondo Donath è una sorta di “condizione necessaria per la preservazione dell’ordine sociale”: se non vuoi figli perché ti vuoi concentrare sulla carriera o perché sei terrorizzata dal parto o perché non vuoi essere responsabile di un’altra creatura, almeno sentiti in colpa. Questo perché il mito della maternità è una forma di mantenimento dello status quo, atta a dividere il mondo in maniera piuttosto superficiale nelle due categorie: buone madri piene d’amore contro donne cattive piene di senso di colpa.

L’istinto materno è la carta jolly, che la gente di solito sfodera per controbattere alla decisione logica e razionale di una donna childfree. L’istinto è, nella credenza comune, qualcosa di naturale e innato a cui, volenti o nolenti, non ci si può opporre.

Molti studi, a partire dal saggio del 1979 Is there such a thing as “maternal instinct”? di David Cutts, hanno posto in dubbio che l’istinto materno – o meglio quell’insieme di credenze e luoghi comuni associati alla maternità che viene impropriamente definito “istinto materno” – esista.

Non esiste nemmeno una definizione moderna di questo fenomeno, che è assente nelle enciclopedie, ma che possiamo trovare ancora nell’edizione del 1971 del dizionario Larousse, in cui viene definito “una tendenza primordiale che crea, in ogni donna normale, un desiderio di maternità e, una volta soddisfatto questo desiderio, spinge la donna a badare alla protezione fisica e morale dei figli”.

Tralasciando l’inciso che parla di “donne normali” e che ancora perpetra quella divisione manichea di cui si parlava sopra, il desiderio di maternità non è affatto una tendenza primordiale.

Secondo la sociologa Laura Kipnis, l’istinto materno è un costrutto sociale nato intorno all’epoca della Rivoluzione Industriale. Prima le donne avevano molti figli per motivi pratici ed economici: più figli equivalevano a più braccia per lavorare.

Il rapporto con loro era quanto di più diverso potesse esistere dalla classica famiglia felice. Spesso, nelle famiglie più abbienti, a poche ore dal parto i neonati venivano affidati alle balie e crescevano lontano dalle madri, che comunque tendevano a mantenere con loro un forte distacco emotivo.

Gli studiosi, in proposito, arrivano a parlare, in riferimento al XVIII secolo, di “mancanza di sentimento dell’infanzia”, una rassegnazione totale delle famiglie di fronte alla morte dei bambini, a causa dell’altissimo tasso di mortalità.

Con la svalutazione del valore economico dei figli, in conseguenza alla maggiore disponibilità di lavoro, e con la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili – uomini in fabbrica, donne in cucina – i figli cominciarono a diventare un peso e non più una risorsa, di cui si doveva occupare solo e unicamente chi restava in cucina, ovvero la madre.

Poiché smettere di procreare sembrava impossibile e assurdo, si optò per una “romanticizzazione” della maternità, di modo che le donne non fossero più obbligate a fare figli per necessità, ma per vocazione. Insomma, quando i figli non servivano più ad aumentare il patrimonio del nucleo famigliare, con il loro lavoro nelle famiglie più povere o con il matrimonio in quelle più ricche, l’affetto e l’amore della madre sembravano le uniche ragioni plausibili per la loro esistenza.

Ma se l’istinto materno non esiste, com’è che siamo in 7 miliardi su questo pianeta?

La risposta è molto semplice. La biologia ci ha insegnato che ogni essere vivente, vegetale o animale che sia, essere umano compreso, è spinto a trasmettere il proprio codice genetico. Questo tuttavia non riguarda esclusivamente gli individui femminili.

