La banda del buco: il fallimento della Zincar


Dal bimestrale on line Paginauno www.rivistapaginauno.it , Numero 14 ottobre-novembre 2009

Inchiesta

La banda del buco: il fallimento della Zincar

Come il denaro pubblico scompare in tasche private

di Giovanna Baer

(articolo con licenza Creative Commons)

Sommersa da almeno 20 milioni di euro di debiti, la Zincar è affondata.
“È la prima volta che una società partecipata dal Comune viene dichiarata fallita” afferma Basilio Rizzo, consigliere comunale della lista Fo; “le responsabilità sono da ricercare all’interno della maggioranza, che da sempre la gestisce”.
Solo i soci, a cominciare dal comune di Milano che detiene la maggioranza delle azioni, ma anche la A2A che ne possiede il 27%, avrebbero potuto evitare il peggio, ma la giunta cittadina, che aveva cercato di salvarla in extremis con una liquidazione in bonis, si è disimpegnata a sorpresa. Spiazzata dalla decisione dei liquidatori di inviare un esposto in procura, non ha ritenuto conveniente ricapitalizzare con la spada di Damocle dell’inchiesta che pende sul capo: è stata appena sanzionata dalla Corte dei Conti per le consulenze d’oro distribuite dal sindaco Moratti, e ora con la Zincar rischia di ritornare sul banco degli imputati. A novembre 2008 la giunta aveva affidato ad Angelo Provasoli e Angelo Casò il compito di evitare il fallimento, trovando un accordo fra le parti entro il 16 giugno scorso, giorno in cui scadeva la possibilità legale di esercitare azioni revocatorie e recuperare i beni societari; ma a fine maggio un’istanza presentata dalla Edilt, un fornitore che non veniva pagato da mesi e che reclamava ben 3 milioni di euro, ha innescato il crack.
Secondo la ricostruzione fatta in commissione Bilancio dai due liquidatori, i debiti della Zincar non sono calcolabili allo stato attuale, e sarà compito del giudice verificare se siano stati commessi reati. Provasoli è convinto che di reati ce ne siano stati eccome, anche di natura non fallimentare, compiuti con l’intento specifico in parte di occultare le reali condizioni finanziarie e patrimoniali della società, e in parte di danneggiarla direttamente. Per Vincenzo Giudice, l’esponente del Pdl che presiede il consiglio di amministrazione della Zincar dal 2007, portare i libri in tribunale “è stata una pazzia”.

Vincenzo Giudice è nato a Salerno nel 1957 ma, come si legge nel curriculum vitae pubblicato sul sito del comune di Milano, è milanese di adozione. Che cosa abbia fatto prima di arrivare a palazzo Marino con Albertini nel 1997 non è molto chiaro: il documento sostiene sia stato dal 1978 (da quando aveva solo 21 anni, dunque) “dirigente della direzione sanitaria del Pio Albergo Trivulzio”, il più importante istituto geriatrico cittadino, finito spesso sotto la luce della ribalta giudiziaria. Ma che tipo di dirigente? Direttore sanitario non poteva esserlo, dal momento che nel suo curriculum non c’è traccia di un titolo di studio, e tanto meno della laurea in medicina che la legge giudica necessaria per ricoprire il prestigioso ruolo.

Qual era dunque la sua funzione all’interno del celebre gerontocomio? Le cronache milanesi aiutano a colmare il vuoto. Un articolo del Corsera del febbraio 2001 titola Appalti e concorsi, ombre sulla Baggina: l’ennesimo caso di assunzioni effettuate senza seguire l’iter e di appalti esterni assegnati con trattativa privata. Vincenzo Giudice, “consigliere di Forza Italia e contemporaneamente dipendente dell’istituto, con un passato ultradecennale di sindacalista Uil”, chiama in causa il presidente del consiglio di amministrazione dell’istituto e chiede polemicamente, in aperto riferimento a Mario Chiesa: “Davvero un manager onesto ma incapace è meglio di uno disonesto ma in gamba?”. Forse a questa affermazione, col senno di poi, non è stato dato il giusto peso, ma almeno l’articolo chiarisce quale fosse la posizione di Giudice alla Baggina: infermiere. Tuttavia se era infermiere nel 2001 pare difficile fosse dirigente nel 1978. Le accuse lanciate all’epoca gli costarono addirittura una denuncia per danni d’immagine da parte dei suoi datori di lavoro, che andava ad aggiungersi all’altro contenzioso aperto con il Pio Albergo Trivulzio e riguardante il recupero di duemila ore di lavoro (pari a 250 giorni) per il periodo precedente il suo ruolo di consigliere comunale.

