Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

11 Marzo 2023 dc, da Hic Rhodus, articolo del 12 Dicembre 2022 dc:

Possibile che nessuno legga “Hic Rhodus”?

di Ottonieri

In questi giorni, gli appassionati di tecnologia (e non solo loro) sono eccitatissimi a causa di ChatGPT. Basta cercare un po’ per trovare decine di articoli online, e anche i maggiori media generalisti come il New York Times gli hanno dedicato numerosi articoli.

Di cosa si tratta? ChatGPT è un chatbot, ossia un sistema di intelligenza artificiale che utilizza il linguaggio naturale per comunicare con i suoi utenti, ed è in grado di sostenere conversazioni sensate in molte lingue, incluso l’italiano.

A differenza dei normali chatbot che ormai incontriamo sui portali di quasi tutte le aziende, ChatGPT ha sia un’eccellente competenza linguistica sia un “addestramento” basato su un’enorme quantità di dati, che per essere elaborati hanno richiesto grandi risorse di calcolo.

Non è un caso che i più sofisticati sistemi di intelligenza artificiale orientati all’uso del normale linguaggio umano siano realizzati dalle stesse grandi aziende multinazionali che forniscono servizi elaborativi su scala mondiale, come Google, Microsoft, Meta/Facebook, eccetera. OpenAI, la società che ha realizzato ChatGPT, a suo tempo era stata fondata da diversi investitori, tra cui Elon Musk, come una no-profit, ma nel corso del tempo ha intrapreso anche attività commerciali (Musk ne ha abbandonato il consiglio d’amministrazione alcuni anni fa, mentre tra i maggiori finanziatori oggi c’è Microsoft).

ChatGPT è insomma semplicemente l’ultimo e forse più perfezionato esempio di sistemi di intelligenza artificiale dotati di capacità “generaliste” e di una cultura enciclopedica anche se, come OpenAI tiene a precisare, non infallibile e non aggiornata agli ultimi mesi.

Per il momento, usarlo richiede solo una registrazione gratuita, e chiunque può fare una chiacchierata con “lui” visitando il sito https://chat.openai.com/. Io l’ho fatto, ed è certamente interessante, ma l’hanno fatto anche centinaia di migliaia di altre persone, che hanno chiesto a ChatGPT le cose più disparate, come si può leggere in decine di articoli e post che riportano quelle conversazioni, tanto che ChatGPT è diventato uno degli argomenti più discussi su Internet negli ultimi giorni.

Il tono ricorrente di questi commenti è la sorpresa. ChatGPT è in grado non solo di rispondere a domande complesse o di intrattenere conversazioni sugli argomenti più vari, ma può produrre “contenuti” apparentemente originali e molto diversi tra loro, come compiti e tesine per la scuola, software, brani musicali, e poesie, come il brano che segue e che gli ho chiesto personalmente di dedicare alla luna:

Luna, splendida e pallida,

che in cielo brilla di luce propria,

attraverso le nuvole e le tempeste,

sei sempre lì, a brillare serena.

Luna, sorgi al tramonto,

e con il tuo chiarore illumi la notte,

mentre la terra riposa.

Certo, non è un granché, e contiene anche un errore (l’italiano non è sicuramente la lingua che ChatGPT “conosce” meglio), ma non è il caso di essere troppo esigenti!

Oltre alla sorpresa, molti articoli su ChatGPT manifestano preoccupazione. Sembra che improvvisamente a tanti osservatori presumibilmente competenti sia venuto in mente che i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT, ossia “generalisti”, possano nel prossimo futuro sostituire o rendere inutile il lavoro di moltissime persone, in attività intellettuali, soprattutto quelle che comportano la raccolta e l’organizzazione di informazioni. Insegnanti, giornalisti, avvocati, copywriter… improvvisamente, sembra che sia accaduto chissà cosa.

La verità, purtroppo, è che ChatGPT è informatissimo, ma la maggioranza delle persone, anche quelle che dovrebbero essere informate per dovere professionale, no. Sorprendersi delle capacità di un chatbot, sia pure sofisticatissimo, e trarne previsioni più o meno pertinenti è segno che finora di quanto sta accadendo non si è capito nulla, e quindi non si ha nemmeno idea di quello che, inevitabilmente, accadrà.

Non a caso, su Hic Rhodus sia Claudio Bezzi che io, partendo dai rispettivi punti di vista e competenze, scriviamo da anni che l’impatto sociale dei sistemi di General Artificial Intelligence sarà enorme, e che è assolutamente indispensabile prenderne atto e avviare immediatamente iniziative politiche difficili e complesse, cosa che in realtà non sta affatto accadendo.

ChatGPT, per interessante che sia, non rappresenta che una tappa prevedibilissima di questo percorso rivoluzionario, e la sua esistenza non modifica in nulla le previsioni che è ragionevole fare, se non agli occhi di chi previsioni non ne sa fare. D’altronde, si può dire che chi oggi si sorprende e si allarma almeno dimostra di seguire la realtà, e infatti possiamo osservare che la nostra politica appare completamente ignara di questi temi.

Quindi, a beneficio dei molti che evidentemente non hanno seguito l’avanzata delle tecnologie di Intelligenza Artificiale, e neanche, molto più modestamente, quanto qui ne abbiamo scritto negli ultimi anni, ricapitoliamo quello che certamente accadrà, quello che probabilmente accadrà, e quello che dovrebbe assolutamente accadere ma probabilmente non accadrà.

Certamente, i sistemi di Intelligenza Artificiale diventeranno sempre più sofisticati e sempre più in grado di svolgere, come e presto molto meglio degli esseri umani, tutte le principali attività lavorative che comportino in qualsiasi forma l’acquisizione, l’interpretazione, l’elaborazione e l’impiego di dati e informazioni.

Certamente, si realizzeranno sempre nuovi sistemi di questo genere, e tra qualche mese ne sarà presentato qualcuno più potente e versatile di ChatGPT, ammesso che non esista già. Altrettanto certamente i più potenti e sofisticati di questi sistemi non saranno posseduti né dai singoli cittadini, né dalle aziende, neanche le più grandi, ma saranno centralizzati e offerti sotto forma di servizi “a consumo” da pochissimi colossi dell’economia digitale, il cui potere economico e politico crescerà ulteriormente.

Probabilmente, l’effetto netto di tutto ciò sull’occupazione sarà una pesante perdita di posti di lavoro, e un’ancora più pesante obsolescenza delle competenze di chi lavora oggi. Il mantra degli economisti che dicono che la perdita di posti tradizionali sarà compensata dalla creazione di “nuovi lavori” è probabilmente privo di fondamento, perché a essere sostituiti saranno anche coloro che oggi sviluppano o gestiscono sistemi informatici, che in prospettiva saranno tutti centralizzati e offerti sul cloud. E spariranno moltissimi posti di lavoro che consideriamo “intellettuali”, come abbiamo visto, e che non saranno compensati da nulla.

