Un guitto, bigotto e caldofilo

5 Marzo 2023 dc:

Un guitto, bigotto e caldofilo

di Jàdawin di Atheia

In un noto quiz televisivo, da molti anni più o meno un’ora prima del Tg1, il solito conduttore romano, che nasce come comico, per il secondo anno consecutivo dà mostra di essere caldofilo oltre ogni decenza.

Il nostro è un caciarone, urla a dismisura, vuole essere piacione, ed a furia di essere esagerato diventa un guitto, come l’altro suo pari, di toscana appartenenza. È anche fervente cattolico, come tutti i suoi colleghi televisivi, del resto, e le domande del quiz sono sempre improntate alla massima osservanza. Non compare la benché minima “variante” laica, per non dire atea.

Come se non bastasse, il buffone è anche caldofilo: non vede l’ora che venga l’estate, e non siamo nemmeno in primavera: l’anno scorso ha detto, più o meno nello stesso periodo, “non vediamo l’ora che arrivi l’estate”, e quest’anno “ormai siamo in primavera, e speriamo che venga l’estate”.

Ora, brutto stronzo, il fatto che tu lo dica così sfacciatamente in televisione mentre il Paese, per il secondo anno consecutivo, affronta temperature innaturalmente alte e siccità già avanzata adesso, con un inverno inesistente, già non sarebbe tollerabile, ma almeno usa la prima persona, imbecille, e non dare per scontato che tutti, proprio tutti, la pensino come te!

Non parliamo poi del servilismo verso i laureati. D’accordo, hanno tutta la mia ammirazione e invidia tutti coloro che hanno ed hanno avuto la forza di volontà e la perseveranza di studiare all’università e, magari, un poco realizzarsi anche nel lavoro: sono il primo a congratularmi con loro perché ho sempre saputo di non essere all’altezza di compiere questi studi così impegnativi, che pur avrei ogni tanto voluto intraprendere (e non certo per la carriera!). Ma il suo prostrarsi di fronte a loro, tesserne lodi sperticate e smisurate è veramente esagerato, poco dignitoso e poco rispettoso per la stragrande maggioranza che laureati non sono e che, spesso, hanno più cultura generale di questi “mostri” di culture specialistiche. E che sono, tra i concorrenti, stretta minoranza.

Il diritto all’aborto è un diritto di tutti

04 Ottobre 2022 dc, da Hic Rhodus, 26 Giugno 2022 dc:

Il diritto all’aborto è un diritto di tutti

di Ottonieri

La notizia la conosciamo tutti (ed è molto ben riportata in questo articolo del Post): la Corte Suprema degli USA ha deliberato che l’aborto non può più essere considerato un diritto costituzionale, capovolgendo le precedenti sentenze chiamate Roe contro Wade e Planned Parenthood contro Casey, che riconoscevano l’aborto come implicitamente compreso nei diritti previsti dal Quattordicesimo Emendamento della Costituzione, che tra l’altro recita «Nessuno Stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi Stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge».

L’attuale Corte Suprema, nella sua delibera, afferma che (la traduzione è mia) «La Costituzione non fa alcun esplicito riferimento al diritto di ottenere un aborto […] La Corte ritiene che il diritto a ottenere un aborto non sia profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della Nazione […] Guidata dalla storia e dalla tradizione che tracciano le componenti essenziali del concetto nazionale di libertà ordinata, la Corte considera che il Quattordicesimo Emendamento chiaramente non protegge il diritto all’aborto». In sostanza, secondo la Corte, il concetto di libertà protetto dal Quattordicesimo Emendamento non include l’aborto, come invece lo si era inteso nel caso Casey, in cui la Corte aveva inteso quel concetto come libertà di compiere «scelte intime e personali, centrali per la dignità e l’autonomia della persona». Per l’attuale Corte Suprema, se la Costituzione proteggesse un concetto troppo ampio di libertà, questo potrebbe finire per includere cose come l’uso di droghe illegali o la prostituzione (Dio non voglia!). Di conseguenza, la Corte conclude che «La Costituzione non impedisce ai cittadini di ciascuno Stato di regolare o proibire l’aborto. Le sentenze Roe contro Wade e Planned Parenthood contro Casey si arrogavano questo diritto. La Corte le cancella e restituisce questa autorità al popolo e ai suoi rappresentanti eletti».

Questa delibera è stata votata dai giudici Samuel Alito (nominato da George W. Bush), Clarence Thomas (nominato da George Bush), Neil Gorsuch (nominato da Donald Trump), Amy Barrett (nominata da Donald Trump) e Brett Kavanaugh (nominato da Donald Trump), mentre il giudice John Roberts, presidente della Corte a suo tempo nominato da George W. Bush, ha espresso un separato parere intermedio. I giudici nominati da Bill Clinton e Barack Obama hanno votato contro.

Quali effetti ha questa decisione? Almeno dal punto di vista di un europeo, un caos. Ogni Stato degli USA può ora avere una diversa normativa, e ci sono diversi Stati che avevano in realtà già approvato leggi restrittive dell’aborto che erano state bloccate perché incostituzionali secondo la precedente interpretazione. Queste leggi saranno quindi “sbloccate”, mentre in altri casi si tornerà alla legislazione precedente, e in altri ancora invece resteranno in vigore leggi favorevoli all’aborto già approvate e ovviamente ancora valide. Questa situazione è efficacemente rappresentata nella figura qui sotto, tratta da un utile articolo di Politico.com:

Situazione normativa sull’aborto dopo la delibera della Corte Suprema. Fonte: http://www.politico.com

Ebbene, cosa dobbiamo pensare di questa sentenza? Chiaramente, una lettura “semplice”, e certamente non errata, è che essa sia la naturale conseguenza delle forzature messe in atto da Trump per assicurarsi una maggioranza Repubblicana e dichiaratamente conservatrice nella Corte Suprema.

C’era effettivamente da aspettarsi che alla prima occasione questa maggioranza che è difficile non chiamare retriva ribaltasse la questione più controversa e simbolica su cui la Corte si sia mai espressa. Questa, c’è poco da fare, è una sentenza politica. E, purtroppo, l’oscurantismo politico di questa maggioranza della Corte non si fermerà facilmente qui, a meno che una reazione popolare violenta non sconsigli i giudici dall’attaccare anche altri diritti. Il giudice Clarence Thomas ha scritto, in una sua opinione individuale, che la Corte in futuro «dovrebbe riconsiderare» altre sentenze precedenti a favore di diritti alla contraccezione, alle relazioni e ai matrimoni omosessuali.

A una sentenza politica è certamente necessario opporre una reazione politica, e questo accadrà in USA. Lo stesso Presidente Biden ha commentato la decisione della Corte definendola «crudele» verso le donne e invitando l’elettorato democratico a una mobilitazione. Eppure, è evidente che un’analoga mobilitazione non mancherà neanche tra le file più conservatrici del Partito Repubblicano, galvanizzate dalla vittoria in una battaglia multidecennale. La divisione politica su un diritto è già di per sé una sconfitta di chi considera questo diritto universale.