Pare dunque che Vincenzo Giudice sia l’ennesimo sindacalista con poca voglia di lavorare che ha scoperto negli anni ’90, grazie alla discesa in campo di Berlusconi & company, la sua vera vocazione, ossia la politica. E i fatti gli hanno dato ragione: dal 1997 ha sempre occupato una poltrona in consiglio comunale, ha presieduto per tre anni il gruppo di Forza Italia a palazzo Marino e attualmente è componente delle commissioni consiliari Bilancio, Arredo urbano, Sviluppo del territorio, Sport e giovani, Casa e demanio ed è presidente della commissione Infrastrutture e lavori pubblici. Su delega di Gabriele Albertini è stato, dal 1999 al 2002, vicepresidente del Parco agricolo sud Milano. Dal 2002 al 2007 è stato vicepresidente del Cimep (Consorzio intercomunale milanese edilizia economica popolare), e nel 2007, su spinta di Letizia Moratti, ha fatto finalmente il grande salto: presidente del consiglio di amministrazione della Zincar.
Se dunque è lecito, considerando il curriculum vitae, interrogarsi sulle competenze manageriali del soggetto, non ci sono dubbi sulla sua innata capacità di cavalcare l’onda: anche oggi, dopo il crack da 20 milioni, il sindaco continua a fare affidamento sulle sue doti particolari, e l’ha collocato in tutta fretta alla direzione della Metro Engineering, una società del gruppo Metropolitane milanesi. Con buona pace della mobilità sostenibile, delle casse cittadine e del suo collega nella Zincar Giannicola Rocca, che a quanto risulta dai verbali dell’ultima seduta del consiglio di amministrazione lo definisce “una testa di cazzo”.

La Zincar (acronimo di Zero Impatto Non Carbonio) nasce nel 1999 come joint venture fra Edison Termoelettrica e Aem, azienda energetica municipalizzata del comune di Milano con un passato non limpidissimo (1), ora diventata A2A e quotata in borsa. Lo scopo della joint venture era quello di “sperimentare la tecnologia delle celle a combustibile solido dette zinco-aria su una flotta di cento furgoni elettrici per il trasporto merci”. Due anni dopo, Aem assorbiva le quote di Edison diventando socio unico, e decideva di riposizionare la mission aziendale nel campo della mobilità urbana sostenibile. Nel 2005 il comune di Milano entrava direttamente nel consiglio di amministrazione con il pacchetto di maggioranza delle quote. Perché la giunta Albertini, di certo non nota per le sue simpatie ambientaliste, abbia considerato necessario investire nella Zincar è questione non approfondita dalle cronache, ma meriterebbe maggiore attenzione se è vero che, come in molti sostengono oggi, già al momento del passaggio delle azioni l’azienda presentava “passività di bilancio mascherate”. Forse palazzo Marino considerava la mobilità sostenibile di importanza strategica per i suoi obiettivi politici? O forse la decisione di acquistare aveva l’obiettivo di mitigare le sofferenze di bilancio di Aem (di proprietà del Comune) in vista della sua quotazione in borsa? Fatto sta che le perdite della Zincar in pochi anni, sotto la presidenza di Antonio Bardeschi prima (ex dirigente del settore informatico di Atm) e di Vincenzo Giudice poi, diventano un buco spaventoso, fatto di fatture pagate due volte, conti correnti a profusione, risorse dirottate da un progetto all’altro, forniture inutili che la ragioneria del Comune pagava senza contestazioni né verifiche.