La conseguenza inevitabile, e quindi altrettanto probabile, sarà lo svuotamento del sistema fiscale e di welfare che oggi è basato pressoché integralmente sul lavoro. Le casse degli enti previdenziali non riceveranno contributi dai robot, e il gettito delle tasse sul reddito delle persone fisiche crollerà, perché ci ritroveremo in un mondo di “PIL senza lavoro”. L’intero apparato statale diventerà insostenibile, a meno che…

Improbabilmente, i politici, la classe dirigente, l’opinione pubblica del nostro e degli altri Paesi occidentali capiscano dove stiamo andando a parare e decidano un intervento coerente, coordinato e lungimirante per ridisegnare completamente il sistema fiscale e contributivo, affrontando ovviamente l’ostilità dei grandi service provider online, che, come Twitter, Meta/Facebook, Google e persino Amazon, non a caso si stanno liberando di personale “in eccesso” (altro che “nuovi posti di lavoro nella tecnologia”).

Lo scenario probabile che descrivevo prima, di alcuni colossi digitali che forniscono alle aziende di tutto il mondo servizi sostitutivi della manodopera umana, richiede una risposta improbabile, ossia leggi che sostituiscano l’attuale gettito fiscale e contributivo basato sul lavoro umano con altre fonti, ad esempio eliminando le tasse sul reddito e i contributi previdenziali e sostituendoli con una megatassa sulla produzione di valore aggiunto (ma io non sono un tecnico, e non vorrei dover essere io a pensare l’improbabile soluzione di cui sto parlando), finanziando anche una forma di reddito universale di cittadinanza per chi non lavorerà, e saranno molti.

Tutto questo è chiaro da anni, ma non abbiamo anni perché chi ci governa se ne renda conto e decida di occuparsene. Se su Hic Rhodus, che non è un think tank e che non è composto di addetti ai lavori, scriviamo da anni articoli con titoli come I robot ci manderanno tuttì in pensione? , di quasi sei anni fa, vuol dire che il problema è evidente.

Proprio per questo è sconfortante assistere, da un lato, alla “sorpresa” di giornalisti e osservatori professionali, e, dall’altro, alla totale cecità dei nostri politici, che anzi, negli stessi giorni, stanno lavorando su una manovra finanziaria e progettando provvedimenti che dimostrano una completa incomprensione della realtà. Quando leggiamo che il governo vuole togliere il reddito di cittadinanza a “chi può lavorare”, è chiaro che non stanno capendo proprio nulla. Possibile che nessuno tra questi giornalisti, esperti, politici, si informi su quello che succede? Evidentemente sì.

In conclusione, per quanto interessante e promettente, ChatGPT non è “sorprendente”, sarà presto superato da altri sistemi analoghi, che nell’arco di pochi anni saranno in grado, per esempio, di scrivere i contenuti di qualsiasi rivista online non solo come Hic Rhodus ma anche come quelle “professionali”, creare illustrazioni digitali migliori di quelle di artisti umani, ricercare precedenti legali, e mille altre attività intellettuali e anche “creative”.

Noi esseri umani possiamo far finta di niente e occuparci di “quota 103”, oppure cercare di progettare un mondo in cui il nostro benessere non dipenda più dalla possibilità di svolgere un lavoro, per la buona ragione che la maggioranza delle persone un lavoro non l’avrà. Sarebbe bello che i nostri governanti si preoccupassero di ragionare su questo, che creassero gruppi di studio, che a Roma e a Bruxelles mettessero la disoccupazione tecnologica al centro delle strategie sul welfare. O almeno, sarebbe bello che leggessero Hic Rhodus, sarebbe già un passo avanti! O, forse, dobbiamo sperare che ci leggano i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT?

Arriva la Grande Depressione?

In e-mail il 17 Luglio 2021 dc:

Arriva la Grande Depressione?

di Visconte Grisi

Cominciamo con alcune notizie sulla pandemia riportate sulla stampa. Il 20 maggio Adnkronos riporta la proposta avanzata dal presidente e amministratore delegato Pfizer Albert Bourla, di rinnovare anno dopo anno il vaccino contro il Covid-19, come per l’influenza stagionale. Gli fa eco Ugur Sahin, co-fondatore e amministratore delegato di BioNTech: “Ci sono prove crescenti che il Covid-19 continuerà a rappresentare una sfida per la salute pubblica per anni”[1].

Al netto degli evidenti interessi economici della multinazionale del farmaco, che comunque continua a fare il bello e il cattivo tempo sulla fornitura dei vaccini, non è improbabile che la previsione suddetta possa rivelarsi realistica, vista la proliferazione delle varianti del virus, di cui quella Delta si diffonde al momento attuale con grande rapidità. Del resto anche il vaccino per l’influenza stagionale deve essere ripetuto ogni anno per il manifestarsi di varianti del virus influenzale. E poi, anche al di là delle varianti del virus, non risulta che, nell’anno trascorso, si sia fatto qualcosa per rimuovere le cause della pandemia, e non è possibile che ciò avvenga in futuro rimanendo entro i limiti del modo di produzione capitalistico teso, come si sa, alla ricerca spasmodica di profitti in ogni angolo della Terra, cosa che ha portato alla attuale devastazione ambientale.

Per il momento comunque si parla già di una terza dose di vaccino da praticare in autunno quando, guarda caso, si ridurrà l’azione dei raggi solari Uva e Uvb che “nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2”, come ha dimostrato uno studio italiano pubblicato recentemente[2].

Esiste cioè la possibilità che la situazione attuale evolva nella trasformazione, detto in termini medici, da una malattia epidemica a una endemica, di cui ci sono vari esempi nella storia della medicina, ovvero in quella che qualcuno ha definito una pandemia permanente[3].

Tanto per continuare nella simulazione di una situazione di guerra, che ha caratterizzato la retorica mediatica fin dall’inizio della pandemia, si potrebbe realizzare il passaggio a una pandemia permanente, come surrogato della guerra permanente che coinvolge ora i Paesi a più avanzato sviluppo capitalistico. Ma quali potranno essere le conseguenze a livello economico e politico di questa “pandemia permanente”? Naturalmente non possediamo una sfera di cristallo per poter predire il futuro, perciò dobbiamo limitarci ad alcune previsioni, il più possibile realistiche, anche per poter orientare le nostre azioni in un prossimo futuro.

L’ipotesi più probabile dunque è che la pandemia permanente possa costituire l’innesco di una grande e duratura recessione con tutte le relative conseguenze di disoccupazione di massa e impoverimento delle classi lavoratrici. Qualcosa di simile alla “stagnazione secolare”, il concetto rispolverato nel 2015 dall’economista Larry Summers, ex segretario al Tesoro USA all’epoca di Bill Clinton[4].

Per completare il quadro manca solo un ulteriore crollo finanziario, dopo quello del 2008, ma le premesse ci sono tutte visto il mastodontico indebitamento sia pubblico che, soprattutto, privato. Il riferimento naturalmente è agli anni 30 del secolo scorso, ma questa volta il ricorso a una terza guerra mondiale per risolvere la crisi è reso molto problematico dall’entità delle distruzioni che un tale evento comporterebbe.

