Cultura


Cultura

(letteratura, scienza, arte, religioni, ateoagnosticismo, anticlericalismo etc.)

Un discorso sulla cultura sarebbe lungo. I più “vecchi” tra voi ricorderanno senz’altro che nell’estrema sinistra, negli anni ‘70, si parlava di CULTURA BORGHESE e CULTURA PROLETARIA. Beh, era una scemenza, ed io non ne parlerò affatto. Per me c’è solo la cultura, tutta. Le valutazioni le faccio dopo averne partecipato. Tutto, in letteratura e nell’arte, può essere interessante. Anche i romanzi rosa sono cultura. Liala, Wilbur Smith, Michel Crichton, Stephen King, John Forsyte, Carolina Invernizzo, Diabolik, Tex, Corto Maltese, Linus, Ernest Hemingway, Herman Hesse, Topolino, …….cultura! Ognuno fa la scelta di lettura che più gli aggrada, a seconda dei gusti del momento. Non penso sia giusto avere preconcetti nei confronti di alcuna corrente artistica. Una cosa mi preme, però: che si legga, si scriva e si parli italiano corretto. Cosa alquanto rara, di questi tempi. E, naturalmente, sono favorevole a che si diffonda sempre di più una lingua che aiuti tutte le persone del mondo a capirsi, come potrebbe essere l’esperanto, o che se ne inventi una completamente nuova.

Cercherò di riempire questa pagina, per quanto mi è possibile, con notizie varie  di cultura, commenti, articoli dalla stampa e dal web. Anche in questa pagina rientreranno argomenti quali l’ateismo, l’agnosticismo, l’anticlericalismo, la critica alle religioni*.

Riguardo la cultura, devo precisare che detesto lo snobismo, l’autoreferenzialità, insomma, detto con espressione più chiara: il darsi troppa importanza, il dare troppa importanza a quello che si fa o si dice o si scrive (che, spesso, e scusatemi se sembro – ma forse lo sono – troppo semplice e ignorante o poco intelligente per capire, finisce per dimostrare, come nella canzone di De Gregori, che proprio “non c’è niente da capire”), in definitiva fare come nel detto romano “se la canta e se la suona”…

Probabilmente è più vero che sono io che sono poco intelligente e preparato per capire certi discorsi e concetti complicati (del resto l’ho anche scritto da qualche parte in questo sito) ma…non so, ho spesso questa impressione: che certi personaggi siano veramente bravi a complicare ad arte quello che fanno o dicono per darsi più importanza mentre la realtà è molto più semplice….

Di esempi ce ne sono a tonnellate: solo per citarne due, legati tra loro, faccio i nomi di Jacques Lacan e Armando Verdiglione. Il primo è un famosissimo psicanalista del tutto incomprensibile e il secondo è il suo ambasciatore in Italia, furbo e astuto che ha capito tutto: l’importante è….sembrare importante, e farsi capire il meno possibile. I furbi faranno finta di avere capito, e gli imbecilli, se resta loro un minimo di buon senso, preferiranno tacere e applaudire.

*a volte mi trovo in difficoltà nel decidere in quale pagina inserire un testo….


Sottoscrivo pienamente e pubblico contemporaneamente anche sul mio blog https://jadawin4atheia.wordpress.com/, su Hic Rhodus il 28 Giugno 2017 dc:

Perché è corretto dare dell’ignorante

di SignorSpok

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Siamo talmente abituati ai benefici della civiltà da aver permesso a troppi di dimenticare da quanta conoscenza e disciplina essi dipendano. Si, la vita lunga, le cure mediche, l’acqua corrente, gli antibiotici, le auto, i viaggi intercontinentali, internet, la conoscenza disponibile gratis e persino i giochi sulle playstation: tutto questo è costato moltissimo alle migliori menti delle generazioni passate, ma sempre più persone non sanno o peggio combattono attivamente la conoscenza che gli permette di vivere, consentitemi l’espressione, molto al di sopra delle loro possibilità.

Per quale motivo? Perché la narrazione, ideologizzata e politicizzata, della realtà ha preso il posto della realtà stessa. Ce ne siamo occupati, en passant, 3 anni fa qui.

Da allora la situazione è molto peggiorata. I politici hanno spinto a fondo sulla ignoranza delle persone per presentare problemi (e non soluzioni) unicamente a fini di catturare un consenso ignorante (lo hanno fatto tutti, purtroppo, anche se ai vertici di questa pratica criminale ci sono M5S, Lega e partitini di estrema destra e sinistra). I cittadini hanno mostrato tutta la loro ignoranza (o mancanza di indignazione per l’ignoranza) nella vicenda dei vaccini. Si sono lette considerazioni fatte seriamente e lasciate pubbliche tali da far pensare che le persone che le hanno fatte dovrebbero, a tutela loro, ma soprattutto dei loro figli e della società, essere messe in condizioni di non nuocere a sè e agli altri (è recente un ottimo post di Burioni che pone le discussioni in proposito nella luce corretta, e un altro ottimo di MedBunker che tratta il tema delle bugie e della “libertà”).

Bene, è ora di dire esplicitamente che non esiste alcun diritto associato alla libertà di essere ignoranti. Ovvero, tu puoi essere ignorante a piacere, ma la conseguenza è che della tua opinione non si deve tener alcun conto, mai.

Non è democratico? C’è un problema. Ciò che è vero o falso non lo decide la gente, ma la scienza, con il metodo scientifico. Ci fosse una maggioranza schiacciante a decidere che la peste bubbonica rafforza il sistema immunitario, la peste bubbonica rimarrebbe una malattia spiacevolmente mortale. Ci fosse una maggioranza schiacciante che non capisce, o semplicemente nega (come oggi va di moda) i dati associati al cambiamento climatico, questa gente verrà lo stesso sgombrata da dove abita quando le conseguenze dello stesso devasteranno i luoghi dove abitano. Perché i fatti hanno la piacevolissima abitudine di fregarsene di quello che la gente CREDE: vanno avanti indifferenti nella loro realtà FISICA.