Ci si deve quindi porre una questione più complessa: come mai in una società come quella USA, in cui il movimento MeToo ha imperversato colpendo senza prove e senza processi personalità e celebrità, in cui la political correctness detta legge fino al punto da far dichiarare a Tom Hanks «non credo che oggi la gente accetterebbe l’inautenticità di un eterosessuale che recita la parte di un omosessuale», come mai, dunque, è possibile che venga colpito un diritto così essenziale per la causa femminile, e che questo avvenga tra il giubilo di una parte rilevante della popolazione? Davvero, nel profondo, gli americani sono in buona parte bigotti e sciovinisti, e quelle che noi vediamo sono solo manifestazioni parziali e superficiali di una parte “progressista” che ha potere ma che non rappresenta tutti?

Forse sì. Ma io credo che il problema sia anche un altro.

Noi di Hic Rhodus abbiamo già parlato di aborto, non relativamente agli Stati Uniti, ma a come, in Italia, sia un diritto subdolamente contrastato e nei fatti ampiamente negato a causa di una legge sull’obiezione di coscienza che andrebbe cancellata oggi. Il peso insopportabile dell’influenza vaticana su questo Paese non è certo una novità, eppure gli pseudo-movimenti “pro-vita” in Italia non hanno il rilievo e la visibilità che hanno in USA, dove oltretutto la maggioranza degli attivisti antiabortisti è di sesso femminile. L’ipocrisia della cosiddetta “obiezione di coscienza” da noi è un efficace mezzo contro quello che l’ampia maggioranza della popolazione considera un diritto fondamentale.

L’aborto non è, e non deve essere visto come, un diritto delle donne. L’aborto è uno dei casi in cui si attua il diritto fondamentale di tutti noi a disporre liberamente di noi stessi. Quando si tratta di una scelta fondamentale per la propria vita come diventare un genitore, e di un impegno personale che per tanti mesi trasforma radicalmente e condiziona il proprio corpo, la libertà personale è l’unica fonte legittima di decisione. Far riconoscere questo diritto non è una battaglia femminista, ma liberale, e la sua accettazione è parte del mio diritto a essere libero, chiunque io sia. Questo è ciò che accomuna, e deve accomunare, il riconoscimento del diritto all’aborto, al matrimonio omosessuale, all’eutanasia: non come diritto delle donne, degli omosessuali, dei malati, ma come parte integrante di un unico diritto, di tutti.

Anche per questo, abbiamo preso più volte posizione contro, invece, la pretesa di stampo politically correct di imporre “diritti speciali” per ciascuna categoria, quel tipo di pretesa che sta dietro la dichiarazione di Tom Hanks che ho citato prima. Diritti “speciali” non ne esistono, e la loro rivendicazione in nome dell’inclusività crea esattamente l’opposto, nicchie “esclusive” di ricerca di rendite di posizione, vincenti o perdenti a seconda dei rapporti di forza. E la frammentazione della nozione di “diritto” è antitetica alla rivendicazione dei diritti “veri”, che come tali sono uguali per tutti e si declinano nelle diverse condizioni in cui ciascuno di noi si trova.

Il diritto all’aborto non è una questione di parte, o di genere. È un principio sul quale tutti abbiamo motivo di concordare e che tutti abbiamo ragione di difendere, indipendentemente dalla politica e anche dalla religione. Averlo sottratto a questa universalità e declassato a questione politica, da regolare “democraticamente”, è il misfatto fondamentale commesso dalla Corte Suprema.

La mobilitazione che oggi è necessaria, non solo in USA, a causa di questa sentenza sarà vincente solo se saprà recuperare questa dimensione universale dell’ aborto come parte dei diritti umani.

Una risata seppellirà i bigotti

20 Agosto 2022 dc, su Hic Rhodus il 27 Maggio 2022 dc:

Una risata seppellirà i bigotti

di Claudio Bezzi

Avevo appena visto lo spettacolo di Ricky Gervais, SuperNature, su Netflix, ridendo di gusto, e dicendomi “Ammazza, questo ha coraggio, a dire così chiaramente di essere ateo e liberista, a fare battute sulle donne e gli omosessuali, sui fanatici religiosi etc. Ma come fa a non beccarsi una di quelle serie infinite di insulti e denunce che oggi sono all’ordine del giorno per chiunque non sia politicamente corretto?” Ecco, ero a questo punto quando leggo che sì, infatti, Ricky Gervais è al centro di una feroce polemica, accusato di omofobia.

Io so benissimo che, per esempio per un credente, la satira su Gesù e la sacralità della sua religione è fastidiosissima: lui crede così profondamente in Gesù, costruisce una gigantesca struttura mentale e comportamentale su quella sua credenza, fa tanti sacrifici in nome di Gesù, si sente così male, nel profondo del suo cuore, se pensa che qualcuno offende Gesù, giuro, lo capisco! Però il suo vicino di casa è un indiano, perfettamente integrato nella comunità, sa solo grosso modo chi fu Gesù mentre manda a memoria i Veda, crede in maniera categorica nella reincarnazione e non passa giorno che non reciti il mantra mattutino. Il suo vicino cristiano lo tollera provando un po’ di pena per quello straniero così primitivo che non ha avuto il dono della vera fede, e ignora che il kebabbaro dell’angolo, musulmano, li disprezza entrambi per la loro così evidente impurità.

Torniamo alla satira: i fanatici islamici uccidono per vignette satiriche su Maometto; anche gli induisti, quando ci si mettono, non scherzano; i cristiani, purtroppo, non possono più mettere al rogo gli eretici e i blasfemi, peccato…

Quello che – credo con evidenza – sto cercando di dire, è che chiunque di noi ha una qualche credenza, senso di appartenenza, valore morale, politico, civico, animale preferito, tendenza sessuale, difetto fisico, sport praticato con passione, ideale di vita, colore della pelle, religione, hobby, per i quali si sente offeso nel caso voi lo prendiate in giro. Non lui personalmente, ma quella sua credenza, quel suo comportamento, quel suo valore.

Io sono un sociologo, e c’è stato un periodo, anni fa (oggi meno) in cui i sociologi erano presi in giro ed etichettati come “tuttologi”; la cosa mi infastidiva perché io credevo di essere un buon sociologo, studiavo, mi applicavo, lavoravo bene (o così pensavo). A una certa età ho iniziato a perdere i capelli, e quella santa donna di mia suocera – che cominciava a non starci più con la testa – ogni volta che l’andavo a trovare mi guardava sconsolata la zucca e diceva “Peccato per i capelli!”, la cosa mi seccava: sì, certo, stavo perdendo i capelli, ma perché sottolinearlo ogni volta, ma perché non mi lasci stare? Poi sono vegetariano: a un pranzo di conoscenti un tale con deficit relazionale mi ha detto, a un certo punto “Il mio cibo fa la cacca sul tuo cibo”, si credeva spiritoso, l’ho fulminato con lo sguardo ed evitato in seguito di incontrarlo.