Da molte parti quindi si invoca il ritorno a politiche neokeynesiane di “sostegno della domanda” attraverso ingenti opere pubbliche finanziate in deficit, ovvero all’emissione di moneta da parte delle banche centrali per sostenere gli investimenti. Questo è in fondo il significato del Recovery Fund e del PNRR del governo Draghi. Ma ormai è evidente che l’emissione di moneta in deficit da parte dello Stato non si traduce immediatamente in investimenti produttivi e in nuova occupazione. “La questione più importante, tuttavia, è ciò che governa un’economia capitalista, ossia è la profittabilità degli investimenti dei capitalisti che guida la crescita e l’occupazione, non le dimensioni del deficit pubblico”[5].

A quanto già detto è necessario aggiungere un altro elemento e cioè il vistoso aumento di prezzo delle materie prime. Quando parliamo oggi di materie prime non intendiamo tanto il petrolio, il gas naturale o il carbone, di cui peraltro esiste oggi nel mondo una grande sovrapproduzione, quanto di alcune materie prime necessarie alla cosiddetta transizione green e a quella digitale.

Parliamo di rame, litio (batterie), silicio (microchip), cobalto (tecnologie digitali), terre rare (magneti permanenti), nichel, stagno (microsaldature), zinco. Alcuni esempi: in appena un anno lo stagno ha registrato un incremento del 133%, il prezzo del rame è aumentato del 115%, il rodio, una “terra rara” utilizzata per collegamenti elettrici e marmitte catalitiche, più 447%, il neodimio (super magneti per i sistemi di illuminazione e l’industria plastica) più 74%[6]. A questi vistosi aumenti concorrono diverse cause: dalle difficoltà di estrazione che comportano enormi devastazioni ambientali con l’utilizzo anche di lavoro minorile in Congo e altrove, all’aumento a dismisura dei costi di trasporto, per finire con le immancabili speculazioni finanziarie sulle materie prime e sui titoli derivati a esse legati. Questa combinazione fra stagnazione e inflazione potrebbe ricordare la grande crisi degli anni 70, dopo la famosa “crisi petrolifera” del 73, quando, per descrivere la nuova situazione economica venne coniato il termine, poi diventato corrente, di “stagflazione”.

I politici e gli industriali ostentano una incrollabile fiducia nella “crescita” ma in realtà nessuno sa esattamente cosa fare per favorire una improbabile “ripresa”, i politici ne traggono naturalmente motivi per giustificare il loro arricchimento personale. La spettacolarizzazione della politica, già annunciata dai situazionisti, cresce continuamente in maniera direttamente proporzionale alla sua impotenza[7].

L’indefinito periodo di stagnazione, in cui ci troviamo da 40 anni, può subire inaspettate e improvvise accelerazioni con un aggravarsi della disgregazione sociale. La rivolta di per sé non è sufficiente per opporsi, ma dovrà coinvolgere i settori produttivi della società. Il modello di disgregazione, in fondo, potrebbe portare a conseguenze molto gravi: disfunzionalità totale del sistema, usura della struttura materiale della produzione e logoramento delle risorse produttive della società che del resto già si manifestano nelle forme più svariate (black out energetici, disastri ferroviari, incapacità di risposta a catastrofi naturali ecc.), fino ad arrivare ad un punto in cui lo stesso valore d’uso delle merci viene posto in discussione.

È meglio precisare subito che parlare di declino del capitalismo non ha niente a che vedere con la teoria del crollo, corrente nella III internazionale.

Quella era una cattiva teoria che non teneva conto del fatto che, nelle crisi cicliche di sovraccumulazione, il meccanismo stesso di risoluzione della crisi poneva le basi per la ripresa dell’accumulazione, mediante una distruzione accelerata di capitale. Il fatto è che questo meccanismo sembra non funzionare più da trent’anni a questa parte, ma questo non produce un crollo, ma l’avvio di una fase di declino più o meno lenta, con le sue possibili accelerazioni, come quella oggi all’opera a causa della pandemia. Abbiamo a che fare di fatto con la decadenza storica di un modo di produzione e quindi con processi di involuzione di lungo periodo.

Gli scenari futuri includono queste emergenze:
– crescita esponenziale dell’indebitamento sia pubblico che privato che naturalmente sarà ripagato dai lavoratori, mediante riduzione dei salari, nuove tasse e tagli alla spesa pubblica;
– i grandi gruppi finanziari troveranno il modo di incrementare la loro ricchezza e aumenterà il divario fra l’ 1% e il 99%;
– le grandi multinazionali si concentreranno ancora di più per aumentare i loro profitti e ciò provocherà il fallimento di tante piccole e  medie imprese con il conseguente aumento esponenziale della disoccupazione;
– verranno messe in cantiere opere pubbliche distruttive per l’ambiente, come la TAV o il TAP;
– si imporranno forme di governo autoritarie e decisioniste e aumenterà la militarizzazione del territorio e della società;
– aumenterà la produzione di armi e la produzione per i consumi di lusso, dalle Ferrari ai Rolex agli yacht. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica , con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche. E poi qualche capitalista deve realizzare i suoi profitti, anche se la produzione di armi e quella di lusso in generale costituiscono un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale.
– riprenderanno fiato le tendenze “sovraniste”, anche se è ormai difficile rimettere in discussione la divisione internazionale del lavoro che si è affermata negli ultimi decenni.

Un’ultima annotazione per quanto riguarda le piccole e medie imprese. L’Unione Europea ha emesso una direttiva che, a partire dal 3 luglio 2021, vieta la produzione in plastica, anche biodegradabile, di posate, piatti, cannucce, contenitori per alimenti e quant’altro, per cercare di evitare il formarsi negli oceani di isole di materiale plastico, come già avviene nell’Oceano Pacifico e altrove. Ora si da il caso che l’Italia produce il 66% di tutta la plastica biodegradabile d’Europa. “Le aziende coinvolte sono 280 aziende, con 2780 addetti, e un fatturato annuo di 815 milioni di euro[8]. Una media quindi di 10 addetti per ogni azienda!! Si teme naturalmente una massiccia perdita di posti di lavoro nel settore. O ci sarà forse una delocalizzazione al di fuori della UE?

Infatti, mentre scrivevo queste note, è arrivata la notizia della chiusura della Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto (MB). L’azienda, che chiude dopo 108 anni di storia, produceva cerchioni per i camion Volvo e Iveco e per le moto Harley-Davidson. I 152 operai dipendenti sono stati avvisati della chiusura con una email il lunedì mattina, quando però il sabato prima avevano effettuato il lavoro straordinario! Il fatto è che i principali concorrenti di Gianetti, come Maxion e Accuride/Mefro hanno investito in Paesi come Turchia, Russia e Cina, dove il costo del lavoro è molto più basso[9].