Veniamo dunque al punto centrale del problema. Esiste un diritto a fare del male agli altri e alla società nella quale si vive e della quale si godono i benefici perché si è ignoranti? Bene, la risposta è NO. Se sei ignorante, non hai alcun diritto di pensare che quello che ritieni giusto debba essere imposto agli altri, né che tu debba essere libero da vincoli per il fatto di godere di benefici che la tua ignoranza non comprende da dove vengano. Non si lede alcuna tua libertà semplicemente dandoti dell’ignorante: si enuncia un dato di fatto. È un orrendo residuo culturale della demagogia ideologica anni ’70 e decenni seguenti della sinistra, ripreso poi negli anni ’90 dalla destra e ora del M5S quello di disprezzare il sapere (i “professoroni”).

Dobbiamo quindi essere preda dei voleri di elite di “intellettuali” che non capiscono i bisogni della società civile (che orrore, magari borghesi)? E chi ci dice che faranno le cose giuste per noi? (questa domanda è deliziosa: suppone che “noi”, ignoranti, si sappia quali siano le cose giuste per “noi”, anzi si pretenda di imporle agli altri). Per finire, giustamente, come gli abitanti dell’isola di Pasqua: estinti. Molto interessante, anche nella sua conclusione, questo articolo di Jared Diamond).

C’è un modo sicuro per non essere preda di nessuno: studiare. Maggiore è la propria competenza, maggiore è la probabilità di capire, se non il sapere specialistico soggiacente ad una soluzione, l’evidenza della efficacia della soluzione e gli imbrogli evidenti presenti nelle “soluzioni alternative” (anche, qui, un termine vergognoso, coltivato dai giornalisti (una categoria tra le più ignoranti e prive di dignità: non esistono le “soluzioni alternative”, esistono risposte sbagliate, oppure opinioni non provate di una minoranza estrema di persone, senza alcuna dignità di rappresentanza equivalente o, infine, argomenti nei quali il dibattito scientifico è ancora aperto. Qualcuno, ovviamente non in Italia, comincia a porsi il problema).

Ma, si dirà, nessuno è in grado di avere conoscenza approfondita delle decine di materie necessarie per comprendere se un argomento è stato correttamente delineato dalla scienza. Questo è un punto centrale, quindi spendiamoci qualche parola. Proprio perché non si sta parlando di calcio (che sebbene sia uno sport non completamente banale, è oggetto di opinioni da parte di chiunque se ne occupi), gli argomenti davvero complessi sono fuori della portata di grandissima parte della popolazione. Questo significa che l’opinione di questa parte della popolazione non conta molto, anzi non conta affatto, ma NON significa che non si possano fare domande (una ottima iniziativa è quella del CICAP) ma attenzione: si deve essere in grado di riconoscere la validità delle prove, quindi, se un ignorante dice “per me queste non sono prove”, non esprime una opinione sensata, dice semplicemente che lui è troppo ignorante per capire anche il significato delle prove stesse. È una posizione, ahi lui, che va semplicemente ignorata, proprio al fine di proteggere lui stesso, e la società che lo mantiene in vita, dalla sua ignoranza.

Ma, si dirà, oggi le persone sono straordinariamente meno ignoranti del passato, grazie alla scuola dell’obbligo e alla percentuale dei laureati. Una considerazione così, senza pesarla, è molto pericolosa, per due motivi. Il primo è che il livello di conoscenze che oggi supporta il nostro livello di vita è straordinariamente più elevato che in passato (per fortuna), direi molto più elevato di quello medio molto stentatamente elargito dalla scuola post sessantottina, nella quale sono “todos caballeros”. Il secondo è che, grazie all’internet, ovvero proprio a una conquista della scienza, l’influenza degli ignoranti è enormemente aumentata, tanto che oggi spesso non sono gli ignoranti a dover giustificare la loro ignoranza, ma gli esperti a dover rispondere agli attacchi degli ignoranti.

Che i laureati abbiano poi le conoscenze adatte per discernere il vero dal falso in argomenti complessi è da dimostrare. La percentuale di laureati nella materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) è sempre stata molto bassa in Italia (una nazione dove ancora si fa la distinzione tra cultura e scienza, come se fosse possibile essere colti essendo delle perfette capre in scienze), all’interno di una situazione sociale dove i laureati tout court sono in larghissima minoranza rispetto ad equivalenti Paesi europei.

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Il futuro ci mostra un Paese inesistente dal punto di vista della comprensione e gestione dei fenomeni complessi, destinato quindi alla deriva, preda della disinformazione (la quale, attenzione, è molto ben gestita da gente molto preparata, volta ad usarla per i propri fini: un magnifico complotto):

Paesi e Cultura

Cosa dobbiamo dedurne? Che è importante, sempre ed in ogni modo possibile, quando incontriamo un ignorante, fargli/le capire che lo è. “Lei è un ignorante” non è un insulto. È una necessaria forma di censura sociale, al fine di salvare la società stessa dai disastri che gli ignoranti vogliono. Non perché siano cattivi, proletari, sfortunati, onesti, etc.: perché sono ignoranti, e membri del più grande complotto contro la razza umana mai esistito. Essendo ignoranti, non sanno neppure questo.

Spok e scienza


Negli anni Settanta, segnalatomi da un amico, ho letto Estasi e materia (L’ecstase materièlle), di Jean-Marie Gustave Le Clézio, incredibile saggio con una prosa entusiasmante, un’esperienza indimenticabile.

Ecco, da https://lapoesiaelospirito.wordpress.com, un articolo:

Finalmente un Nobel coraggioso:
premiato Le Clézio, lo sperimentatore

di Ade Zeno

Tanto prolifico e poliedrico quanto schivo e poco affezionato alle ribalte mediatiche in cui spesso e volentieri amano confondersi i grandi nomi della cultura, Jean-Marie Gustave Le Clézio, dopo un lunghissimo e complesso percorso artistico in cui è riuscito a produrre una quantità impressionante di opere indimenticabili, ha finalmente vinto il Nobel.