Nei contratti della Zincar visionati dai liquidatori risultano voci come “sviluppo e coordinamento marketing” (120.000 euro) e “spese di comunicazione” (100.000 euro), queste ultime pagate alla società Ap&B che ha come socio Massimo Bernardo, fratello del deputato del Pdl Maurizio Bernardo: cifre folli per far conoscere una società di cui nessun cittadino milanese ha mai sentito parlare. Nel bilancio 2007 (l’ultimo depositato e che la società di revisione Ernst & Young si è a suo tempo rifiutata di certificare), a fronte di ricavi poco inferiori ai 5 milioni di euro, i costi di produzione erano pari a 5,3 milioni, di cui ben 3,4 destinati ai servizi. Tra le passività figuravano 16,4 milioni di euro di anticipi ricevuti dalla controllante (il Comune), debiti verso fornitori per 2,2 milioni e verso le banche (la Popolare di Sondrio e dell’Emilia) per altri 1,7 milioni. Le perdite di esercizio, 400.000 euro, sei mesi dopo, cioè a giugno 2008, erano già salite a 700.000 euro, in un’esplosione di consulenze gestite a dir poco in modo non molto cristallino (460.000 euro), e di costi che hanno del surreale: per gli stipendi (due dirigenti e dieci dipendenti) 1,011 milioni di euro; per gli affitti degli uffici in via Albricci 189.000 euro all’anno, più 18.000 di spese condominiali; e ancora, costi che non dispongono di una documentazione idonea per essere considerati riferibili all’oggetto sociale e all’attività aziendale, come l’Apologia di Galileo (Verbania), l’interpretariato in lingua greca per visita alla municipalità di Thermi (Grecia), l’evento Momo e il Principe (Pallanza), o il concorso Valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano-Cusio-Ossola.

A questo proposito, bisogna notare che le manifestazioni finanziate sulla sponda grassa del lago Maggiore sono davvero tante, dalla mostra Arnaldo Ferraguti al museo del Paesaggio di Verbania, allo spettacolo teatrale Io, Caravaggio, luce nelle tenebre a Pallanza: forse perché fra i soci in affari della Zincar c’è la Tai di Mario Grippa, dipendente (con conflitto d’interessi?) della direzione Mobilità e ambiente del comune di Milano e che abita, guarda caso, proprio a Verbania.
Ma c’è di più, e di peggio: tra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008 la Zincar ha pagato interamente una mezza dozzina di lussuose trasferte a Plovdiv, seconda città della Bulgaria, al presidente Vincenzo Giudice e alla sua pattuglia di consulenti o sedicenti tali, per un totale di decine di migliaia di euro, nonché diverse controtrasferte di una delegazione bulgara a Milano, apparentemente per la validazione di un progetto di costruzione di una centrale eolica, di cui tuttavia non si trova riscontro in bilancio. Fra il gruppo con cui Giudice prendeva abitualmente il volo c’è anche un ottantenne sottufficiale dell’esercito in pensione, tale Giuseppe Roselli, che ama presentarsi ai suoi interlocutori come un generale. Roselli è una vecchia conoscenza di Domenico Scarcella, anche lui consulente a libro paga Zincar, un ingegnere che vanta agganci importanti con il ramo Pdl della politica milanese: siede infatti nel consiglio di amministrazione di Amsa, l’azienda municipale per la raccolta dei rifiuti, e in passato è stato amministratore della Metropolitane milanesi. Scarcella, come il brindisino Calogero Casilli, un altro socio Tai ed ex membro del dipartimento Trasporti di Forza Italia, disponeva addirittura di un ufficio tutto suo presso la sede della società milanese.
E ancora: fra i consulenti superpagati salta agli occhi il nome di Fabio Ghioni, l’hacker a capo della famigerata security di Telecom ai tempi di Giuliano Tavaroli, già arrestato un paio di volte e sotto inchiesta penale per pirateria informatica. Sarà un caso che nel consiglio di amministrazione della Zincar sieda anche Giannicola Rocca, avvocato casentino amico e collaboratore di Marcello Gualtieri, il commercialista finito in carcere tre anni fa con l’accusa di aver costruito la rete di società ombra che servivano a nascondere i soldi della banda di Tavaroli nei paradisi fiscali? Ma perché, tra tanti professionisti qualificati e affidabili, Vincenzo Giudice sceglie proprio Ghioni, un esperto di incursioni fuori legge e trasferimenti off-shore – per risolvere, così dichiarano gli interessati, problemi relativi alla legge sulla privacy e a quella sulla responsabilità penale delle aziende? Le domande restano, e dei fondi spariti si è persa ogni traccia.

La gestione della Zincar è costellata di buchi neri e carenze gestionali. Secondo i liquidatori la società “non aveva attivato i più elementari strumenti di programmazione e controllo della produzione”, “mancava una stima puntuale dei costi totali previsti in fase di sottoscrizione dei disciplinari e di partitura delle commesse”, “veniva omesso l’aggiornamento periodico dei preventivi, l’attività negoziale risultava approssimativa e l’oggetto delle commesse veniva descritto in modo generico”. Accanto a molte voci di spesa, revisori e liquidatori annotano i commenti “nessuna evidenza di servizio reso” e “non inerenti nessuna commessa”. Gli archivi della Zincar “non contengono carte che ricostruiscano l’evoluzione degli accordi sulle commesse sia nei contenuti tecnici sia nei costi che nei corrispettivi”, e l’analisi svolta “ha posto in luce comportamenti che non paiono informati al rispetto degli interessi e degli obiettivi della società”.
Ma se una società non viene gestita per fare quello che, stando all’oggetto sociale, dovrebbe fare, a che cosa serve? E chi, e per quali ragioni, troverebbe convenienza nel rivolgersi alle dubbie competenze della Zincar?