Naturalmente da subito gli operai hanno fatto dei picchetti davanti alla fabbrica per impedire che vengano portati via i macchinari. L’avvio della procedura di licenziamento è la prima nell’Italia dell’era Draghi, dopo la fine del blocco per le grandi imprese, nonostante l’accordo firmato in precedenza tra governo, sindacati concertativi e associazioni delle imprese, che prevedeva l’utilizzo della CIG prima di licenziare. A Ceriano Laghetto, invece, si è passati subito ai licenziamenti.

Pochi giorni dopo la stessa sorte è toccata, e con le stesse modalità, ai 422 operai della GKN di Campi Bisenzio (Firenze), una storica fabbrica di componentistica auto. “La GKN è una delle fabbriche più sindacalizzate d’Italia, con gli operai in maggioranza schierati con la opposizione di classe in FIOM, che negli anni hanno ottenuto trattamenti di miglior favore rispetto ai contratti collettivi peggiorativi firmati da Fim, Fiom e Uilm”[10].

È difficile quindi non pensare che i licenziamenti siano un tentativo da parte padronale di eliminare operai combattivi e non disponibili ad accettare supinamente la flessibilità del lavoro richiesta da una eventuale ristrutturazione sul modello dell’industria 4.0.

La Grande Depressione è già cominciata?

[1] https://notizie.virgilio.it/covid-vaccino-richiamo-annuale-proposta-pfizer-1482313.

[2] https://www.dottnet.it/articolo/32527673/studio-italiano-così-il-sole-distrugge-il-covid.

[3] https://pungolorosso.wordpress.com/2021/02/22/andiamo-verso-una-pandemia-permanente-neil-faulkner-the-ecologist/.

[4] Enrico Marro, Ecco cos’è la stagnazione secolare e perché ci farà del male, «Il Sole 24 Ore», 11/03/2016.

[5] Vedi Michael Roberts, La teoria della moneta moderna – in folio.asterios 2020.

[6] Milena Gabanelli e Rita Querzè, Allarme materie prime: le ragioni non dette, «Corriere della Sera», 7 giugno 2021.

[7] A questo proposito vedi anche: Alessandro Dal Lago, Riflessioni sulla pandemia, «Aut Aut» 389:

“Quello che la diffusione del Covid-19 ha sicuramente insegnato, a partire dai primi mesi del 2020, è l’impotenza dei decisori e dei loro consiglieri. Indipendentemente dal fatto che alcuni governi abbiano minimizzato l’impatto dell’epidemia ( Stati Uniti, Brasile, Inghilterra, ecc. ) e altri abbiano assunto un atteggiamento in qualche misura autoritario e pedagogico ( come il governo francese e quello italiano, che ha persino valutato la possibilità di vietare riunioni familiari…), la verità è che nessun governo è in grado di controllare la vita sociale”

“Al di là dell’apparenza di un autoritarismo paternalistico e pastorale che starebbe limitando le nostre libertà fondamentali il potere in occidente si sta dimostrando fragile e per lo più inetto. I divieti di assembramento e di circolazione adottati un po’ dappertutto tra proteste e focolai di ribellione sembrano più mosse disperate che non prove di un futuro stato autoritario”.

[8] Domenico Affinito e Milena Gabanelli, Plastica monouso addio. Anche se biodegradabile, «Corriere della Sera», 21 giugno 2021.

[9]https://www.huffingtonpost.it/entry/152-licenziamenti-alla-gianetti-laccordo-governo-parti-sociali-e-gia-superato_it_60e1cbfde4b068186f506103?ncid=other_whatsapp_catgqis0hqm&utm_campaign=share_whatsapp.

[10] Tratto da un volantino del Coordinamento Lavoratori/Lavoratrici Autoconvocati (C.L.A.) per l’unità della classe.

Contro il lavoro

La prefazione a Contro il lavoro, pubblicato nel 2011 dc da Elèuthera, di Andrea Staid, da me inserito il 29 Giugno 2021 dc. Lo stesso testo è stato da me inserito nella pagina Manifesto contro il lavoro

Contro il lavoro

In fondo, […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.
Friedrich Nietzsche, “Aurora”, 1881

Quando conosci una persona, «che lavoro fai?» è solitamente la seconda domanda dopo «come ti chiami?». Ognuno di noi ha un lavoro, però è difficile spiegare cosa sia.

È un qualcosa che si dovrebbe avere voglia di fare, ma per la maggior parte dei lavoratori questa voglia non c’è.

Avere un lavoro significa fare sempre la stessa identica cosa, fare una cosa uguale o simile tutti i giorni, per decine di anni. E la si fa per ottenere un salario, non perché se ne abbia realmente voglia o la si consideri particolarmente utile. La facciamo perché abbiamo bisogno di reddito.

Dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro, si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti, ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario.

Il lavoro impedisce l’invenzione e la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse e di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.

La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti, la sfacciata richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine deciso da altri non è sempre stata così interiorizzata come lo è oggi.

Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini, letteralmente a forza di torture, al servizio incondizionato dell’idolo «lavoro».

La maggior parte degli uomini non si è dedicata spontaneamente a una produzione destinata a mercati anonimi, e dunque a una più generale economia monetaria. Lo ha fatto solo perché vi è stata costretta dall’avidità degli Stati assolutistici, che hanno monetizzato le tasse aumentandole contemporaneamente in maniera esorbitante.

Non per se stessa la maggior parte degli uomini ha dovuto «guadagnare soldi», ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia.

Così, e non diversamente, si è affermato nel mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale e quindi del lavoro. Con la formazione degli Stati moderni, gli amministratori del capitalismo finanziario hanno cominciato a trasformare gli esseri umani nella materia prima di una macchina sociale necessaria per convertire il lavoro in denaro. Il modus vivendi tradizionale delle popolazioni è stato così distrutto: non perché queste popolazioni si siano spontaneamente e autonomamente «sviluppate» in tal senso, come ci vogliono far credere, ma perché sono diventate il materiale umano che serve a far funzionare la macchina della valorizzazione ormai messa in moto.

I contadini sono stati scacciati con la forza delle armi dai loro campi per far posto alle greggi per i lanifici. Antichi diritti, come quello di cacciare, pescare e raccogliere legna nei boschi, o quello dei terreni comuni, sono stati aboliti.

Ma anche questa trasformazione graduale dei propri sudditi nella materia prima dell’idolo «lavoro», creatore di denaro, non è bastata agli Stati assolutistici, che hanno esteso le loro pretese anche ad altri continenti.

La colonizzazione interna dell’Europa è andata di pari passo con quella esterna, inizialmente nelle due Americhe e in alcune regioni dell’Africa.
Spedizioni di rapina, distruzione e sterminio, fino ad allora senza precedenti, si scagliano con violenza sui nuovi mondi appena «scoperti», tanto più che le vittime locali non sono neppure considerate come esseri umani.

Per le potenze europee, divoratrici di uomini, le culture soggiogate, in questi albori della società del lavoro, sono infatti composte da selvaggi e cannibali. E così si sentono legittimate a sterminarli o a renderli schiavi a milioni.