Nato a Nizza il 13 aprile 1940 da una famiglia bretone, e trasferitosi, dopo la laurea, negli Stati Uniti, Le Clézio inizia a scrivere giovanissimo, e a soliventitré anni pubblica presso Gallimard la sua prima opera: Le procès verbal (riproposto recentemente in Italia, con il titolo Il verbale dalla coraggiosa e minuscola casa editrice: due punti), romanzo impegnativo e schizofrenico germinato in pieno periodo nouveau roman che, oltre che a vincere il prestigioso Prix Renaudot e a comparire nella rosa del Gouncourt, gli valse subito l’ammirazione di Michel Foucault e Gilles Deleuze, affiliandolo idealmente ad altri illustri, irregolari ribelli come George Perec e Michel Butor, con i quali condivise, almeno nella prima fase della sua ricerca, la spinta verso l’esplorazione di nuove possibilità per affondare nelle ragnatele del linguaggio, della scrittura, cercando di descrivere la realtà con gli occhi di un osservatore affezionato al dettaglio, alla scarnificazione degli oggetti, un osservatore di cui Adam Pollo – protagonista appunto del Verbale – rappresentava la simbolica personificazione, colto in tutta la sua ossessiva empatia verso un mondo estraneo, inquinato, irrimediabilmente ucciso dalle convenzioni sociali.

Un mondo, quello in cui si ritrovava allora (e suo malgrado) lo scrittore francese, in cui pareva impossibile non sentirsi stranieri, nemici, in definitiva svincolati da qualsiasi legame con radici inestirpabili.

Ed è proprio a questo sentimento di sradicatezza che si aggrappa la poetica raminga di Le Clézio, al suo percepirsi come oggetto alieno senza fissa dimora, condizione certo alimentata dai continui viaggi, dalle interminabili peregrinazioni, dai mutevoli e disordinati passaggi in cui il suo corpo e la sua fantasia hanno sempre voluto disperdersi spingendosi anche in zone geografiche sperdute, insolite, distanti anni luce dai confusi bagliori delle grandi metropoli e delle strade affollate di gente.

A testimonianza di ciò, alcuni dei suoi più bei titoli usciti a partire dalla fine degli anni Settanta (quelli, per inciso, che lo offrirono al grande pubblico, svincolandolo lentamente dall’etichetta di scrittore difficile, destinato a pochi eletti ), libri in cui si attenua la matrice cervellotica e sperimentale per avvicinare, al contrario, toni più sereni, riflessivi, prossimi ai temi dell’infanzia, della favola e soprattutto del confronto con culture diverse dalla nostra come per esempio Vers les iceberg, Voyage au pays del arbres, Onitsha, o i davvero celebri Etoile errant e Diego e Frida, questi ultimi tradotti anche da noi rispettivamente per Il Saggiatore (Stella errante, 2000) e Net (Diego e Frida, 2004).

L’ultima traduzione approdata ai lidi italici risale proprio a qualche mese fa, quando la piccola editrice Instar ha dato alle stampe Il continente invisibile, libro ibrido, a metà strada fra il saggio e il diario, che mette da parte le ispirazioni psicotiche di un tempo per affidarsi alla descrizione-indagine di un paradiso concreto (l’Oceania) dipinto sullo scheletro di arcipelaghi popolati da civiltà che hanno conosciuto le perfidie dei coloni invasori e le umiliazioni causate da chi (l’Occidente, noi), nei secoli, ha cercato di sopprimere libertà e tradizioni millenarie di una terra e dei suoi figli.

Opera che non ha niente a che vedere con i rigori scientifici di un’indagine etnografica, ma che riesce tuttavia a sedurre grazie alla sua incondizionata capacità di ascolto, alla sua abilità nel restituirci – attraverso gli appunti solcati su un taccuino minimo – leggende popolari, miti, ritualità primitive, insomma residui di un passato che malgrado la sua precarietà può ancora trovare la forza per opporsi alle tensioni globalizzanti che lo assediano.

Defilato e renitente, il neo-Nobel, è famoso per una certa ostinata avversione a concedere interviste, a dividere la propria onestà intellettuale con i media, coerente fino in fondo, insomma, a una proterva linea di distacco. Speriamo solo che quel volto elegante, bello e affilato che ora ci osserva cupamente smarrito dall’altra parte di uno schermo in cui – grazie alle nuove e inaspettate notizie di Stoccolma – torna a comparire possa servire a svegliare i nostri Grandi Editori dai consueti ottusi oblii, invitandoli a proporci i tanti, tantissimi titoli ancora non tradotti qui, malgrado la loro fortunata, abissale e sconfinante bellezza.

Pubblicato su Liberazione, 10 Ottobre 2008 dc

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Da https://www.loccidentale.it,

Il Nobel per la letteratura

Il lungo viaggio di Le Clézio nell’esistenza umana

di Carlo Roma, 10 Ottobre 2008 dc

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Era uno dei candidati più accreditati alla vittoria finale. È nato a Nizza ed ha cominciato a scrivere a sette anni. Ha prodotto un numero considerevole di pubblicazioni. È stato apprezzato per le sue innumerevoli sperimentazioni artistiche che lo hanno condotto in molti ambiti della letteratura. È il francese Jean-Marie Gustave Le Clézio il nuovo premio Nobel per la letteratura 2008 assegnato ieri dall’Accademia di Svezia. Le motivazioni che hanno giustificato la scelta degli esperti di Stoccolma attengono alla  sua capacità di sperimentare ogni forma di arte indagando anche l’umanità nelle sue molteplici manifestazione. Le Clézio, infatti, si è mostrato in grado “di nuove sperimentazioni, avventure poetiche e di sensuale estasi”. È stato, peraltro, un infaticabile “esploratore di un’umanità dentro è fuori la civiltà imperante”.

Le Clézio ha cominciato a scrivere molto giovane. A ventitre anni ha composto il suo primo romanzo, “Il verbale”, pubblicato nel 1963. Il protagonista principale della storia, Adam Pollo, riconosce la condizione animale come l’unica possibilità per sopravvivere nel mondo contemporaneo. Un mondo privo di punti di riferimento certi, in cui sembrano avanzare soltanto le regole folli e sconsiderate della società consumistica. Il libro gli permette di vincere il premio Ranaudot. Nato in Francia da famiglia bretone, ma pronto a muoversi verso nuovi orizzonti, Le Clézio può essere considerato come uno scrittore sempre  in viaggio. Subito dopo la laurea si trasferisce negli Stati Uniti dove inizia un periodo di insegnamento. Uno dei temi forti della sua indagine è quello della ricerca costante dello stile e della scrittura. Temi ai quali ha aggiunto lo studio dell’alienazione che domina la realtà.