Da un punto di vista evolutivo, però, l’uomo si è differenziato dagli animali. Mark Elgar, professore di Biologia evolutiva all’Università di Melbourne, fa notare come il motore di tutto sia il desiderio sessuale e non un non meglio chiarito “istinto materno”. In una popolazione animale, una preferenza genetica che ripudi il sesso non può stabilirsi o mantenersi, perché gli individui sessualmente inattivi non possono conservarsi. Ma l’uomo, sfruttando le sue caratteristiche evolutive, ha trovato alcuni modi ingegnosi per continuare a fare sesso senza riprodursi. Tramite la contraccezione, gli uomini sono riusciti a scindere il sesso dalla riproduzione. Quindi, in termini di evoluzione biologica, una preferenza genetica per l’attività sessuale non può equivalere all’istinto materno. Se fosse il solo istinto di conservazione a guidarci, le persone childfree non sarebbero interessate al sesso. Non so voi, ma io lo sono abbastanza.

Non esiste nessun istinto materno, nel senso che non c’è nessuna “tendenza primordiale al desiderio di maternità”, come invece si sosteneva sul dizionario Larousse. Al massimo c’è un desiderio di riprodursi e un desiderio di trasmettere il proprio codice genetico, che però non riguarda solo le femmine, ma indistintamente tutti gli individui.

È comunque innegabile che moltissime persone, di fronte alla vista di un neonato, siano prese da sentimenti di tenerezza e di cura. Questo accade perché a entrare in gioco è un ormone di origine proteica, l’ossitocina, che promuove il legame tra adulto e cucciolo. Nel saggio Psicobiologia dello sviluppo, di Berardi e Pizzorusso, vengono illustrati alcuni esperimenti con i ratti che hanno dimostrato l’importanza di questo ormone: vedere un piccolo indifeso stimolerebbe la produzione di ossitocina nei topi adulti, anche nel caso in cui il cucciolo in questione non sia il proprio.

L’ossitocina è lo stesso ormone che viene prodotto durante il travaglio e che stimola la lattazione, ma viene prodotto anche dai maschi e più in generale ogni volta che si fa sesso. Questo, ovviamente, non significa che la presenza dell’ossitocina sia la prova dell’esistenza dell’istinto materno, come hanno titolato alcuni articoli riferendosi alla ricerca della NYU Skirball Institute of Biomolecular Medicine, che si è limitata a dimostrare quali aree del cervello sono coinvolte nel comportamento materno. L’ossitocina si attiva anche alla vista di un cucciolo di un’altra specie ed è il motivo per cui siamo tutti ossessionati dai gattini.

Insomma, ossitocina o no, l’istinto materno non è affatto qualcosa di innato: anche volendo ammettere che esista, non è detto che tutte le donne, senza eccezioni, lo debbano sentire. Più che un fatto biologico, è un costrutto sociale che ha origini storiche ben precise.

Simone de Beauvoir, ne Il secondo sessopubblicato nel 1949, ha dimostrato come i pregiudizi sociali e biologici legati alle donne abbiano contribuito a relegarle in una posizione secondaria. Questo perché non basta la maternità a spiegare la condizione femminile, bisogna necessariamente sommare a essa il contesto socio-economico-patriarcale in cui è stata inserita nella Storia.

Oggi la donna è libera di decidere molti aspetti della sua vita e di esercitare i suoi diritti civili, ma la maternità sembra ancora un tasto dolente. Chi sceglie di essere madre, chi non può esserlo e chi sceglie di non riprodursi è parimenti vittima del mito dell’istinto materno.

Le madri devono continuamente competere fra loro per dimostrare chi sia la migliore, la più brava a perseguire quell’istinto inesistente. Chi non può avere figli è continuamente frustrata dal senso di colpa per non aver potuto realizzare quel desiderio. Chi non vuole assolutamente avere figli si sentirà continuamente in dovere di dare spiegazioni.

Il desiderio di fare un figlio certamente esiste ed è una sensazione profonda, vera e bellissima, ma non è un desiderio esclusivamente femminile e non è legato a chissà quale caratteristica biologica, tanto che sembra che sempre più spesso siano gli uomini a voler mettere al mondo un bambino. Nessuna di noi si deve sentire in colpa nei confronti dell’istinto materno. Con buona pace del dizionario Larousse, madri o non madri, siamo tutte donne normali.