La vera e propria schiavitù dell’economia coloniale, basata sulle piantagioni e sullo sfruttamento delle materie prime, che supera nelle sue dimensioni perfino l’utilizzazione di schiavi nell’antichità, appartiene ai crimini sui quali è fondato il sistema produttore di merci.
Qui, per la prima volta, è praticato in grande stile «l’annientamento per mezzo del lavoro». Ed è questa la seconda fondazione della società del lavoro.

L’uomo bianco, già segnato dall’autodisciplina, può ora sfogare l’odio per se stesso e il suo complesso di inferiorità sui «selvaggi»

Le società contro il lavoro

Chi sono questi «selvaggi» e soprattutto come gestiscono l’economia nelle loro società? È interessante indagare, con l’aiuto di ricerche etnografiche, cosa sia il lavoro nelle «culture altre», in quelle società che in alcune aree geografiche del globo resistono ancora oggi alla civilizzazione occidentale.

Non sono società immobili, ma culture in transito che attraverso l’incontro e lo scontro con la società occidentale hanno adattato, modificato, ibridato i loro modi diversi di organizzarsi in comunità.

Queste società, lungi dall’esprimere esclusivamente fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti. Sono gli incontri fra differenti culture, le migrazioni e le trasformazioni storiche a modellare performance culturali che, al pari delle società, non sono mai prodotti immutabili, anzi si collocano in cantieri sempre aperti e in transiti mai completamente compiuti.

Mi sembra qui opportuno sfatare il mito che nelle «società primitive» vige un’economia di sussistenza che a fatica riesce ad assicurare un minimo per la sopravvivenza della società.

Troppo spesso nei testi accademici si parla di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine, la sopravvivenza del gruppo. Ci viene così proposta l’immagine del «selvaggio» come di un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall’angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere.

A partire dai lavori sul campo che studiano gli aborigeni australiani della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Sahlins, nel suo L’economia dell’età della pietra, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che, lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi supposti selvaggi dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, e spesso non più di tre-quattro ore.

Una produzione oltretutto interrotta da frequenti riposi e che non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo, tanto che l’apporto dei bambini e dei giovani a questa attività economica è quasi nullo.

Gli studi etnologici sugli attuali cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di 3-5 ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di banca notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di 21-35 ore.

Un interessante raffronto è anche proposto da recenti studi sui costi lavorativi tra gli agricoltori di tipo neolitico. Gli Hanunoo, per esempio, donne e uomini, dedicano in media 1.200 ore annue alla coltura itinerante, cioè a dire una media di 3 ore e 20 minuti al giorno.

È un vero e proprio mito quello del selvaggio condannato a un’esistenza quasi animale. Dall’analisi di Sahlins, l’economia dei primitivi non solo non risulta come un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza.

È la nostra società contemporanea quella delle carestie e della povertà diffusa su larga scala. Da un terzo a metà dell’umanità, si dice, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. Questa è l’epoca della fame senza precedenti.

Oggigiorno, nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione. Secondo Pierre Clastres la società primitiva è una struttura che funziona sempre al di sotto delle proprie possibilità e che potrebbe, se lo volesse, produrre rapidamente un surplus. Se questo non accade, è perché le società primitive non lo vogliono.

Aborigeni australiani e Boscimani, raggiunto l’obiettivo alimentare che si erano proposti, cessano di cacciare e raccogliere, poiché sanno che le riserve alimentari sono inglobate in permanenza nella natura.

Sempre Sahlins demistifica, nel suo testo, quel pensiero che assume il produttivismo contemporaneo come la misura di tutte le cose.

Nelle società primitive, il processo lavorativo è sensibile a interferenze di vario tipo e può interrompersi a beneficio di altre attività, serie come il rituale o frivole come il riposo.

La tradizionale giornata lavorativa è spesso breve: se si protrae, subisce frequenti interruzioni. Abbiamo qui la dimostrazione che, se l’uomo primitivo è alieno dallo spirito imprenditoriale e dalle logiche del lavoro salariato, è perché la categoria profitto non lo interessa: se non reinveste, non è perché non concepisce questo atto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che persegue. Nelle comunità nomadi ma anche in quelle sedentarie, dagli amerindiani alle tribù della Melanesia, si cerca di produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni, adottando una tipologia di lavoro ostile alla formazione di un surplus, il che impedisce che una parte della produzione ricada all’esterno dell’ambito territoriale controllato direttamente dal gruppo produttore.

Diversamente da noi, in queste società non si vive per produrre ma si produce per vivere. Il modo di produzione domestico delle società primitive è infatti produzione per il consumo, e nel suo svolgersi si pone un costante freno all’accumulo di surplus, cercando di mantenere il complesso degli immobilizzi a un livello relativamente basso.

Se la produzione è esattamente commisurata ai bisogni immediati della famiglia, la legge che governa il sistema contiene un principio anti-surplus adeguato a una produzione di sussistenza non legata a una retribuzione.

Superata la produzione necessaria, si tende all’arresto del lavoro-produzione. Il dato, etnograficamente documentato da diversi studi antropologici, che le economie primitive sono sotto-produttive, che solo una parte della collettività lavora, oltretutto per breve tempo e a bassa intensità, si impone come una conferma del fatto che le società primitive sono società dell’abbondanza.

Clastres, nel suo Archeologia della violenza, afferma che le società primitive sono società contro l’economia: la socialità primitiva assegna alla produzione un compito preciso, impedendole di andare oltre. Là dove così non è, l’economia si sottrae al controllo della società, e la disgrega introducendo la separazione tra ricchi e poveri: l’alienazione degli uni dagli altri.

Stiamo dunque parlando di società senza economia, o meglio di società contro l’economia. In queste società, non solo le forze produttive non si sviluppano autonomamente, ma nel modo stesso di produrre è deliberatamente affermata una volontà di sotto-produzione.

È ormai chiaro che nelle società primitive non potrebbe emergere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l’attività di produzione coincide del tutto con quella di riproduzione dell’individuo e della specie: il tempo di lavoro è quindi immediatamente tempo di vita.

Il numero di persone presenti su un territorio è regolato da un equilibrio naturale, perciò esse dispongono di tutto quello che serve in base ai bisogni di quel tipo di società.

Siamo noi occidentali, immersi nel capitalismo, a non riuscire a concepire la preistoria umana come un’era di abbondanza.

E confrontando il nostro modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, ci fa comodo immaginarli abbrutiti dalle privazioni, costretti alla spasmodica ricerca di cibo per sopravvivere.

Ovviamente l’uomo primitivo non ha la nostra percezione del tempo. D’altronde, alcune decine di millenni più tardi, anche gli uomini delle società pre-classiche, già arrivate a un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non hanno una concezione del tempo che divida nettamente vita e lavoro.

Per loro, parole come «lavoro» nell’accezione moderna o «tempo libero» non hanno alcun senso. Solo più tardi, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coinciderà con la quotidiana attività di chi svolge funzioni manuali.