Allo stesso tempo, il neo Premio Nobel si è occupato di argomenti più ‘leggeri’ ed accessibili che lo hanno indotto a muoversi nel terreno dell’infanzia: un’analisi approfondita che rientra a pieno titolo nel suo lungo viaggio nella vita. Una peregrinazione che ha assunto forme nuove ed inedite offrendogli l’opportunità di contemplare la bellezza dei tanti Paesi che ha raccontato. Una bellezza che, secondo Le Clézio, deve essere riconquistata e difesa perché possiede gli elementi più veri e più utili per la nostra esistenza. In questo senso, i suoi personaggi cercano una dimensione autentica difendendosi dall’aggressione di una modernità talora ingiusta. Una dimensione che proprio Le Clézio ha inseguito nei suoi viaggi e nelle sue indagini descrivendola nelle sue opere.

Su questa falsariga si collocano i contributi principali che hanno costellato la sua carriera.

Si tratta di oltre trenta titoli tra i quali spiccano, in particolare, il saggio “Il sogno messicano”, scritto nel 1988,  in cui mette in scena l’identità ignorata degli indiani d’America. Uomini che, per Le Clézio, sintetizzano l’idea della purezza e della semplicità: valori che, di fatto, il mondo contemporaneo pare aver smarrito una volta per tutte.
Conosciuto più in Francia che all’estero, Le Clézio ha elaborato altri saggi, il più importante dei quali è forse “Estasi e materia”, scritto nel 1967. Tanti, poi, i romanzi redatti nel corso del suo lavoro. Tra i titoli più recenti spicca “Il continente invisibile”, pubblicato in Italia nel 2008. “Se l’Africa è il continente dimenticato – scrive il neo premio Nobel – l’Oceania è il continente invisibile”. Un universo ancora misterioso ed indecifrabile tutto da conoscere e scoprire. Una scoperta alla quale Le Clézio si dedica con la sua maestria narrativa svelando i lati oscuri di un mondo lontano e nebuloso che risveglia l’immaginazione  ed il desiderio di partire.


Da MicroMega http://temi.repubblica.it/micromega-online/ 14 Gennaio 2016 dc, pubblicato anche sul mio blog jadawin4atheia.wordpress.com:

Come educare senza dogmi.
Una guida per genitori atei e agnostici

di Cecilia M. Calamani (cronachelaiche.it)
«Mi batto per educare figli indipendenti, che ragionino in modo logico, svincolato dal dogma religioso». Con queste parole la blogger americana Deborah Mitchell spiega il perché del suo libro “Growing up godless”, tradotto e pubblicato in Italia dalla casa editrice Nessun Dogma con il titolo “Crescere figli senza dogmi”.
La domanda nasce a libro ancora chiuso: perché un’americana sente il bisogno di scrivere un libro su questo tema? Siamo talmente abituati allo stereotipo che dipinge gli Stati Uniti come il Paese della libertà per antonomasia che questo volume, una vera e propria guida per genitori atei e agnostici, fa un po’ effetto. Eppure la realtà, soprattutto in alcuni Stati – Mitchell è texana –, è ben diversa da come immaginiamo. E in effetti andando avanti nella lettura scopriamo una società chiusa e bigotta, ligia alle tradizioni e intollerante nei confronti del libero pensiero al punto di stigmatizzare con l’isolamento chi si professa ateo o agnostico. (nota mia: l’autore dell’articolo si stupisce, io e alcuni altri no, non abbiamo mai creduto in questo “stereotipo”, non abbiamo mai considerato in questo modo gli Usa…)

Come la stessa Mitchell riferisce, in Texas una delle prime domande che si fanno le persone quando si conoscono è quale chiesa frequentino. Il che stupisce poco se solo si legge cosa c’è scritto senza mezzi termini nella Carta costituzionale del Paese: «In questo Stato non verrà mai richiesto alcun test religioso per ricoprire un pubblico ufficio o una carica onorifica; né alcuno sarà mai escluso da una carica a motivo dei suoi sentimenti religiosi, purché ammetta l’esistenza di un Essere Supremo» (art. 1, par. 4). Ecco perché scegliere per i propri figli un’educazione libera dalla fede è un problema. Chi non crede per lo più si nasconde e segue i riti e le tradizioni della massa. Ed è quello che ha fatto anche Mitchell fino ai primi anni di vita dei suoi figli, quando ha deciso di uscire allo scoperto in famiglia e di aprire un blog, inizialmente dietro pseudonimo, per scrivere le sue esperienze di madre agnostica e confrontarsi con altri genitori nella sua stessa situazione.

Nel libro riporta la sua esperienza e anche quelle più significative delle persone con cui è venuta in contatto. Ne esce un prontuario per affrontare tutte le situazioni cui un genitore ateo o agnostico si trova di fronte quando vive in un ambiente che non ammette altri modi di essere se non quello scandito, nei valori così come nei tempi, dalla religione.

Il paragone con la situazione italiana, leggendo queste pagine scritte da un’occidentale, è d’obbligo. Se è vero che il nostro Paese è ancora molto poco secolarizzato e subisce una continua ingerenza da parte della Chiesa cattolica nella sfera legislativa (per tacere di quanto la foraggi finanziariamente), è anche vero che, almeno sulla carta, educare i figli al di fuori dei dettami religiosi è ormai un falso problema e lo dimostra la percentuale sempre più alta di ragazzi non battezzati o che disertano l’ora di religione a scuola.