Piccoli slittamenti amorali

Da Hic Rhodus il 15 Luglio 2015 dc:

Piccoli slittamenti amorali

di Bezzicante

signore-delle-mosche

Gli uomini fanno il male come le api il miele (Golding)

Con un certa sofferenza personale devo esplicitare – prima di tutti a me stesso – questa consapevolezza che prende forma nella mia coscienza: l’impossibilità di perseguire una verità, se volete utilizzare subito categorie importanti, o anche solo l’impossibilità della linearità della condotta, quella della semplicità della conciliazione fra pensiero e azione. Noi – questo il succo della mia riflessione – non solo non pensiamo sempre le stesse cose, non professiamo sempre gli stessi valori, cambiandoli invece con impressionante velocità in base alle circostanze e convenienze ma, di più, riteniamo di difendere valori fondamentali che sono costantemente traditi dai nostri comportamenti. Siamo dei concentrati di contraddizione solitamente non rilevata, non riconosciuta. Vorrei allora provare a farvela notare per fare una sorta di esperimento esistenziale: vorrei segnalare dei casi esemplari di tale contraddizione; ammesso che la rileviate anche voi – non è detto – cosa ne pensate? Vi lascia indifferenti? Anticipo che lo scopo non è di infastidirvi o farvi rammaricare per le vostre contraddizioni; nelle conclusioni cercherò di recuperare il senso profondamente umano di questa schizofrenia dell’esistere.

Esempio n° 1 – In America un pedofilo viene sorpreso in azione dal padre di una giovanissima vittima, viene gonfiato di botte e lasciato esanime a terra; la polizia e il sistema giudiziario americano appoggiano il padre, che non viene perseguito per le gravissime lesioni, mentre il pedofilo viene condannato a 25 anni. Vi invito non tanto a leggere l’articolo ma i commenti sull’HuffPost. Una quantità di persone appoggiano il padre e pochissimi sostengono tesi contro la giustizia-fai-da-te. Voi cosa ne pensate? Io credo due cose contemporaneamente: credo che se fossi stato il padre avrei fatto la stessa cosa e credo che – non essendolo – devo condannare il padre e il sistema di giustizia americano, dove il corsivo su ‘devo’ significa che escludo dal giudizio la mia soggettività emotiva, il mio senso di partecipazione come padre, la mia identificazione nella vittima dell’abuso. Quando, in questi casi, i giustizialisti ti chiedono “vorrei vedere come la penseresti se fosse stato tuo figlio ad essere molestato” sbagliano, perché cercano di sottrarre il tuo pensiero dalla sede di distaccata razionalità, di equilibrio e di tentativo di giudizio generalizzabile (per quel che si può) per farti precipitare nel buco nero dell’identificazione passionale, della rabbia emotiva, della difesa primordiale del proprio territorio e della propria tribù. Lo scostamento, fuori da immagini figurate, è quello fra morale e amoralità. La morale, essendo un costrutto complesso di asserti, è ovviamente sempre inadeguata ai contesti, deve sempre cercare di modellarsi e rimodellarsi e quindi si presta a critiche, a incompletezze, ad errori. L’amoralità (e quell’a- privativo chiarisce bene) non è regole, non è asserti, non è costrutti logici ma la loro assenza. L’assenza è sempre equilibrio, mentre la presenza è sempre condannata al disequilibrio. Io probabilmente a parità di condizioni avrei gonfiato di botte il pedofilo, così come avrei sparato ai ladri intrufolatisi in casa, ma ciò che individualmente e violentemente avrei fatto come individuo è giustamente sanzionato dalla società.