Tant’è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo così significa semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.
Esistono molti esempi etnograficamente interessanti per capire il lavoro nelle culture altre.

Per esempio, i Tikopia delle isole melanesiane hanno una concezione del lavoro molto diversa dalla nostra:[…] seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono di casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi, penetrando all’interno, comincia a risalire il sentiero. […] Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta e tre ragazze più grandi. […] Il lavoro è semplicissimo: Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro, lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita…

Il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare Betel […].

L’intera atmosfera è di lavoro inframmezzato a svago a volontà.

Un altro interessante esempio di gestione del lavoro ce lo danno i Kapauku della Nuova Guinea: avendo i Kapauku una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni.

Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando.
Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, mentre le altre si prendono il loro giorno di riposo.

L’ultima testimonianza su cui vorrei soffermarmi è l’economia degli Irochesi (conosciuti anche come Haudeno-saunee), tradizionalmente concentrata sulla produzione collettiva e su elementi misti di orticoltura, caccia e raccolta.

Anche qui il lavoro è totalmente slegato dal surplus o da una paga. Le tribù della Confederazione irochese, presenti insieme ad altri popoli nella regione che ora include lo Stato di New York e la regione dei Grandi laghi, non conoscono il concetto di proprietà privata, e il lavoro è una sfera variegata di mansioni, svolte da tutta la comunità, che non occupa mai troppe ore al giorno. Gli Irochesi sono un popolo prevalentemente dedito al-l’agricoltura, e in particolare si occupano della raccolta delle «tre sorelle» comunemente coltivate dai nativi americani: mais, fagioli e zucca.

Nel corso del tempo, gli Irochesi hanno sviluppato un sistema economico molto diverso da quello ora dominante nel mondo occidentale e caratterizzato da elementi quali la proprietà comune dei terreni, la divisione del lavoro in base al sesso e un commercio basato principalmente sull’economia del dono.

Marcel Mauss, antropologo e sociologo, ha scritto tra le sue varie opere un Saggio sul dono in cui mette in luce che l’invenzione dell’uomo come Homo oeconomicus è in realtà molto recente.

Scrivendo di alcune culture da lui studiate attraverso ricerche etnografiche su culture organizzate socialmente sull’esercizio del dono, Mauss sintetizza il funzionamento di un’economia del dono con tre obblighi: dare, ricevere, restituire.

Questi tre obblighi creano un circolo, in quanto il dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. In tutte le società, sostiene Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo, di instaurare un indebitamento reciproco.

Si crea così un legame, un senso di solidarietà, e alla fine ognuno sa di ricevere più di quello che dà. Nella società irochese, la divisione del lavoro riflette la divisione dualistica tipica della sua cultura: gli dèi gemelli Sapling (est) e Flint (ovest) rappresentano l’idea dualistica di due metà complementari. Tale dualismo è poi applicato all’ambito lavorativo, in cui ognuno dei due sessi acquisisce un ruolo chiaramente definito che completa i compiti dell’altro.

Le donne svolgono il lavoro agricolo, mentre gli uomini espletano tutte le mansioni collegate alla foresta, compresa la fabbricazione di qualsiasi oggetto in legno. Gli uomini sono responsabili della caccia, del commercio e del combattimento, mentre le donne si occupano della raccolta del cibo e dei lavori domestici.

Questa produzione combinata ha reso la fame e le carestie eventi estremamente rari tra gli Irochesi, tanto che i primi europei hanno spesso invidiato il loro successo nella produzione alimentare.

Il sistema lavorativo irochese corrisponde peraltro al loro sistema di proprietà terriera. Infatti, così come condividono la proprietà della terra, gli Irochesi condividono anche il lavoro.

Le donne, per esempio, svolgono i compiti più difficili in gruppi estesi, aiutandosi a vicenda nel lavorare la terra.

Similmente, anche le mansioni maschili, come la caccia o la pesca, sono improntate alla cooperazione.

Il contatto con gli europei, agli inizi del XVII secolo, ha un profondo impatto sull’economia irochese o, meglio, l’espansione degli insediamenti europei sconvolge irreversibilmente l’equilibrio dell’economia irochese.

E già nel XIX secolo gli Irochesi sono ormai confinati in riserve che impongono un radicale adeguamento del loro sistema economico tradizionale. Si trovano, cioè, costretti ad accettare il concetto di lavoro capitalista delle società occidentali.

Questi esempi etnografici di società primitive e culture altre che non hanno vissuto la contraddizione di lavorare per produrre un surplus inutile o moneta sono esperienze interessanti, da non mitizzare, da cui possiamo prendere spunto per criticare l’assurda logica del lavoro salariato che ci annienta quotidianamente.

In un mondo dove tutti, dalla televisione alla radio passando per libri e giornali, non fanno altro che parlare di crisi economica, sovrapproduzione, sottosviluppo, licenziamenti, lavoro precario, flessibilità, questo libro di Philippe Godard è un’ottima riflessione che non solo ci aiuta a liberarci dal concetto di lavoro come fatica e obbligo, ma che rende oltretutto evidente come i lavoratori non potranno mai abolire i rapporti di classe senza abolire il lavoro.

Nell’inferno del saccheggio africano

In e-mail il 27 Febbraio 2021 dc (questa volta non mi sono limitato a correggere alcuni errori, ma ho sostituito Santa Sede con Vaticano!):

Nell’inferno del saccheggio africano

di Marco Castaldo

L’uccisione nella Repubblica Democratica del Congo dell’ambasciatore italiano e del carabiniere che gli faceva da scorta offre l’occasione per riflettere su quello che è un vero e proprio inferno causato dalle potenze coloniali in quel continente in una fase di crisi, come quella attuale, del moto-modo di produzione capitalistico, aggravata per di più dalla pandemia del Covid-19.

Ovviamente si sprecano da una parte le parole di riprovazione e di orrore nei confronti dei responsabili del fatto di sangue, mentre dalla parte opposta si sprecano gli elogi per le qualità delle due vittime cadute nell’imboscata in quel paese. E il popolo “beve”.

Passano pochi giorni e tutto si dimentica, tutto riprende come prima. Eppure tutti quelli che devono sapere sanno, ma tutti fingono di non sapere. Tutti conoscono la verità, ovvero gli interessi da cui sono mosse determinate strutture statali e/o umanitarie, ma tutti mentono spudoratamente sapendo di mentire.

Eppure la verità è talmente evidente in certi ambienti che nel darne notizia – come nel caso del telegiornale delle 20 de La7, il suo direttore Mentana dice due cose in netto contrasto fra loro: «Diamo notizia del tremendo fatto di sangue avvenuto nel Congo, un paese poverissimo», per poi proseguire affermando, poche parole dopo: «una nazione ricchissima di materie prime di importanza strategica». Una realtà talmente forte che, come la tosse, non può essere contenuta e fuoriesce dalle labbra di un noto asservito al potere del capitale.