Capite cosa dico? Tutti noi siamo decine e decine di cose differenti, differenti per genere e colore, ma differenti poi per scelte di vita, credenze, abitudini, comportamenti. Finché ognuno si fa i fatti suoi, tutto va bene: ma se qualcuno critica, ci arrabbiamo. Se poi la critica diventa invettiva, sarcasmo, satira, ah, beh, allora ci infuriamo, perché si mette in discussione la nostra identità profonda.

Adesso immaginate un mondo ipotetico in cui siamo tutti di colore uguale, diciamo marroncino chiaro: tutti rigorosamente di 1,75 cm., tutti credenti nello stesso dio; i partiti politici sarebbero stati aboliti da un pezzo perché, avendo tutti la stessa idea, non sarebbero necessari. In questo mondo ipotetico tutti vestiamo uguale, abbiamo la stessa macchina, scopiamo nello stesso modo e andiamo in vacanza (a rotazione, immagino) nello stesso posto. In questo mondo nessuno avrebbe alcunché da dire sui suoi simili (più che “simili”, identici), nessuno farebbe ironia sugli altri, certo, ma neppure ci sarebbero i talk show (però… solo per questo potrebbe valere la pena…) le braciolate con gli amici e i viaggi di gruppo, non avremmo nulla da criticare perché non avremmo proprio nulla da dire. Se in questo mondo, all’improvviso, arrivasse un gruppetto di persone azzurre, alte 1,73, con stravaganti idee su un essere magico e invisibile, potentissimo, che ci guarda dall’alto dei cieli, credo che la nostra amorfa popolazione marroncina troverebbe subito molto da dire: quell’azzurrino della pelle sarebbe apostrofata in innumerevoli modi, e sai le battute su quel protettore magico?

Insomma: è la diversità che ci divide, quella che ci tiene uniti; ci troviamo interessanti perché siamo diversi. Ma la gamma di “diversità” che accettiamo senza battere ciglio è molto ristretta, mentre la vastità delle molteplici possibili differenze prima ci stupisce poi ci spaventa. A me stupisce la mutilazione ai genitali maschili imposta dagli ebrei, ma mi spaventa l’odio di massa che sanno esprimere i musulmani, a me stupisce la variabilità dei comportamenti sessuali, ma mi spaventano le patologie pedofile, mi stupisce l’ignoranza dilagante, ma mi terrorizza la sua trasformazione in eversione, suprematismo, fascismo.

Sulle cose che mi spaventano cerco di realizzare delle azioni politiche (nel mio piccolo: scriverne su Hic Rhodus, parlarne con coerenza nelle occasioni in cui posso farlo), ma su quelle che – senza che mi creino particolari allarmi – mi stupiscono, mi inquietano sociologicamente, allora posso anche fare dell’ironia, che è un modo – sia chiaro – per indicarne i limiti, per stabilire dei confini, per evidenziare una possibile deriva.

Fare ironia sull’ignoranza può essere un modo per indicarne le derive populiste, gridare “Ehi, attenti, con questo modo assurdo di pensare si finisce nel baratro!”. Fare ironia sulla religione è un modo per marcare dei confini oltre i quali le religioni diventano settarie e fanatiche. Fare ironia su comportamenti sessuali (una cosa che si fa dalla notte dei tempi) è un modo, paradossalmente, per integrare e includere: lo so che per qualcuno è difficile da capire, e c’è ironia ed ironia, satira e satira, quelle garbate e quelle feroci, quelle liberatorie e quelle distruttive. Ma chi decide? Fare ironia è un modo per pensare, considerare, tracciare confini (allargandoli), ristrutturare cliché, abbattere luoghi comuni.

Le comunità LGBT dicono che queste offese incitano l’odio. Lo dicono loro. Se sono frasi che incitano l’odio, certamente incitano l’odio e sono riprovevoli. Se fanno una leggera ironia, è solo satira, fanno solo ridere, e chi non vuole ridere ok, non rida.

Quando ero giovano erano in voga le barzellette sui matti: non mi pare abbiano scatenato un clima d’odio sui malati mentali. La barzelletta sul matto era un modo per ragionare sulla diversità: immaginarla, incorporarla, inserirla nel mondo “normale”, anzi denunciando la normalità del mondo.

Il contrario dei bigotti, quelli “politicamente corretti”, che nella rincorsa al rispetto di tutte, ma proprio tutte, le diversità, impongono un silenzio lessicale inquietante, una censura continua, una sostanziale esclusione, il fascismo del silenzio. Non si può dire, non si può alludere, non si deve neppure pensare.

Nel mondo dei bigotti tutti devono essere marroncini, indossare la stessa grammatica, professare gli stessi sintagmi. Il mondo degli uguali non calpesta nessuna differenza, e quindi le calpesta tutte: pretende il rispetto formale, lessicale, per tutto e tutti, e annulla le persone e le idee, un bigottismo prodromico del peggiore assolutismo orwelliano.

Gervais è un comico e fa satira. Sale sul palcoscenico e dice cose – ridendo – che pensa la gran massa della gente: non offende (non dice “finocchio”, per capirci) ma crea situazioni comiche che indicano delle verità, o almeno una visione di verità – quella di Gervais – che può confortare chi la pensa uguale e può far riflette chi pensa in maniera un po’ dissimile. Sapete chi si offende delle battute di Gervais? Il chierico fanatico, chi si difende dal mondo, chi si contorce nei sensi di colpa, chi si sente afflitto e si arrocca in piccole verità marginali e vorrebbe che tutti gli altri soffrissero, cambiassero, tacessero.

Il fanatico del politicamente corretto non è un gendarme della tolleranza contro gli abusi dei volgari, dei blasfemi e degli intolleranti. Al contrario, è un intollerante ignorante e insicuro che vorrebbe un mondo plasmato sulla sua piccineria morale.

Viva la satira, viva la blasfemia, viva la differenza!

La grande adunata degli Alpini e la piccola adunata dei (gesti) refrattari

In e-mail l’8 Maggio 2019 dc:

La grande adunata degli Alpini e la piccola adunata dei (gesti) refrattari

Un po’ di storia in tempi di amnesia interessata

In guerra la prima vittima e “la verità”.

Eschilo

La Prima guerra mondiale è costata al proletariato italiano 680 mila morti, mezzo milione di invalidi e mutilati, un milione di feriti.

A conferma del fatto che, tolti i cenacoli nazionalisti e le ridotte schiere dell’interventismo cosiddetto democratico o “rivoluzionario”, la gran massa dei coscritti visse la guerra come tragica fatalità o come immane macello a cui sottrarsi, parlano gli atti dei tribunali militari: 870 mila denunce, delle quali 470 mila per renitenza; 350 mila processi celebrati; circa 170 mila pene detentive, tra le quali 15 mila all’ergastolo; 4028 condanne a morte (in gran parte in contumacia), delle quali 750 eseguite.