D’altronde non siamo noi che condanniamo le giustizie sommarie degli altri? L’adultera lapidata in seguito a una sentenza di un qualche tribunale tribale, la donna linciata e bruciata dalla folla inferocita perché avrebbe distrutto pagine del Corano e poi, guardate, aggiungo per sovramercato gli infedeli sgozzati dai tagliagole Isis: il fatto che facciano orrore a noi, ma sembrino atti giusti e addirittura santi a loro, non vi fa pensare che solo una presunzione etnocentrica piuttosto ingenua vi permette di giudicare? Sia chiaro, su queste stesse pagine anch’io l’ho fatto: io condanno i barbari islamisti che bruciano, tagliano gole, lapidano eccetera, ma proprio per questo, per ritenere legittimo il mio atto di condanna, devo avere un comportamento completamente differente. La differenza non può essere tribale (loro sozzi primitivi, noi legittimi custodi di ciò che ci pare e piace) ma morale: una morale costruita nei secoli in Occidente basata su giustizia e tolleranza, morale fallace, come ho già detto, difficile da praticare ma necessariamente universale: non ci si fa giustizia da soli. L’altro tipico argomento che “tanto in Italia il pedofilo se la cavava con un anno di domiciliari mentre il padre violento sarebbe finito in galera e avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi in risarcimenti” (o altre critiche analoghe) non deve ingannarvi: questo genere di critiche afferisce al sistema giudiziario italiano, non alla morale. Che in Italia la giustizia sia un disastro non significa che allora ne approfitto per farmi giustizia da me. La giustizia da riformare è un problema politico. L’idea di una giustizia guidata da principi universali è una questione di etica. I due ambiti concettuali sono interconnessi ma separati.

la-morale-e-lanimale-L-Ytw5wmEsempio n° 2 – Senza bisogno di circostanziare nomi e cognomi, mettetene voi uno a caso, sono seriamente convinto che una percentuale di politici chiacchierati o addirittura indagati o condannati per corruzione siano partiti con onesta convinzione di far qualcosa di buono per il prossimo e si siano trovati invischiati in un meccanismo subdolo e poco identificabile all’inizio che li ha lentamente trascinati in un gorgo. Provate a immaginarvi potenti, con leve di comando nelle vostre mani, pronti a fare Il Bene Del Popolo. Avete le idee chiare, l’appoggio degli elettori, vi sostiene la stampa ma c’è un particolare: vi manca una manciata di voti in Parlamento. Un altro politico, non così di primo piano ma abbastanza credibilmente vicino alla vostra orbita vi dice che ci può pensare lui, quei pochi voti ve li può assicurare ma, certo, dovete ricambiargli il favore (una prebenda, un sottosegretariato, una particina in tv per l’amante…). Allora il dilemma che vi si pone è semplice:

  1. A) fare il bene del popolo facendo passare il provvedimento in cambio di un peccatuccio veniale, non illegale, politicamente non significativo

oppure

  1. B) non cedere di un millimetro, non macchiarsi della più piccola colpa, questa davvero trascurabile, ma rinunciare al bene del popolo oggi e – probabilmente – anche domani.

Mi sembra un bellissimo problema di etica pubblica: il bene di molti vale un piccolo “male” relativo, senza danneggiare nessuno, che neppure si saprà? Vediamo cosa succede se rispondete ‘Sì’ oppure ‘No’. Nel primo caso credo che siate fritti; cedere su una piccola e innocua cosa vi sottopone ad altre e maggiori pressioni, nonché a ricatti. Avete fatto un “favore”, non potete non farne un secondo, probabilmente più impegnativo e grave; avete ricevuto un vantaggio, ma ve ne serviranno altri; incomincia a esserci gente in giro che sa che non siete incorruttibili, che favorite il clientelismo, il nepotismo, lo scambio, la turbativa politica… Il piano inclinato è inizialmente inavvertibile ma presto diventa una china pericolosa, dove ogni azione che volete intraprendere viene sottoposta a trattative con i molteplici che si possono mettere di traverso. Ma se rispondete ‘No’ che razza di politici siete? Tutti Robespierre incorruttibili, capaci certo di grandi denunce ma di nessuna azione. Non contate nulla. Non servite. Tutti vi volteranno le spalle. Naturalmente ho ridotto all’essenziale il problema, spero che ne vogliate cogliere la sua rappresentazione esemplificativa. Qual è il corretto bilanciamento fra agire pagando un certo prezzo morale (nel senso di venire a patti con la propria etica, con i roboanti discorsi fatti nelle piazze) e non agire affatto perché qualunque azione ci sporca, ci può sporcare, deve scendere a compromessi?