Due verità che vengono lasciate poi cadere nelle distratte cene degli italiani assopiti dai colori regioni attribuiti dal governo e dalle paure per la pandemia. Dalle parole di un altro noto giornalista e scrittore, come Domenico Quirico, vien fuori un quadro orrido nella sua descrizione delle varie tribù di disumani più simili alle bastie che al restante dell’umanità. Lui, “profondo” conoscitore dell’area subsahariana e dell’estremismo islamista, non perde occasione per sputare fango sui martoriati popoli africani schiavizzati da secoli dai popoli “civili” dell’Occidente sviluppato.

Eppure, nonostante le montagne di parole per imprigionarla, la verità emerge forte e potente quando sono costretti a dire: «Le guerre nel Kivu [regione del Congo che si affaccia sul lago Kivu] hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev: il coltan, l’oro, il tungsteno, il tantalio che resiste alla corrosione, o la cassiterite che serve per saldare e per leghe speciali».

A differenza degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in questi ultimi decenni è calato un silenzio tombale sulla rapina coloniale delle potenze occidentali in Africa e, quel che è peggio, è calato anche il silenzio nei confronti della Cina che in quel continente e in concorrenza con i Paesi occidentali sta facendo man bassa delle risorse minerarie di ogni tipo. E fa specie, lo diciamo senza veli, che a tale silenzio partecipano anche formazioni politiche che si autodefiniscono di sinistra e che guardano alla Cina come modello sociale centralizzato e possibile struttura sociale diversa dal capitalismo.

Non ci lasciamo impressionare neppure da incantatori di serpenti come certi padri missionari comboniani che si presentano con l’aspetto caritatevole, ma sono l’altra faccia della stessa medaglia del colonialismo capitalistico mondiale, che denuncia sì l’impotenza delle istituzioni internazionali come l’Onu o la stessa Fao, ma poi fungono da controllori della realtà.

Non ingannino perciò certe iperboliche espressioni come «Questo è il Congo di tutti i giorni! Un paradiso della natura, un inferno per gli uomini. Con una guerra civile da 20 anni, per prendersi le ricchezze minerarie. […] chi è il mandante di questo delitto? La gara per le commodities: il petrolio di Viruga e nei grandi laghi, il gas naturale a Kivu, il coltan per fare i telefonini, il cobalto in mano ai cinesi, il columbio, i diamanti, il rame, l’uranio, praticamente tutto … L’ordine è fregare al Congo tutte le materie prime. E far scappare la gente che ci abita sopra, pagando mercenari per ammazzare».

Una fredda e lucida analisi dove però manca l’agente fondamentale, ovvero il soggetto vero di tale devastazione. Il missionario che scrive per L’Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano, rimuove totalmente il ruolo centrale dell’Occidente, ovvero di un mercato capitalistico originato dal colonialismo e che si è via via esteso in tutto il mondo, al punto da ingolfarsi, producendo una crisi per la produzione di valore che mette a confronto il continente asiatico, con la Cina che fa da traino, e l’Occidente con il suo centro maggiore, gli Usa, in una crisi senza precedenti nella storia moderna.

Ora, il padre missionario comboniano dice che «l’ambasciatore Luca Attanasio è morto da santo, mentre andava ad aiutare».

Non è questo il punto in discussione – è bene ripeterlo all’infinito – non è la persona fisica, che abbia studiato alla Bocconi di Milano o meno. Per il materialista si tratta del ruolo che va ad assumere in determinati rapporti che obbediscono a determinate leggi. È questa la questione che non si vuole o non si riesce a capire neppure dai cosiddetti intellettuali di sinistra che brancolano nel buio della democrazia tradita senza riuscire ad afferrare il senso storico del moto di produzione capitalistico di questa fase.

Quando il padre comboniano parla della «gara per accaparrarsi le commodity» da parte di gruppi locali, omette di dire che si tratta di una guerra che viene scatenata dalle grandi compagnie occidentali o/e – come negli ultimi anni – dai grandi gruppi cinesi statali o privati. Si tratta di licenze per lo sfruttamento delle risorse minerarie che lasciano solo briciole ai gruppi locali che equivalgono a misere rendite, mentre la produzione di valore, che avviene attraverso la trasformazione delle materie prime in prodotti destinati al mercato, va solo a beneficiare le potenze straniere, e l’insieme delle nazioni africane ricche di ingenti risorse minerarie rimangono povere.

Si tratta di un meccanismo semplice che Tom Burgis descrive in modo didascalico nel suo libro La macchina del saccheggio (Francesco Brioschi Editore, 2020), quando scrive: «L’esportazione di petrolio, gas e minerali in forma grezza contribuisce a tenere gli Stati africani ricchi di risorse all’ultimo gradino dell’economia globale, eliminando ogni possibilità di industrializzazione».

Sicché certe domande sono oziose: «Non è chiaro che cosa cercassero i killer. Soldi? Un’azione terroristica? O magari un’arma di ricatto sugli investimenti energetici, anche italiani, nel nord di Kivu?». È un modo per sviare dalla questione di fondo, ovvero per imbrigliare il lettore in vie di fuga e non affrontare la questione delle questioni: la presenza degli italiani nel Congo come nel resto dell’Africa per curare gli interessi del “nostro” capitalismo nazionale, cioè delle nostre imprese e delle nostre banche. Sic et simpliciter.

Che ruolo può assolvere anche il più buono, il più bravo, il più coraggioso, il più generoso, il più onesto degli uomini in simili meccanismi se non quello della piccola rondella d’ingranaggio funzionale agli interessi di società che sovrastano in modo impersonale la persona e l’individuo? È questo il punto teorico e politico che racchiude il senso del capitalismo neocoloniale, in modo particolare in questa fase. Divide et impera è la legge che regola i rapporti tra i Paesi capitalisticamente più forti nei confronti del continente africano, dove vengono letteralmente comprati e armati gruppi etnici per contrapporli ad altri gruppi e alimentare una guerra continua per avere buon gioco nella rapina coloniale.

Sul fatto specifico accaduto nelle foreste di Goma in Congo non ci interessa avventurarci in ipotesi investigative, non è nostro mestiere. Registriamo il fatto come riflesso di una accelerazione della crisi generale del modo di produzione capitalistico in quella zona, sia all’interno delle potenze occidentali, sia fra queste e quelle asiatiche, la Cina in modo particolare, sia come milizie sparse di ribelli locali in concorrenza fra loro per accaparrarsi le “commodities”. Dunque ha ragione Burgis sul punto cruciale d’analisi che espone nel suo libro quando scrive: «Esteriormente sono rivali, eppure tutti sfruttano la ricchezza naturale la cui maledizione danneggia le vite di centinaia di milioni di africani».

Due parole chiare sull’Onu.