Un numero, quest’ultimo, assai superiore a quello delle condanne capitali eseguite in Francia (600), Gran Bretagna (330) e Germania (meno di 50), nonostante la più lunga partecipazione al conflitto e il maggior numero di soldati impegnati dai rispettivi eserciti.

I numerosi atti di ribellione e di ammutinamento – dallo “sciopero” per le mancate licenze agli spari in aria, al fuoco indirizzato contro gli ufficiali particolarmente odiati – hanno incontrato una repressione spietata, fatta di decimazioni, di fucilazioni sommarie, di spari alle spalle da parte dei carabinieri, il cui ruolo era quello di spingere anche con le baionette i soldati fuori dalle trincee durante gli assalti suicidi ordinati dai comandanti per conquistare qualche metro di territorio nemico.

Tra i generali, «che la guerra l’avete voluta,/ scannatori di carne venduta/ e rovina della gioventù» (Gorizia tu sei maledetta), oltre a Cadorna, «nato d’un cane» (E anche ar me marito), si distinsero nelle fucilazioni sommarie Andrea Graziani, Gugliemo Pecori Giraldi e Carlo Petitti di Roreto, a cui ancora oggi sono intitolati monumenti, vie, piazze, targhe commemorative e rifugi montani (come il rifugio Graziani ai piedi del Monte Altissimo in Trentino).

Al tempo della guerra contadini e contrabbandieri si mettevano delle foglie di Xanti-Yaca sotto le ascelle per cadere ammalati. Le febbri artificiali, la malaria presunta di cui tremavano e battevano i denti, erano il loro giudizio sui governi e sulla storia (Vittorio Bodini).

Va detto che, dal punto di vista dei rapporti fra Stati, il governo italiano attaccò un governo – quello austro-ungarico – con cui era precedentemente alleato. Se la nozione di «guerra difensiva» è quasi sempre una mistificazione, nel caso dell’entrata in guerra dell’Italia nel «radioso maggio» del 1915 è palesemente falsa.

 

Nelle Province austro-ungariche di Trento e Trieste vengono arruolati circa 120 mila «italiani d’Austria», spediti in gran parte sul fronte orientale (Galizia, Bucovina, Volinia) a contrastare le truppe russe.

Un soldato su cinque vi trova la morte, per lo più nei primi mesi di combattimento. Molti altri finiranno prigionieri nei campi o nelle infinite distese della Siberia. Guardati con sospetto in quanto potenziali «filo-italiani» dagli ufficiali austro-ungarici e poi come potenziali «austriacanti» dalle autorità italiane, per molti l’odissea dell’internamento continuerà anche in Italia a guerra finita. I «redenti», cioè quelli che dopo la disfatta austro-ungarica in Russia si arruolarono nel regio Corpo Italiano di spedizione in Estremo Oriente (Cseo), parteciparono alla repressione bianca contro la rivoluzione russa. Altri, disertando, si arruolarono nell’Armata rossa.

A tutto ciò vanno aggiunte le migliaia di profughi spediti dal Trentino ai «campi di baracche» dell’Alta Austria, tra fame, malattie e ostilità della popolazione locale.

Se in Trentino gli arruolati nell’esercito austro-ungarico furono 60 mila, i volontari che passarono nelle file italiane furono 687, tra i primi dei quali il deputato socialista e ufficiale degli Alpini Cesare Battisti. Se i coscritti furono in gran parte contadini, i volontari «irredentisti» furono per lo più di estrazione borghese.

Gli operai e i contadini sopravvissuti trovarono, al ritorno dal fronte, fame e disoccupazione al posto del lavoro e delle terre promessi. Viceversa, per la classe dominante in generale e per gli industriali degli armamenti in particolare il conflitto fece aumentare vertiginosamente i profitti.

Frutto avvelenato della “Vittoria” e dell’ubriacatura nazionalista fu, di lì a poco, il fascismo. Non a caso, uno dei primi provvedimenti di Mussolini al potere fu la chiusura della assai timida «inchiesta sui profitti di guerra», il che permise agli industriali (in particolare agli Ansaldo, tra i maggiori finanziatori del «Popolo d’Italia» e poi delle camicie nere) di non risarcire nemmeno una lira per le forniture militare di cui avevano gonfiato a dismisura il valore.

Il 3 novembre 1918 le truppe italiane entrano a Trento, mentre ciò che rimane dell’esercito austro-ungarico si ritira verso nord. L’esercito italiano il 4 novembre è a Salorno, il 6 a Bolzano, il 10 al passo del Brennero. Il comandante in capo sul fronte trentino è il fucilatore di ammutinati Guglielmo Pecori Giraldi.

Se l’«italianizzazione» del Trentino, dove la popolazione tedesca corrisponde al 3,5 per cento, avviene senza grandi resistenze (e senza grandi applausi, tranne quelli iniziali per la fine della guerra), diverso è il discorso per il Sudtirolo, subito ribattezzato «Alto Adige». Qui i tedeschi rappresentano il 90 per cento della popolazione. All’oltranzismo nazionalista di Ettore Tolomei, nominato dal governo Orlando capo dell’«Ufficio di preparazione per il trattamento del germanesimo cisalpino», seguirà la violenza del fascismo nel chiudere scuole di lingua tedesca, nell’italianizzare toponomastica e cognomi tedeschi e nel reprimere ogni pur timida espressione di autonomismo.

In Trentino, invece, sarà la Legione trentina, nata nel 1915 per propagandare l’arruolamento nell’esercito italiano, ad occuparsi di “spiegare” alla popolazione, con lapidi, cippi, opuscoli e musei del Risorgimento, che d’ora in poi avrebbe vissuto in una «terra redenta». La Legione passerà poi il testimone, senza urti di sorta, ai Fasci di combattimento di Achille Starace.

Trento 2018

Da questi rapidi cenni storici si capisce il senso della scelta di Trento come sede della 91° adunata degli Alpini: celebrare la Vittoria della Prima guerra mondiale in una delle terre «redente».

E giustificare, con il mito dell’Alpino solidale e generoso, le attuali guerre a cui lo Stato italiano partecipa in nome della democrazia.

Per questo si sono scomodati il presidente della Repubblica, il ministro della Difesa, il Capo di Stato Maggiore, altri vertici delle forze armate e i redivivi cappellani militari.

Benché la Preghiera dell’Alpino continui a chiedere a «Dio onnipotente» di rendere «forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana», al tutto bisognava dare un tocco di «pace» e di «riconciliazione».