Le difficoltà semmai riguardano il rapporto tra i nostri figli e le istituzioni scolastiche. Non solo è ancora previsto l’insegnamento della religione cattolica nell’orario curriculare, ma chi non se ne avvale – come già detto un numero sempre screscente di ragazzi – è costretto a girovagare per l’istituto, andare in altra classe o partecipare a uno dei rarissimi corsi alternativi allestiti nelle scuole per “raccogliere” gli studenti non credenti.
Potremmo poi parlare dei crocifissi ancora appesi nelle aule, delle recite natalizie che celebrano la nascita del figlio di dio (guarda caso spesso organizzate proprio dal docente di religione) o delle pagliacciate di certi amministratori leghisti che distribuiscono presepi nelle scuole del Nord, ma insomma il problema non è, o almeno non più, dichiarare in famiglia e al mondo di rifiutare le verità dogmatiche della fede.
Piuttosto, il punto è che una legislazione sempre più obsoleta non sta al passo con l’evoluzione culturale del Paese e la sperequazione dei diritti che ne consegue investe tutti i campi, istruzione inclusa. Diversa la situazione in Texas, dove la difficoltà di un’educazione laica per i propri figli è innanzitutto di origine sociale.
Ciò nonostante, il libro ci tocca da vicino sia perché gli Stati Uniti sono per noi un imprescindibile modello culturale di riferimento (nota mia: non certo per me!), sia perché focalizza bene alcuni aspetti che riguardano anche la nostra società. È innegabile che la fede religiosa faciliti il ruolo del genitore perché lo esime dall’onere di elaborare da sé risposte adeguate alle difficili domande dei figli.
Ad esempio, come spiegare a un bambino cosa significa morire senza farlo sprofondare nell’angoscia? Per un genitore credente è più semplice. Basta ricorrere al paradiso o all’aldilà attraverso una narrazione pronta all’uso che taciti (ma per quanto tempo?) i dubbi esistenziali del figlio e lo porti a credere in una vita in cielo dopo la morte. Tuttavia il ricorso alla religione deresponsabilizza il genitore, che si limita a ripetere quello che i propri genitori hanno ripetuto a lui senza aiutare lo sviluppo dell’autonomia di pensiero del figlio.

In questa delega alla fede poi c’è un ulteriore pericolo per la crescita consapevole e responsabile dei ragazzi e riguarda l’educazione sugli aspetti comportamentali. Mitchell lo descrive bene: «Ai bambini si insegna a essere buoni soltanto perché alla fine saranno ricompensati con la vita eterna, ma questo costituisce una debole base per la moralità, poiché si focalizza sul fare ciò che altri definiscono giusto agitando la carota di una ricompensa, e non sul fare ciò che ognuno considera giusto in base a un ragionamento. E, quel che è peggio, si può agire male più volte, visto che non poche religioni offrono il perdono mediante una serie di canti o preghiere».

Per dirla alla Margherita Hack, il non credente si comporta bene perché lo ritiene giusto, non perché spera in una ricompensa futura. Il che dà maggior vigore alle sue convinzioni morali.

Educare i figli al di fuori di comode verità prêt-à-porter è faticoso, sia chiaro, ma molto meno di quanto sembri. Spesso siamo noi, condizionati dal nostro vissuto culturale in un Paese in cui fino a trent’anni fa il cattolicesimo era religione di Stato, a proiettare sui nostri figli delle paure che loro neanche percepiscono perché liberi dai nostri preconcetti. Tuttavia, va anche detto che la libertà di pensiero è tra tutti il concetto più difficile da trasmettere perché si contrappone a quell’omologazione di massa – la religione ne è un esempio ma non l’unico – che rappresenta un comodo riparo soprattutto durante infanzia e adolescenza. Ma ne vale la pena.

Aiutare un figlio a costruire la propria strada invece di prenderla in prestito da chi dispensa verità predefinite lo rende più solido nei suoi valori e lo libera dal condizionamento ancestrale del peccato, una micidiale arma di ricatto che da millenni tiene in scacco coscienze e intelligenze.

Morale e religione non sono sinonimi e non è detto che vadano d’accordo. Nonostante la storia l’abbia dimostrato e la cronaca ce lo ricordi ogni giorno, il preconcetto che le vede strettamente collegate è duro a morire. Anche in Occidente.


Da Hic Rhodus il 13 Gennaio 2016 dc:

Il declino dell’Università
e l’accettazione della mediocrità

(le tabelle sono visionabili nell’articolo originale)

Ci sono alcuni temi che noi di Hic Rhodus seguiamo con una certa costanza, perché riteniamo che siano determinanti per il presente e il futuro del nostro paese. Uno di questi è il deficit che l’Italia accusa in termini di cultura e di conoscenza, e a quello che si può fare per contrastarlo a partire dalla scuola, fino all’Università, ai luoghi di lavoro, alla ricerca scientifica.

Non potevamo quindi non commentare un’ennesima notizia che evidenzia questo deficit, e cioè il fatto che negli ultimi anni il numero degli studenti che si immatricolano all’Università in Italia sta diminuendo. Ne parla con efficacia, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia, ma non è forse superfluo aggiungere qualche nostra considerazione.

I dati questa volta provengono da un’ampia ricerca condotta dalla Fondazione RES (Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia), di cui è disponibile in rete una sintesi piuttosto eloquente. In primo luogo, il dato che ha suscitato il maggior numero di commenti è appunto quello relativo al numero assoluto di studenti che si rivolgono agli studi universitari, numero che su scala nazionale sarebbe calato, rispetto ai massimi di una decina di anni fa, di oltre il 20%, con punte del 30% nelle isole; analoghe riduzioni si sono verificate relativamente al personale docente (-17%) e tecnico-amministrativo (-18%). In secondo luogo, il rapporto si concentra su quelli che fin dal titolo chiama Nuovi Divari, ossia l’allargarsi delle differenze tra Nord e Sud, sotto tutti i punti di vista: come abbiamo visto in altre occasioni relativamente ai fattori più strettamente economici, il settore universitario del Meridione sembra entrato in una spirale negativa, in cui gli scarsi risultati scientifici penalizzano gli atenei nella distribuzione dei finanziamenti, nell’attrazione degli studenti (un notevole numero di studenti meridionali si iscrive a università del Nord o del Centro), nella stabilità e nella qualità dei docenti.