Da più parti (negli ambienti dell’establishment) ci si lamenta del fallimento dell’Onu, incapace cioè di mettere ordine in un’area immensa come il continente africano. Ci vuole una bella faccia tosta a sostenere una tesi tanto assurda quanto stupida, perché l’Onu può mettere ordine, e lo ha messo, quando col suo consenso sono partiti gli eserciti comandati da generali di potenze imperialiste, come nel 1991 in Iraq contro Saddam Hussein che aveva osato sfidare l’impero del male, come gesto di autodifesa delle proprie risorse petrolifere, occupando il Kuwait, oppure nei Balcani contro il ribelle “dittatore” Milosevic e per ridurre a miti consigli il popolo serbo.

Ora, illudersi che una istituzione, costituita dagli imperialisti per tenere sotto scacco l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, possa fare da tappo alle esplosive contraddizioni che tale accumulazione sprigiona, può rappresentare solo la foglia di fico sulle tragedie causate dalla rapina coloniale.

E le stesse organizzazioni cosiddette umanitarie, laiche o religiose che siano, si possono ammantare di pacifismo, ma al dunque, quando si tratta di precisare e definire i ruoli, non fanno sconti.

Si vuole un esempio?

Bene. L’organizzazione Nigrizia, di padre Zanotelli, in un documento del 2003 scriveva: «L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di tutti i diritti umani per tutti e per un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli Stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possono far sentire la loro voce. Quale istituzione può perseguire i molteplici e conplessi obiettivi dello “human development” e della “human security” se non l’Onu messa in condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione se non gli Stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?»

Ecco la vera ragione, espressa a chiare lettere, della costituzione di una istituzione sorta allo scopo di garantire l’ordine mondiale dell’accumulazione capitalistica, ad opera dei più potenti. Non a caso venne tenuta fuori da quel consesso la Cina di Mao, la nazione più popolosa al mondo, mentre vi veniva accolta Taiwan. Ecco spiegata la ragione per cui si bombardò l’Iraq, per lesa maestà, perché si era annesso il Kuwait e perché da oltre 70 anni si tollera che lo Stato di Israele criminalizzi il popolo palestinese, dopo averlo espropriato delle proprie terre.

Signori, siamo seri, ma veramente vorreste farci credere che il vero volto degli occidentali sia la faccia sorridente del povero Luca Attanasio circondato dai bambini neri e sorridenti con il lecca lecca in mano, oppure le suorine che insegnano l’italiano ai bambini nelle comunità missionarie? Quella è la maschera del rapinatore dietro cui si nasconde il brigante. Come si fa a mantenere le Missioni religiose? Come si finanziano? Chi le deve finanziare? Oppure: come si mantengono le cosiddette organizzazioni non governative, le Ong? Come si tiene una nave in mare con l’equipaggio, il carburante e la manutenzione, pronta per “soccorrere” in mare i poveri disperati, i naufraghi fatti arrivare nel mare nostrum per essere buttati sul mercato del lavoro in competizione con i lavoratori autocton, per abbassarne il costo e reggere la concorrenza delle merci prodotte?

Come si tiene in vita una Comunità, tipo S. Egidio, presente in più parti del mondo? Col solo volontariato? Ma allora veramente si dà da bere al popolo “sovrano” che la befana vien di notte a portare i doni calandosi dai comignoli delle case. Suvvia, d’accordo che bisogna costruire le notizie, ma c’è un limite a tutto.

Sicché il tutto, tradotto, ci dice che nel Congo, come nel resto dell’Africa, è in atto un saccheggio da parte delle potenze economiche maggiori e che questo produce delle reazioni uguali e contrarie da parte di gruppi sociali che si difendono come possono.

Sono questi i criminali? Si, ma in sedicesimo rispetto a chi, lontani migliaia di chilometri dalle loro terre, le ha invase prima ed ha continuato a rapinarle poi con i mezzi della finanza e della corruzione.

Sicché i veri responsabili dell’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, del povero carabiniere Iacovacci e di Mustafa Milambo stanno a Roma, a Milano, a Torino, a Parigi, a Berlino, ad Anversa, a Bruxelles, a Londra, a New York, a Pechino, a Shangai e così via, ed è fuorviante cercarli nelle foreste del Kivu.

Su Draghi profezie telegrafiche di Tiresia?

In e-mail il 24 Febbraio 2021 dc:

Su Draghi profezie telegrafiche di Tiresia?

di Lucio Manisco

Il neo-presidente del Consiglio non ama parlare, ma quando ha parlato per più di un’ora al senato ha intonato una filastrocca di traguardi da raggiungere senza indicare scadenze, mezzi e procedure.

Non siamo astuti come lui ma le astuzie altrui meritano la nostra attenzione.

Ne abbiamo decifrate due.

Per la sua politica contro il cambiamento climatico ha usato il termine di “transizione” verso direttive a tal uopo. E del rilancio dell’economia ha detto che debbono essere “selettive”.

Allusioni indicative? Non tanto.

Per citare l’Alighieri i termini usati erano “Sì come cosa in suo segno diretta”. La transizione vuol dire solo prender tempo, rinviare, fors’anche devolvere a governi futuri quel compito. I provvedimenti economici e finanziari per il Super Mario vanno promossi con metodo selettivo: sostenere fiscalmente le aziende produttive e privare di qualsiasi sostegno quelle – la maggioranza – colpite dalla crisi che rischiano il fallimento. Il che, diciamo noi, vuol dire disoccupazione di massa e povertà senza ritorno.

Il Draghi è un “Chicago’s boy”, un prodotto della scuola economica iper-libertista fondata da ultra-conservatori del calibro di Milton Friedman e George Stigler. Ha lasciato vistose tracce, su quanto ha appreso alla Goldman Sachs ed ha applicato alla BCE.

Ritenere che possa cambiare idea a Palazzo Chigi è una pia illusione. Anzi, la grave crisi che ha colpito il Bel Paese potrà stimolare la sua creatività e il suo rigore.

Non riuscirà ad aumentare significativamente il Pil di 1.649 miliardi ma cercherà di ridurre l’astronomico debito pubblico di 2.620 miliardi.

Come?

Ristrutturare e mimetizzare la destinazione dei 209 miliardi rateizzati dall’Unione Europea?

Troppo poco! Tagliare lo Stato sociale e la sanità, investendo quel che resta nelle misure anti covid-19 e le vaccinazioni. Scelta obbligata per un regime capitalistico. E se non basta ancora, affittare il Colosseo alla McDonald’s e vendere la Fontana di Trevi.

Non è solo una battuta: mentre il signor Draghi strangolava la Grecia un giornale inglese menzionò la possibilità per il British Museum di comprarsi metà dell’Acropoli.

La politica estera: il Draghi si dichiara atlantico convinto proprio mentre la Merkel e Macron, al Presidente Biden che al G-7 proclama “l’America è tornata”, ribattono che per l’Europa ci vuole più autonomia. I mass media italiani evitano di menzionare quanto sopra: il silenzio è totale: “tutto tace, questa pace fuor di qui dove trovarla?”.

Non prevediamo come il cieco indovino Tiresia il futuro. Guardiamo al presente stato delle cose senza transizioni e selettività.