Se già Saragat nel 1968 aveva rivolto un pensiero a chi era morto con la divisa austro-ungarica, Mattarella quest’anno si è recato al monumento che ricorda i circa 12 mila uomini che con quella divisa sono stati uccisi. Ma, come ha precisato il Capo di Stato Maggiore generale Graziano, «ovviamente siamo qui per festeggiare la vittoria». E questo era il senso della salita di Mattarella al fascistissimo mausoleo di Cesare Battisti sul Doss Trent, inaugurato nel «radioso maggio» del 1935 alla presenza della vedova di Battisti e dei due figli, per l’occasione in camicia nera. A fianco del mausoleo già all’epoca Mussolini voleva un «museo delle truppe alpine». Lo accontenterà la «Repubblica nata dalla Resistenza», che nel 1958 vi inaugurerà il Museo nazionale degli Alpini.

Il punto, ovviamente, non è ricordare i caduti.

Si possono ricordare i caduti con entrambe le divise e non dire nulla contro la guerra, contro chi la volle e ne ricavò lauti profitti.

Anche i socialisti del primo dopoguerra costruivano monumenti ai caduti. Ma con parole come queste: «Morirono per avidità di regnanti/ per gelosia di potenti/ che la terra insanguinata/ fecondi/ odio contro la guerra/ maledizioni contro coloro che la benedirono e la esaltarono» (queste parole, scritte sul monumento di Gazzuolo in provincia di Mantova, si possono leggere ora solo sui libri, perchè iscrizioni simili furono tutte distrutte dai fascisti).

«Per la pace» non significa nulla. Anche la Campana di Rovereto, inaugurata nel 1925, ha questo nome, ma fu voluta da Antonio Rossaro, prete interventista e poi fedele del duce, affinché «risuonasse e scuotesse i cuori nella solenne rievocazione di tanti eroi scomparsi». O vogliamo parlare del monumento all’Alpino di via Dante, da cui è partito, nei giorni dell’adunata, un percorso pedonale «per la pace»? Quel monumento fu inaugurato nel 1940 da Leonida Scanagatta, cavaliere del Re e squadrista roveretano della prima ora, tra gli assalitori nel 1921 della Camera del Lavoro di piazza Rosmini. Con gli Alpini già schierati a difesa dell’Italia e dell’Impero, quel bronzo era forse un monito «per la pace»?

D’altronde, che durante l’adunata di Trento in gioco non fosse tanto e solo la «memoria» (quale?), era rappresentato in modo evidente e plastico dallo stand dell’Iveco Vehicles Defense con i suoi Lince in piazza Dante e dai mezzi corazzati dell’esercito al (S.) Chiara.

Con quelli non si racconta la storia né si ricordano i caduti. Con quelli si fa la guerra.

Associazione Nazionale Alpini

Il presidente del Museo storico di Trento, cicerone del capo dello Stato durante la visita sul Doss Trent, ha detto che questa adunata è stata meno retorica e militaresca di altre.

Forse lo «storico» non si è accorto che si svolgeva a Trento e non a Bassano.

Qui, nel 1915-1918, gli Alpini hanno sparato contro i «trentini d’Austria». Ed è un po’ più difficile presentare gli 80 trentini caduti «per l’Italia» come eroi e i 12 mila caduti «per l’Austria» come «barbari austriacanti». Comunque, se nella società i discorsi sulla Vittoria, sul martirio di Battisti, sul sacrificio per la Patria sono oggi meno presentabili non è grazie, bensì malgrado l’Ana.

Se fosse per l’Associazione Nazionale Alpini (l’associazione combattentistica più grossa d’Europa), saremmo ancora ai cappellani militari che benedicono i gagliardetti in nome di Dio, della Patria e dell’Impero (e se, per certi aspetti, ci stiamo ritornando, è proprio perchè negli ultimi vent’anni sono diminuite le resistenze nella società).

Qualche esempio lo dimostrerà anche ai più distratti, persino agli «storici» istituzionali.

L’Ana viene fondata a Milano nel 1919. Il primo direttore del suo bollettino ufficiale, ancora oggi stampato e diffuso, «L’Alpino», è Italo Balbo, comandante squadrista e futuro ras del regime.

Il bollettino si caratterizza per un violento anti-socialismo, come si evince dal nono Decalogo del perfetto Alpino: «Ricordati di odiare i nemici di dentro e di fuori anche in pace, come li hai odiati in guerra». I «nemici di dentro» non sono né la monarchia, né la Chiesa, né la borghesia, bensì i «rossi», cioè gli antimilitaristi, i socialisti, gli anarchici.

Durante il regime la retorica dell’Ana ricalca quella di Mussolini, compreso il motto per cui per l’Alpino «niente è impossibile» (ripreso anche per l’adunata di quest’anno…).

Con la Resistenza, si dirà, cambia tutto. Spostiamoci allora negli anni Cinquanta.

Quando, nel 1959, esce e viene premiato alla Mostra del cinema di Venezia La grande guerra di Mario Monicelli, i vertici dell’Ana e 2350 ex cappellani militari scrivono una lettera di protesta contro un film che, narrando le vicende di due soldati «imboscati» che si «redimono» solo perchè offesi in quanto italiani da parte di un ufficiale austro-ungarico prima della fucilazione, ha lo scopo di «oltraggiare tanta generosa im- molazione offerta all’onore dell’Italia e alla sua salvezza». A sostenere la difesa dell’eroismo militare si schierano, oltre ai deputati missini, le firme più prestigiose del giornalismo italiano (compreso qualche «antifascista»).

Anche durante la polemica di Lorenzo Milani contro i cappellani militari («reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri»; «l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni», scriveva, come è noto, nel 1965 il prete di Barbiana), l’Ana si scaglia contro la «vigliaccheria» della diserzione e dell’obiezione di coscienza.

Ma poi ci fu il ’68, si dirà.

E proprio quell’anno, a Trento, alcuni studenti di Sociologia si lanciarono contro l’auto di Saragat durante l’adunata degli Alpini con un cartello che diceva «600.000 morti inutili».

Certo, ci fu il ’68, la riscoperta dei canti proletari contro la guerra, le ricerche di Mario Isnenghi, gli archivi di scrittura popolare… Ma non per gli Alpini, fedeli nei secoli.

Ancora nel 2015, sul mensile dell’Ana la Prima guerra mondiale è sempre l’eroico compimento del Risorgimento: «riprovevole» la diserzione, «inaccettabile» l’obiezione fiscale alle spese militari. Quando un prete, dalle parti di Vittorio Veneto, si rifiuta di recitare la militarista Preghiera dell’Alpino, l’Ana risponde che «Dio fu con loro» e di «questi uomini furono degni di Dio». Può bastare?

Storici

A partire dagli anni Settanta, fra Rovereto e Trento è nata una generazione di storici attenti alla scrittura popolare e alla storia dal basso. A loro si devono studi e ricerche importanti sui contadini in guerra, sulla contro-memoria, sulle forme di opposizione sociale.