Peraltro, la riduzione complessiva del numero di studenti non dipende da fenomeni demografici: è in realtà in calo la percentuale di giovani diplomati che scelgono di immatricolarsi, come si vede dal grafico qui sotto, incluso in una pubblicazione del MIUR, che riporta la percentuale di giovani che dopo il diploma s’immatricolano all’università (nello stesso anno):

Come si vede, anche solo negli ultimi anni il calo è notevole (il numero di coloro che “proseguono” è calato di circa il 10% in quattro anni), e riguarda in particolare i diplomati degli istituti tecnici. A peggiorare le cose, ovviamente, contribuisce il fenomeno degli abbandoni, che, molto alto in tutta Italia, è particolarmente forte nei corsi di laurea del comparto scientifico e tra i giovani del Sud. Secondo il Rapporto RES il tasso di abbandono dopo il primo anno al Sud è del 17,5%, contro il 15,1% al Centro e il 12,6% al Nord, e un’analoga differenza tra aree geografiche vale per i ritardi nel completamento degli esami; tra le cause viene indicata come predominante la disomogenea presenza e qualità dei servizi di tutoring per gli studenti, e la scadente preparazione di molti studenti usciti dalle scuole superiori, fenomeno ancora una volta più accentuato al Sud. In particolare sull’abbandono è piuttosto eloquente la tavola qui sotto, prelevata dal documento del MIUR già citato.
A fronte di questi (e molti altri) dati, il rapporto della Fondazione RES segnala con preoccupazione appunto una tendenza all’allargarsi del divario Nord-Sud e (anche alla luce dei tagli ai fondi per borse di studio, residenze universitarie, ecc.) all’effettiva indisponibilità per i giovani meridionali di quel diritto allo studio sancito dalla Costituzione che afferma che i  “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. La prospettiva, sulla scia di una distinzione tipica del sistema USA, sarebbe verso un sistema “a due livelli”: research universities e teaching universities, le quali ultime sarebbero destinate a una formazione non di eccellenza mentre le prime sarebbero praticamente inaccessibili a una larga parte degli studenti. Neanche a dirlo, le evidenze di fatto stanno a indicare chiaramente che le Università di eccellenza sarebbero collocate essenzialmente al Nord, con qualche isolata eccezione nel Centro Italia.
Fin qui, i dati. Diverse, invece, possono risultare le interpretazioni e le ricette per un malato certamente piuttosto grave. Il Rapporto RES, che dedica comprensibilmente una particolare attenzione alle Università meridionali, punta il dito sulla penuria di fondi, dovuta a una politica restrittiva che ha in pochi anni tagliato i finanziamenti del 21% in termini reali, conducendo l’Italia lontanissimo dagli altri paesi avanzati: “una stima della spesa pubblica per l’istruzione universitaria per abitante mostra che essa ammonta, in anni recenti, a 332 euro in Germania, a 305 in Francia e a 157 in Spagna, a fronte di un valore di 117 euro per il Centro-Nord e di soli 99 euro per il Mezzogiorno”. Certamente è difficile negare che in Italia il livello degli investimenti in conoscenza sia bassissimo, in stridente contrasto con le lacune più volte evidenziate anche da noi in particolare nella cultura in campo scientifico ed economico (ma, ahimè, anche nelle competenze di base) e con una densità di laureati inferiore a quella di quasi tutti i paesi avanzati. Un paese che non voglia ulteriormente perdere terreno rispetto alla concorrenza internazionale deve finanziare scuola, università e ricerca: si tratta degli investimenti più produttivi che possiamo fare.

Accanto a questa considerazione fondamentale, però, vorrei aggiungerne altre due, che anch’esse proseguono discorsi che abbiamo già avviato:

Dal punto di vista delle conseguenze: difficile non collegare l’eccezionale penuria di studenti universitari e di laureati in Italia con il drammatico calo della produttività che l’Italia attraversa da lunghissimo tempo. Per essere competitivi nel mondo d’oggi non ci si può accontentare della mediocrità nella cultura, nei processi produttivi, nell’innovazione: l’Italia deve coltivare e sviluppare autentiche eccellenze, e ci sono esempi virtuosi a dimostrare che questo è possibile. Per arrivarci, però, occorre poter disporre di persone eccellenti, per competenze e capacità imprenditoriali, e bisogna che il sistema formativo italiano sia in grado di produrre queste eccellenze. Per essere chiaro, anche in riferimento alle osservazioni del Rapporto RES: non è affatto detto che avere atenei “di Serie A” e “di Serie B” sia un male. A patto che la Serie A sia A davvero, e che tutti gli studenti abbiano possibilità eque di accedervi; avere un piccolo numero di università d’élite non solo non è necessariamente negativo, ma date le condizioni attuali potrebbe essere l’unico obiettivo realistico da porsi, insieme con quello di avere un livello dignitoso di didattica (non necessariamente di ricerca) in tutte le altre. Il punto è che questo scenario dovrebbe essere frutto di un progetto e di una governance, e non delle forze “casuali” che stanno modellando in questi anni l’università; come scrive anche della Loggia, “ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente”, senza una strategia, un’analisi degli obiettivi, ecc.

Dal punto di vista delle cause: la carenza di fondi è sicuramente un fattore determinante, che sta però portando allo scoperto delle debolezze strutturali preesistenti e coesistenti. Certamente lo Stato deve investire di più nell’università; tuttavia non condividerei un’analisi che volesse spiegare il calo delle iscrizioni esclusivamente con l’impoverimento dell’offerta formativa o con i maggiori costi a carico delle famiglie degli studenti. La verità, come abbiamo visto in un altro post, è che in un contesto come quello italiano studiare per laurearsi può non essere conveniente. Per quanto pochi siano i nostri laureati, alla fine del loro percorso di studi essi non si ritrovano (salvo alcune eccezioni) a essere contesi dalle aziende a suon di retribuzioni dorate: molti, per ottenere un adeguato ritorno per i loro studi, vanno all’estero, dove nonostante l’handicap di lingua e provenienza spesso ottengono posizioni molto migliori di quelle disponibili in patria. In una simile situazione, in cui il mercato del lavoro premia molto poco le competenze di livello elevato, se non si tratti di vere e proprie eccellenze, la scelta di non iscriversi all’università più che dalla qualità e accessibilità dei corsi può dipendere dall’assenza di incentivi.

In conclusione, pur apprezzandone il valore, andrò in parte controcorrente rispetto allo spirito “egualitario” del Rapporto RES e auspicherò non tanto che tutte le università italiane diventino contemporaneamente più economiche (per gli studenti) e di elevato livello qualitativo da un punto di vista didattico e scientifico, quanto che si creino e si sostengano in Italia alcuni poli di eccellenza, quali oggi sono solo alcune università prevalentemente del Nord, assicurando una ragionevole copertura anche del Mezzogiorno. E auspicherò soprattutto che il nostro sistema di imprese (e la Pubblica Amministrazione) entrino finalmente nel XXI secolo riconoscendo il valore essenziale di competenze specialistiche avanzate, e, forse ancora di più, di competenze di livello medio-alto diffuse e pervasive, tali da consentire un “salto” nel livello dei servizi e dei prodotti che aziende e P.A. offrono. Altrimenti resteremo permanentemente impantanati nella nostra mediocrità, e a poco varrà lamentarsene.