etica3Esempio n° 3 – Tempo fa conobbi un importante esponente locale (di quale località non dirò) di un partito di sinistra (tacerò anche su quale sinistra fosse); era un capopopolo nato, guidava un partito che andava bene alle elezioni e aveva incarichi locali di governo, successi ottenuti ovviamente con le parole d’ordine tipiche di quell’area politica: giustizia, uguaglianza, fratellanza, lavoro etc. Quest’uomo di successo era ovviamente amato, o quantomeno stimato, da una discreta fetta di elettorato che gli riconosceva una leadership politica. Pochi di codesti sostenitori conosceva però un particolare privato nella vita di quest’uomo. Maltrattava la moglie. La picchiava. Quest’uomo che difendeva i diritti delle masse oppresse picchiava la moglie. Io credo che il gesto violento verso la donna sia intollerabile e spero la pensiate così anche voi, ma quello che intendo sottolineare è l’incongruenza apparente fra il ruolo sociale e il comportamento privato. Il picchiatore di donne io lo immagino rozzo, semi-analfabeta, manovale ubriacone… invece questo è laureato, colto, socialmente integrato. Gli stereotipi non funzionano principalmente perché tendono a collocare in classi distinte (i buoni e i cattivi, i probi e i picchiatori di donne…) mentre la realtà è indistinta, sfumata. Tutti i buoni hanno lati oscuri. Tutti i cattivi hanno lati amabili.

Tutte le verità sono parziali, tutti i mostri sono stati bambini, tutte le tragedie si sono compiute a partire da premesse nobili, tutti i potenti hanno pensato giusto il loro potere, tutti gli assassini ritengono in qualche modo giustificabile le loro azioni dato il contesto, date le condizioni, data l’infanzia infelice il padre severo la società ingiusta, così ingiusta! Ed eccoci arrivato sul bordo dell’orrido: siamo tutti colpevoli e quindi nessuno, in fondo, è colpevole? Tutti peccatori, tutti disponibili al delitto, tutti uguali quindi nelle nostre debolezze e quindi consoliamoci, teniamoci per mano, dai, il politico briccone, lo stupratore, il corrotto alla fine siamo noi. Je suis una canaille. No, non è questa la conclusione. La conclusione può partire dal riconoscimento della nostra debolezza per andare oltre, verso una dimensione morale più avanzata. Una persona priva di tensione positiva verso orizzonti morali sempre più integrati, inclusivi e aperti al mondo non serve alla società. Interrogarsi sull’orizzonte etico, sforzarsi di migliorare pur sapendo di cadere e sbagliare, questo è il senso del nostro posto nel mondo. Faccio (e sbaglio) cercando di far bene (per quel che posso capire), rammaricandomi del male e combattendolo, a partire da quello che inevitabilmente faccio e farò io. Io faccio il male. Ma non è che debba continuare, che non possa pentirmi, che non possa smettere. Vedo che anche tu fai il male. Non devo fingere di non vederlo, non devo necessariamente accettarlo, anche se posso comprenderlo.

Marx e l’omofobia

in e-mail il 24 Febbraio 2016 dc:

Marx e l’omofobia

È da poco trascorso (sotto silenzio) un anniversario storico estremamente importante: il 21 febbraio 1848 venne pubblicata a Londra la prima edizione del “Manifesto del Partito Comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels.

Attuale più che mai. Oggi, in molti invocano il ritorno della Vecchia Talpa: “E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: ben scavato, vecchia talpa!”. Colgo l’occasione per avanzare alcune riflessioni personali.