Seguendo i nessi storici dello sfruttamento, ad esempio, troviamo pagine significative su come la meccanizzazione della guerra abbia profondamente cambiato il paesaggio alpino, aprendo le porte al successivo turismo di massa. Ora, si può dire che, con qualche rara e onesta eccezione, questi storici siano affetti da ciò che si potrebbe chiamare schizofrenia opportunistica. Più volte, infatti, li abbiamo ritrovati a fare da appendice a convegni e manifestazioni in cui si sostiene l’esatto contrario di quanto si può trovare nei loro libri, quando non ad assumersi in proprio l’onere di contribuire al mito dell’Alpino.

Consapevoli, tra l’altro, che la memoria collettiva è fatta molto più di monumenti, discorsi mediatici, film, adunate e canzonette che non di storiografia (altrimenti del buon Alpino non rimarrebbe più traccia!). Questo per dire una cosa molto semplice: sono le lotte a cambiare i dibattiti, non gli storici.

Scritte, sassi, sabotaggi e luci spinte

E veniamo ora a quella che si potrebbe chiamare una piccola, minuscola “adunata dei refrattari” (per richiamare il titolo del giornale fondato negli Stati Uniti dall’anarchico

Luigi Galleani).

Quando si tratta del mito intoccabile dell’Alpino, basta poco per creare scandalo.

Reazioni indignate hanno accolto la sparizione di un po’ degli onnipresenti tricolori e il danneggiamento di qualche striscione di “benvenuto” ai cappelli piumati.

Tra l’8 e il 9 maggio si è tenuta, all’interno della facoltà di Sociologia, una due giorni contro la guerra.

Fuori della Facoltà, che per una notte è stata anche occupata, campeggiavano due striscioni: uno per chiarire che «la rivolta non è un’arma da museo» e l’altro contro gli Alpini.

Occorre ricordare che esattamente cinquant’anni fa quella Facoltà fu occupata per settimane e che alcuni studenti vicini a Lotta Continua contestarono platealmente l’adunata degli Alpini (in seguito a quella contestazione, in città si scatenò da parte dei cappelli piumati una vera e propria caccia «al sociologo» con veri e propri pestaggi, in cui vennero coinvolti, in quanto «rossi», persino degli innocui militanti del Pci).

Tutte cose che le mostre storiche istituzionali sul ’68 a Trento ricordano. Ma si sa che le lotte possono essere elogiate dai loro recuperatori istituzionali solo quando… sono morte e sepolte. Che un corpo militare (questo sono gli Alpini, tutt’ora ben presenti in Afghanistan, in Libano, in Libia…) venga definito «assassino», come hanno fatto manifesti e scritte apparsi a Rovereto, a Trento e a Bolzano, dovrebbe essere quasi una constatazione.

Che tra gli iscritti all’Ana ci sia per lo più gente che non ha mai partecipato a guerre e ricorda con il proprio cappello in testa solo di aver fatto orgogliosamente la naja, non cambia nulla.

Anzi.

È proprio questo diffuso sentimento di appartenenza nazional-patriottica che inquina e mistifica.

Se a Trento avessero sfilato solo ufficiali e soldati di professione la natura militarista dell’adunata sarebbe stata più evidente. Ma l’Ana ‒ a differenza, poniamo, della Lega proletaria dei reduci e mutilati di guerra ‒ è stata fondata da interventisti e nazionalisti, il cui scopo non era far pagare la guerra a chi l’aveva voluta, bensì attaccare chi vi si era strenuamente e coraggiosamente opposto.

In tal senso, figure come quella di Battisti sono state molto più nocive per il campo proletario di quelle di un Marinetti o di un D’Annunzio. La retorica del Risorgimento compiuto attraverso la Prima guerra mondiale, tipica dell’interventismo democratico e poi del fascismo, la ritroveremo negli accenti patriottici della Resistenza e nella propaganda dell’Anpi degli anni Cinquanta.

Nella stessa notte in cui la facoltà di Sociologia veniva occupata, è stato preso a sassate da anonimi antimilitaristi un punto vendita degli Alpini. La titolare del negozio, a cui il presidente della Provincia in persona ha portato un mazzo di fiori in segno di scuse, ha affermato che non le era mai capitato nulla di simile nelle tante adunate a cui ha partecipato. E ha aggiunto, per sottolineare la natura inqualificabile di quei sassi, che la propria azienda fornisce le divise alle forze amate e alle forze di polizia.

A proposito di «violenza», sarà il caso di notare che quelle divise hanno degli uomini dentro, dotati di armi, scudi e manganelli che hanno colpito e colpiscono manifestanti, scioperanti, immigrati e inermi popolazioni civili.

Il pomeriggio precedente l’adunata, ignoti hanno tagliato i cavi e distrutto i led che alimentavano il cappello illuminato di Villa Lagarina, «uno dei più grandi mai realizzati», come ci informano i giornali. È rimasto spento per una giornata.

Nella notte precedente l’adunata, dei sabotaggi hanno colpito le centraline elettriche e i cavi di alimentazione sulla linea ferroviaria del Brennero e su quella della Valsugana. I giornali dicono che sono stati incendiati anche i cavi della Trento-Malè, senza tuttavia causare blocchi o rallentamenti.

Complessivamente, gli incendi hanno provocato la soppressione di una trentina di treni e consistenti ritardi fino al pomeriggio del giorno dopo. Questo sabotaggio ha dato particolarmente fastidio perchè strideva non solo con il clima di dichiarata unanimità a favore dell’adunata (l’unanimismo a pretese totalitarie non permette smagliature), ma anche con l’imponente apparato di sicurezza messo in piedi ed elogiato dai giornali: centrale operativa comune alle diverse forze di polizia, nuclei «antiterrorismo», tiratori scelti sui tetti, elicottero…

Reazione

I limiti dell’insulto democratico. Titoli di giornali, editoriali e prese di posizione politiche o questurine hanno fatto emergere lo sforzo di raschiare il fondo del barile degli epiteti di riprovazione. I gesti di contestazione, in particolare i sabotaggi, e gli anarchici per estensione, sono stati definiti «scemi», «ignoranti», «deliranti», «mentecatti», «deficienti», con l’aggiunta cautelativa di «isolati» e di «quattro gatti».

L’ineffabile questore D’Ambrosio ha parlato di «gente senza storia né memoria». Poi, essendo quasi finita la rosa dell’insulto politicamente corretto, ha aggiunto: «reietti» (improbabile, nel suo caso, la suggestione de I reietti dell’altro pianeta della romanziera anarchica Ursula Le Guin).

Sarà il caso di far notare al questore che gli anarchici sono stati tra i più fermi oppositori della Prima guerra mondiale, avversari coerenti e risoluti dei Mussolini, dei Battisti, dei Corridoni, e che erano già attivi in questo Paese settantanni prima che nascesse la Repubblica che gli paga lo stipendio?