Per conto del Comune la società stava realizzando alla periferia di Quarto Oggiaro “un centro di informazione e formazione per i cittadini sui temi della sicurezza”: per questo centro, di cui tutti i milanesi sentivano l’imprescindibile necessità ma che a quanto pare non esiste, l’Unione europea ha stanziato 3,5 milioni di euro e il ministero dei Trasporti addirittura 4,3 milioni di euro, già approvati dalla Corte dei Conti. Lo stesso ministero ha pronti altri 6 milioni per il completamento di un progetto, egualmente fondamentale ed egualmente virtuale, che analizzi “i microrischi relativi al trasporto di merci pericolose in ambito urbano”. Per non parlare della manutenzione degli scooter elettrici della polizia (qualcuno a Milano ha mai visto un poliziotto in sella al suo ecomezzo?) per cui non si trova a bilancio nessuna commessa. Viene da chiedersi che ruolo possa avere avuto la Zincar nella costruzione del nuovo centro direzionale dell’università Bocconi, da cui ha ottenuto una commessa pari a quasi 2 milioni di euro. Fatto sta che è proprio all’amico Angelo Provasoli, rettore della Bocconi dal 2004 al 2008, e al super commercialista Angelo Casò, anche lui bocconiano, che Letizia Moratti si rivolge per salvare il salvabile, o quanto meno per evitare il peggio. Ovviamente dietro giusto compenso, niente meno che 452.000 euro.

Più che un’azienda dedita ad attività ecologiche, la Zincar appare un grande pozzo in cui entrano finanziamenti ed escono (a non voler pensare troppo male) regali e sovvenzioni ai sostenitori e ai compagni di partito.
In altri termini, la mobilità sostenibile “rappresenta una scusa per la distrazione di risorse pubbliche e per distribuire fondi a società create ad hoc e riferibili a persone interne all’amministrazione comunale”. A pronunciare questa frase non è un pm, e nemmeno un consigliere dell’opposizione, ma lo stesso Vincenzo Giudice all’indomani del fallimento e dell’apertura di un’inchiesta per peculato. Forse per chiamarsi fuori dagli impicci puntando il dito, come già aveva fatto negli anni della Baggina, secondo il classico modello di disimpegno berlusconiano che impone di negare sempre l’evidenza e, qualora non sia proprio possibile, gridarsi vittima di un complotto.
Dimenticando che nell’agosto 2007, a soli tre mesi dalla sua nomina a presidente della Zincar, si era personalmente precipitato a Brindisi a fondare la Socit, di cui risulta amministratore unico, il cui oggetto sociale, guarda caso, sono “i prodotti correlati alla mobilità sostenibile”.
Chi ne sia il proprietario non è dato saperlo (il capitale sociale fa capo a due fiduciarie), ma la Socit ha sede allo stesso indirizzo in cui è domiciliato il Consorzio mobilità sostenibile di cui è membro, sempre per caso, anche la Zincar. Forse che lo stesso Giudice intendesse partecipare alla famigerata distribuzione di risorse della collettività che tanto coraggiosamente denuncia? E forse che il buon Ghioni servisse davvero, con le sue indubbie capacità di prestigiatore informatico, per trasformare fondi pubblici in ricchezze private? Alla magistratura il compito di rispondere. Ai poveri milanesi, quello di assistere impotenti all’ennesimo disastro della banda Moratti.

(1) i vertici di Aem sono stati citati in giudizio per un brutto affare che riguarda i contatori di vecchia generazione fino a pochi mesi fa ancora in funzione nelle case di molti milanesi. È dato per certo dai pm che indagarono sul caso (il processo è tuttora in corso) che il top management di Aem, pur consapevole del fatto che queste macchine sopravvalutavano i consumi energetici gonfiando le bollette degli ignari cittadini, decise di far finta di nulla e di approfittare del ‘fortunato’ problema tecnico, truffando consapevolmente i propri clienti

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Autore: Jàdawin di Atheia

Nato a Milano nel 1954 dc

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