Da Micromega 12 novembre 2014 dc:

Scuole paritarie,
uno scandalo italiano.

Così vìolano legalità, laicità e pluralismo.

Intervista a Paolo Latella, di Marina Boscaino

Paolo Latella, professione: docente tecnico pratico, pubblicista, consulente del Tribunale di Lodi.

Questo elenco di titoli non è casuale.

La sua pubblicazione, “Il libro nero della scuola italiana” (scaricabile online gratuitamente oppure acquistabile in versione cartacea al solo costo della stampa) tiene dentro la passione del docente, il rigore documentario del giornalista e la capacità del consulente giuridico di individuare strade di deviazione dalla norma.

Si tratta di un documento impareggiabile, considerando la mole di dati, notizie, testimonianze che Latella è riuscito a mettere insieme su uno dei temi più scottanti e meno approfonditi del sistema di istruzione italiano: lo scandalo di (alcune) scuole paritarie, vedremo quali; la violazione insistita (intrinseca all’istituzione della scuola paritaria stessa, prevalentemente confessionale) del principio di laicità e di pluralismo cui il sistema dovrebbe informarsi, quando esso produca “oneri per lo Stato”.

La contraddizione intrinseca risiede nel fatto che il gettito dalla fiscalità pubblica alle scuole paritarie insiste su istituti che, appunto, per loro stessa natura, non sono per la maggioranza laici e pluralisti, bensì improntati al dogma religioso.  Le due deviazioni configurano – come vedremo – conseguenze e considerazioni diverse, talvolta convergenti ed intersecantesi, altre no.

Il sistema paritario, complesso e articolato, viene concepito nella attuale concretizzazione attraverso la legge 62/2000 che – dopo lunga e faticosa trattativa tra i componenti dell’allora Ulivo, in cui spiccava una consistente rappresentanza di Popolari, cattolici riformisti, desiderosi di restituire agli istituti confessionali un ruolo prioritario sul piano dell’istruzione nazionale – al comma 4 riconosce la parità scolastica a quegli istituti che ne facciano richiesta e che abbiano:

  1. a) un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione; un piano dell’offerta formativa conforme agli ordinamenti e alle disposizioni vigenti; attestazione della titolarità della gestione e la pubblicità dei bilanci;
  2. b) la disponibilità di locali, arredi e attrezzature didattiche propri del tipo di scuola e conformi alle norme vigenti;
  3. c) l’istituzione e il funzionamento degli organi collegiali improntati alla partecipazione democratica;
  4. d) l’iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta, purché in possesso di un titolo di studio valido per l’iscrizione alla classe che essi intendono frequentare;
  5. e) l’applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio;
  6. f) l’organica costituzione di corsi completi: non può essere riconosciuta la parità a singole classi, tranne che in fase di istituzione di nuovi corsi completi, ad iniziare dalla prima classe;
  7. g) personale docente fornito del titolo di abilitazione;
  8. h) contratti individuali di lavoro per personale dirigente e insegnante che rispettino i contratti collettivi nazionali di settore.

Si tratta di una norma che ha fatto discutere ed è destinata a far discutere a lungo.

Innanzitutto per lo stravolgimento e la manipolazione che – con il passare del tempo – se ne è fatto, trasformando il dettato dell’art 33 della Costituzione – “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” – in un anomalo quanto continuo finanziamento dello Stato a favore delle paritarie.

Tanto più clamoroso, quanto più mantenuto inalterato negli ultimi anni, quando il combinato tra la “riforma” Gelmini e l’azione degli altrettanto pericolosi successori di quel ministro e la crisi economica hanno abbattuto i finanziamenti a favore della scuola statale.

Il sistema si configura più o meno come un insieme di realtà molto differenti: prevalentemente istituti religiosi; scuole dell’infanzia e poche scuole primarie comunali (motivo per cui il referendum di Bologna più di un anno fa propose agli elettori il quesito secondo il quale si preferiva affidare esclusivamente alle scuole pubbliche o anche alle scuole private – le scuole dell’infanzia religiose – i fondi pubblici), i diplomifici (quelli della compravendita dei diplomi, che non assolvono ai requisiti previsti dalla legge 62, e che – ciò nonostante – continuano ad operare indisturbati, in alcune zone del Paese persino gestiti dalla mafia locale).

La prima e l’ultima categoria di istituti godono di privilegi e finanziamenti producendo effetti devastanti ora sul piano della laicità, ora su quello della legalità.

Il “Libro nero della scuola italiana” si configura come un’inchiesta in 17 capitoli che fa riflettere sull’illegalità nell’istruzione italiana (pubblica e privata) e le pressioni di Cei, Compagnia delle Opere e Opus Dei per la completa parità scolastica delle scuole religiose.

Prima di leggere l’intervista a Paolo Latella, un piccolo passo indietro.

Il 28 giugno 2013 Latella, docente di Lodi del sindacato Unicobas, invia all’allora ministro dell’Istruzione Carrozza un dossier sulla situazione delle scuole private nel nostro Paese.

 

Passano più di 7 mesi e il 7 febbraio 2014 il dr. Bani, segretario del ministro, chiede a Latella di inviare nuovamente il dossier.
Sappiamo tutti che in quella data il governo Letta era già “bollito” e il “bacio di Giuda” stava per essere stampato sulla guancia di Letta (“Enrico, stai sereno”…). Forse Carrozza, quasi in procinto di preparare gli scatoloni, aveva sentito la necessità di consultare quel materiale, che si annunciava denso di contenuti “problematici”.

Dal nuovo reinvio, ricevuto dall’attuale ministro Stefania Giannini – che peraltro si è segnalata per la particolare ostinazione con la quale ha difeso a spada tratta il sistema paritario, considerandolo perfettamente equipollente alla scuola statale – è passato molto tempo, ma nessuna risposta è stata fornita.

Forse, se la Giannini desse un’occhiata al Libro di Latella, esprimerebbe più cautamente il proprio entusiasmo, considerando la vergogna (istituzionalizzata, avallata dal sistema) che si perpetra quotidianamente, in particolare nei diplomifici italiani; rimanendo tuttavia impassibile, se ne può essere certi, alla altrettanto grave violazione che ha portato alcuni poteri forti – Opus Dei, Compagnia delle Opere (Comunione e Liberazione) – a gestire e a orientare in maniera determinante le politiche, le decisioni e le scelte del Miur.