Se è stata una bella gara reazionaria quella di urlare alla repressione e di esprimere solidarietà agli Alpini «portatori di pace e solidarietà», le più viscide mistificazioni sono arrivate, come al solito, da sinistra.

Solo il presidente del Consiglio provinciale Dorigatti (PD) e il presidente provinciale dell’Anpi Cossali (PD) hanno parlato, a proposito dei sabotaggi ferroviari, di «minacce terroristiche» e di «atti di stampo terroristico, che mettono a repentaglio la vita dei cittadini». Peccato che sugli stessi giornali i tecnici di RFI impegnati nel ripristino delle linee dichiarassero: «In realtà non c’è stato pericolo per gli eventuali passeggeri in quanto automaticamente, al momento del danneggiamento della centralina, i semafori diventano rossi e quindi eventuali treni in transito bloccano la loro corsa». L’unica cosa «dei cittadini» che viene messa «a repentaglio», in questo fiume di maldestre menzogne, è il più basilare senso critico.

Se Cossali, ex «leader di Lotta Continua», difendendo gli Alpini che i suoi stessi compagni contestavano cinquant’anni fa dimostra semplicemente quanto popolato sia il mondo dei voltagabbana, in quanto presidente dell’Anpi segue invece una via tutt’altro che incoerente. Su «Patria indipendente», il quindicinale dell’Anpi fondato nel 1952, costante quanto mistificatorio è il parallelo tra gli Alpini del ’15-’18 e i partigiani del ’43-’45. E nelle polemiche degli anni Cinquanta contro la Democrazia Cristiana, con cui lo stalinismo voleva competere sul terreno nazional-patriottico, De Gasperi veniva definito… «austriaco».

Per quanto ci riguarda preferiamo ricordare il socialista e poi anarchico Emilio Strafelini di Rovereto, il quale nel 1914 disertò dall’esercito austro-ungarico non per passare a quello italiano, ma per darsi anima e corpo alla propaganda antimilitarista e internazionalista.

Così come facciamo nostre le parole di un manifesto del 1916 firmato i senza patria: «Ai Battisti, ai Corridoni ecc. ecc. caduti per una patria, per un re, per un militarismo, noi contrapponiamo il sacrificio fecondo di Bresci, di Caserio, di Angiolillo, di Adler. … Viva la rivoluzione sociale ‒ A morte i tiranni d’Europa».

A proposito di degrado

Per l’adunata è stata sospesa l’ordinanza comunale che vieta di bere alcol nei parchi.

Ciò che, fatto da studenti o immigrati o senza fissa dimora era fino al giorno prima «degrado», è stato trasformato da trecentomila Alpini in «festa», «amicizia», «solidarietà».

Se un qualsiasi corteo o altra iniziativa non istituzionale avesse lasciato strade e piazza cento volte meno lerce di rifiuti dietro il proprio passaggio, il coro dei benpensanti avrebbe tuonato per giorni, chiedendo il pugno di ferro contro gli «incivili».

Invece, trattandosi di Alpini, nessuna critica.

Per diversi abitanti, tagliati fuori dalle loro strade abituali, l’adunata ha provocato un disagio assai più duraturo di quello causato ai passeggeri dei treni rimasti fermi il primo giorno per via dei sabotaggi. Gli unici a trarre profitto da queste tre giornate, oltre ai politici e ai militari, sono stati i commercianti del centro, il cui giro d’affari è aumentato esponenzialmente. Per questo erano tutti animati dal senso di Patria (che guarda caso coincideva con i loro interessi di bottega).

Per avere un esempio al contrario, bastava farsi un giro a Riva del Garda. Dal momento che albergatori, ristoratori e commercianti vivono grazie ai turisti tedeschi, lì di tricolori ce n’erano davvero pochini. Meno patrioti i rivani?

Ultima nota, più seria. Un collettivo femminista e diverse donne hanno denunciato l’atteggiamento sessista e molesto da parte di gruppi di Alpini avvinazzati: apprezzamenti viscidi e palpeggiamenti. Di questa «goliardia» tutta maschile e militare c’era anche un corrispettivo dichiarato: il torneo di miss alpina bagnata, che consisteva nell’annaffiare con la birra la ragazza trentina «più carina». Un giornale ha anche parlato dell’arrivo in città di qualche centinaio di prostitute straniere per l’occasione.

Italiani brava gente. Come si può vedere, anche senza bombardamenti, le divise portano con sè sempre il proprio mondo.

Un mondo che fa schifo. Un mondo da sabotare. 14 maggio 2018

romperelerighe

romperelerighe.noblogs.org

Bibliografia minima

‒ Ernesto Rossi, I padroni del vapore. La collaborazione Fascismo-Confindustria durante il Ven- tennio, Kaos, Milano, 2001
‒ Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BSF, Pisa, 2014

‒ Ugo De Grandis, Guerra alla guerra! I socialisti scledensi e vicentini al “processo di Pradama-no” (luglio-agosto 1917), Schio, 2017
‒ Quinto Antonelli, Cento anni di grande guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie, Donzelli, Roma, 2018

Congresso mondiale delle famiglie: il Circo Barnum del regresso

Da MicroMega 25 Marzo 2019 dc:

Congresso mondiale delle famiglie: il Circo Barnum del regresso

di Adele Orioli

Si scrive Congresso mondiale delle famiglie si legge intolleranza e inciviltà. Molti occhi sono puntati su Verona dove per il prossimo fine settimana si terrà un apparentemente innocuo consesso dall’altrettanto apparentemente rassicurante titolo di Congresso mondiale delle famiglie, organizzato annualmente in varie parti del globo dall’Organizzazione mondiale per la famiglia (IOF), lobby cristiana statunitense sorta con il dichiarato scopo di “unire e dotare i leader di tutto il mondo di strumenti per promuovere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società”.

Dove per famiglia naturale, casomai ci fossero dubbi, è da intendersi esclusivamente “l’unione di un uomo e una donna in un’alleanza permanente suggellata col matrimonio” e dalla quale deriva evidentemente la netta condanna di tutto ciò che non ne sia pienamente conforme.

D’altronde la stessa nascita dell’Iof, consacrata a Praga nel 1997 con la prima edizione di questo Congresso, prometteva male: da una sinergia tra il white nationalism americano e il suo omologo russo, in particolare dalle prime elaborazioni di Allan Carlson, reganiano di ferro, Anatoly Antonov e Viktor Medkov che identificano nella rivoluzione sessuale e femminista la causa della crisi demografica occidentale, evidentemente non sono nati diamanti.

Le donne (bianche) non sono più le incubatrici di una volta, urge correre ai ripari e riunire sotto la stessa egida quante più lobbies e quanto più conservatrici (ultrà conservatori, per usare la definizione di Ulrika Karlsson, del Forum parlamentare europeo sulla popolazione e lo sviluppo) possibili. Detto fatto, e anche se con qualche interruzione e qualche battuta di arresto, grazie anche a ingenti donazioni, si mormora filogovernative russe, il Wfc è pronto a sfoderare la sua pletora di oscurantismi questa volta in salsa scaligera.