Il pensiero di Marx non esprime un dogma inviolabile, il vecchio barbuto di Treviri non aveva mica ragione su tutto. Altrimenti si rischia di farne un feticcio, arrecando un grave torto allo stesso Karl. Come fanno coloro che usano Marx come più gli fa comodo. Mi spiego meglio. Ad esempio, risulta che Marx fosse omofobo. Ma è normale. Era una persona dell’Ottocento.

In oltre un secolo e mezzo, la cosiddetta “morale” (anche quella borghese) è profondamente mutata. La concezione morale è uno degli aspetti più relativi, soggettivi e mutevoli di una società. La morale cambia secondo il costume (o malcostume) del tempo. Oggi i gay non si possono più additare con disprezzo o mettere alla berlina, come faceva (giusto per indicare un esempio) il PCI negli anni Cinquanta, con atteggiamenti di bigottismo ipocrita. Siffatto moralismo di segno vetero-stalinista appare fuori tempo massimo. In sostanza, temo convenga essere relativisti, anziché moralisti.

A dirla tutta, gli omofobi sono omosessuali repressi o latenti, secondo una teoria di Freud. Un dato è certo: l’omosessualità è una questione resa oramai neutrale, come il femminismo, da parte di un sistema che ingloba ed assimila tutto, omologa ogni istanza, disinnescando il carattere eversivo, di classe, di vertenze che potrebbero detonare fermenti rivoluzionari.

Inoltre, sfatiamo una favola metropolitana secondo cui Adolf Hitler sarebbe stato un omofilo ed avrebbe esaltato l’omosessualità. Basti vedere chi furono sterminati nei lager nazisti, oltre ad ebrei, slavi, zingari, comunisti, anarchici, disabili. Si potrebbe insistere con richiami storici alle antiche civiltà, in particolare al mondo greco-romano, laddove l’omosessualità e la bisessualità erano comportamenti non solo ammessi e tollerati dalla “morale” del tempo, bensì talmente diffusi da costituire la “normalità”. Non a caso, un novero assai vasto di celebri figure dell’antichità classica erano notoriamente gay o bisessuali: Socrate, Giulio Cesare, Achille e Patroclo, Alessandro Magno, gli imperatori Nerone e Adriano e numerosi altri ancora.

Mi pare che taluni abbiano le idee confuse. Accostare l’omosessualità ed il femminismo all’ideologia della morte e del decadentismo borghese non ha senso. Anche l’aborto, il diritto inalienabile ad abortire, non è comparabile ad un’ideologia decadente. Al contrario, si tratta di una conquista di civiltà e di progresso. Il controllo delle nascite è una politica estremamente sensata e pragmatica. Un semi-Stato socialista, ovverossia proletario, avrebbe il dovere di pianificare una seria politica rivolta al controllo demografico.

Inoltre, un buon comunista si schiera sempre dalla parte di chi soffre una discriminazione sociale. Come affermava “Che” Guevara. E l’omofobia indica precisamente una forma di oppressione o discriminazione sociale. Per cui vorrei spendere qualche parola a proposito del vetero-moralismo bigotto del PCI, rammentando l’ostracismo e l’ostilità che soffrì Pasolini, disprezzato ed emarginato a destra e manca. La morale è un dato relativo e mutevole, che varia secondo i costumi del momento. Marx ed Engels non avevano ragione su tutto. Altrimenti si corre il rischio di essere dogmatici.

Per contro, Rosa Luxemburg era assai più all’avanguardia dei succitati vecchietti e dello stesso Lenin. Né bisogna dimenticare Clara Zetkin, amica intima di Rosa. Due straordinarie figure femminili che forniscono dei fulgidi esempi di intelligenza, coraggio, coerenza, integrità morale ed intellettuale.

Lucio Garofalo

 

Chiudete le scuole son come galere!

CHIUDETE LE SCUOLE SON COME GALERE! – la Repubblica.it. di Giovanni Papini dall’archivio de la Repubblica 13 Giugno 1992 dc

La via francese al fine vita

La via francese al fine vita. su Lucidamente 2 Gennaio 2015 dc