Va detto che per quanto la preminenza resti al fondamentalismo cristiano, spinte probabilmente dall’adagio del “il nemico del mio nemico è mio amico”, anche retrograde componenti di religione ebraica e islamica si sono man mano aggiunte al consesso, affinando le armi non solo propriamente retoriche contro tutto ciò che non sembra, o peggio che non vuole, corrispondere a una rigida visione omofoba, sessista e patriarcale dei rapporti socio affettivi. Iniziative brillanti come il pieno appoggio alla legge russa sulla propaganda gay del 2013 (più correttamente, Legge per lo scopo di proteggere i bambini dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia) o della criminalizzazione dell’omosessualità in Uganda hanno fatto guadagnare al Wfc l’inserimento nella lista dei gruppi d’odio da parte delle maggiori associazioni a tutela dei diritti umani e lgbtq.

D’altronde basta buttare un veloce sguardo agli ospiti internazionali attesi dalla città di Giulietta per capire come tiri una brutta, bruttissima aria, e come il vento del cambiamento, per citare lo slogan scelto dallo stesso Wfc sia in realtà un miasma oscurantista e aberrante nella sua tranquilla sfacciataggine negazionista dei diritti umani.

Si va dal patriarca ortodosso Dimitri Smirnov (“chi sostiene l’aborto è un cannibale” e “l’omosessualità è contagiosa come la peste” tra i suoi aforismi migliori) a Igor Dodov, quel presidente della Moldavia che per festeggiare la suprema carica ha pensato bene di chiosare con un “Non ho mai promesso di essere il presidente degli omosessuali, avrebbero dovuto eleggere il loro presidente”. Dalla croata Zeljka Markic, promotrice del referendum che ha escluso nel suo Paese il matrimonio samesex e che preferirebbe dare un figlio ad un orfanotrofio piuttosto che a una coppia omosessuale, alla nigeriana Theresa Okafor che considera il preservativo “una trappola, esportata in Africa per soffocare la vita”.

Dalla parlamentare ugandese che sostiene la pena di morte per il reato di omosessualità allo stesso fondatore Carlson, che ringrazia i partecipanti “a questa crociata morale e sociale”, fino al presidente del Iof, Brian Brown, accanito sostenitore delle terapie riparative o di conversione.

Il Gotha del fondamentalismo integralista religioso, il Circo Barnum del regresso.

Ma ancora non si è detto delle illustri presenze nostrane. In prima fila la proctologa Silvana de Mari, quella che ritiene il sesso anale rito iniziatico al satanismo e che è stata condannata per diffamazione aggravata e continuata a mezzo stampa delle persone Lgbti. Non ultimo, il portavoce di Pro Vita, Alessandro Fiore casualmente figlio di quel Roberto leader di Forza Nuova.

Ma, soprattutto, gli esponenti istituzionali. E qui è uno dei veri nodi del problema, perché il Wfc è un problema. È lecito per uno Stato che si dice democratico, che si suppone laico o quantomeno pluralista, appoggiare istituzionalmente un gruppo che nega il diritto all’aborto e in generale all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva, che fomenta l’odio, che pratica l’omofobia, che finanzia falsi studi per dimostrare la correlazione tra matrimonio egualitario e pedofilia o tra aborto e cancro al seno, che considera l’emancipazione femminile un danno sociale?

No, ovviamente. A meno che il suddetto Stato non sia il nostro.

E allora schieràti fra gli ospiti abbiamo il ministro dell’Interno Salvini, il ministro della famiglia rigorosamente al singolare Fontana, il ministro dell’Istruzione Bussetti.

E ormai quasi poco importa il ridicolo balletto dei patrocini: revocato ufficialmente quello della Presidenza del Consiglio, dopo peraltro migliaia di firme raccolte dalla petizione lanciata da All out e un coro non indifferente di polemiche, rimane quello del ministro senza portafoglio Fontana, quello della Regione Veneto, quello della Provincia di Verona e, in impulso di solidarietà, quello della regione Friuli Venezia Giulia (che, come ironicamente commentato sul web, d’ora in poi si chiamerà solo Friuli Venezia che in omaggio ai principi del Wfc Giulia è rimasta a casa a lavare i piatti).

Poco importa il pallido tentativo di smarcamento della componente gialla del governo bicolor, anche se va sottolineato che fra organizzatori e ospiti stiamo parlando di persone direttamente responsabili della severa negazione di diritti altrui, di discriminazioni e in taluni casi di vere e proprie persecuzioni. Un po’ troppo, per dei semplici sfigati come sostiene che siano un sottovalutante Di Maio.

Una passerella grondante odio e anche letteralmente sangue: nel mondo, più di dieci i Paesi che puniscono con la morte la blasfemia, un terzo del totale considera a vario titolo l’omosessualità un reato.

Persino la Chiesa Cattolica, dotata di un ottimo livello di equilibrio egoista, si è smarcata, a suo modo, dal Wfc tramite il segretario di stato vaticano Parolin, peraltro ospite della passata edizione. Preoccupati, dicono, dal rischio dell’uso strumentale di valori per obiettivi politici, condividono la sostanza ma non il metodo. E sulla sostanza, come smentirli? D’altronde tra un cannibale abortivo o un sicario alla Bergoglio tanta differenza non sembra in effetti passare. Sul metodo, diamo atto alle gerarchie ecclesiastiche, pontefice massimo in testa, di avere un utilizzo decisamente più raffinato della metafora e della parafrasi.

Tutto qui? No, per fortuna no. Perché c’è anche un’altra Verona e un’altra Italia. E per la prima volta al Wfc si opporrà una vera e propria sinergia di piazza tra associazioni e movimenti nazionali e internazionali, quell’insieme di società civile che l’oscurantismo non lo avalla e non lo accetta, che guarda avanti e non indietro, che è pronta per il rispetto e il riconoscimento delle differenze, che “naturale” considera l’autodeterminazione e non dogmi retrivi o visioni patriarcali della società.

L’Uaar e l’IPPFEN (International Planned Parenthood European Network) in collaborazione con Rebel Network insieme a una vastissima rete di associazioni e movimenti hanno organizzato un convegno per il 30 marzo, presso l’Accademia dell’agricoltura, lettere e scienze, uno spazio di riflessione comune che porterà poi al corteo previsto nel pomeriggio e organizzato dal collettivo femminista Nudm (Non Una Di Meno).

Ora più che mai è necessario coagulare le forze contro questo tornado oscurantista che seriamente rischia di minare diritti conquistati con fatica nel corso di anni se non secoli e diritti ancora lontani dall’essere pienamente riconosciuti e tutelati. Perché saremo anche a Verona, ma non restiamo al balcone.