Come ti è venuta in mente l’idea del libro?

Innanzitutto c’è stata la volontà di “smuovere le acque” del pantano dell’istruzione paritaria.

Dopo aver ricostruito – attraverso testimonianze prima faticosamente ricercate, poi giunte copiose sul mio telefono e sulla mia scrivania – la Cartina della vergogna, mi è capitato di esser ricevuto al Miur lo scorso 17 settembre, durante lo sciopero del mio sindacato, l’Unicobas.

Lì alcuni dirigenti mi hanno chiesto di approfondire.

Peraltro, lo scorso maggio l’on Silvia Chimienti (M5S) aveva presentato un’interrogazione parlamentare che, sulla scorta del dossier, chiedeva delucidazioni sulle testimonianze anonime rese dai docenti di scuole paritarie di diverse zone d’Italia che, al fine di vedersi attribuito il punteggio in graduatoria per il servizio prestato, accettavano stipendi troppo bassi o addirittura non ricevevano alcun compenso.

Sono andato avanti.

Non potevo fare diversamente.

Qual è la tua posizione rispetto alla legge di parità?

Sono contrario al finanziamento alle scuole paritarie.

Esse hanno la possibilità di inserirsi nel sistema scolastico nazionale, ma “senza oneri per lo Stato”.

Se l’idea iniziale nella scrittura della legge 62/2000 poteva essere quella di mettere ordine nella giungla dell’istruzione privata, il libro evidenzia come la vegetazione si sia ulteriormente infittita, dando luogo ad una situazione scandalosa.

Quali gli episodi e i racconti più sconcertanti proposti dal “Libro nero”?

Catania: una collega mi scrive diverse volte.

Ha lavorato facendo qualsiasi cosa nella scuola.

Dopo che vengono pubblicati il dossier e la Cartina della vergogna, mi racconta delle minacce subite dalle colleghe perché non avrebbero avuto più punteggio se la sua testimonianza avesse suscitato l’interesse e i provvedimenti di qualcuno.

Omertà e mantenimento del sistema – pur di lavorare – la fanno da padroni, anche nelle situazioni più deprivate.

Campania: la camorra gestisce molto, anche il catering per i bambini delle scuole primarie.

Lì le scuole statali sono 217, contro le quasi 400 paritarie.

Un business alla faccia del contribuente. Gli oneri per lo Stato ci sono eccome, e non solo in termini economici.

Per esempio, per la conseguente devoluzione di diritti, in primis diritto al lavoro tutelato da norme riconosciute e condivise.

Scempi pseudo-contrattuali o addirittura in nero, che fanno leva sulla necessità di lavorare di tante persone.

Assenza di contributi, condizioni di lavoro infamanti, spesso collusione con la camorra.

Ho saputo di docenti che vanno a fare le pulizie a casa del titolare della scuola paritaria in cui lavorano.

Assunzioni a fine settembre, fino alla fine di maggio: disponibilità massima.

Esami di Stato gratuiti.

Se vuoi lavorare, le condizioni possono essere anche queste, prendere o lasciare.

E l’esame deve avere un risultato vantaggioso per i “clienti” che hanno pagato (gli studenti): altrimenti torni a casa.

Qual’è la geografia di massima del sistema paritario?

Dal Sud fino a Roma: si lavora per il punteggio, a salari bassissimi.

Da Roma in su vige un altro sistema: qualunque sia il tuo titolo di studio (anche non quello richiesto per quell’insegnamento) riesci a lavorare: senza titoli e quindi a salario più basso; tanto – con quel titolo – all’insegnamento non avresti avuto accesso, quindi del punteggio non ti interessa nulla.

Poi ci sono le scuole d’elite, con docenti che prendono anche 1700-1800 euro mensili.

Le collusioni esistono dappertutto, persino nelle regioni che hanno storicamente espresso un livello di cittadinanza più alto e consapevole.

E la Lombardia, la regione in cui vivi?

La Lombardia è un laboratorio dove si sperimenta da anni “la chiamata diretta” nella formazione professionale regionale. Il modello che Valentina Aprea, Suor Anna Monia Alfieri, Forza Italia e il Pd vogliono proporre come modello di scuola pubblica nazionale.

In Lombardia esiste già il costo standard e la “dote scuola”.

L’assegno che arriva direttamente nei centri di istruzione e formazione professionale: 4.500 euro annui + 3000 se lo studente usufruisce della legge 104.

Un vero affare.

In questi centri ci sono i “famosi” docenti a chiamata diretta senza diritti.

Vivono con pochissimi euro e li percepiscono solo ogni cinque-sei mesi.

Lavorano da diversi anni, riescono solo a pagarsi l’affitto.

Di supplenze nelle statali non se ne parla per colpa anche dei colleghi che arrivano da tutta Italia con punteggi gonfiati, ricevuti in quelle scuole paritarie che percepiscono i contributi statali e fanno pagare rette altissime agli studenti e che rilasciano ai docenti certificati discutibili ma purtroppo legali.

I CFP (Centri Formazione Professionale) in Italia hanno i contributi regionali, rilasciano titoli professionali.

Prima della riforma Moratti, le qualifiche rilasciate dalle Regioni avevano un valore solo territoriale e non erano equiparabili ai titoli di studio rilasciati dalla scuola.

Ora, con l’ingresso dell’IeFP (Istruzione e Formazione professionale) nel sistema educativo, sia le Qualifiche, sia i Diplomi professionali diventano titolo valido – al pari di quelli scolastici – per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e del diritto dovere di istruzione e formazione.

Sono poi spendibili e riconoscibili su tutto il territorio nazionale, perché riferiti a standard comuni, concordati tra le Regioni e approvati con Accordi Stato Regioni o in Conferenza Unificata.

Il loro riferimento ai livelli europei (III° livello EQF per la Qualifica e IV° per il Diploma), li rende inoltre riconoscibili anche nell’ambito più vasto della Comunità Europea.

In Lombardia il percorso educativo dei ragazzi dai 6 ai 18 anni è accompagnato e sostenuto dalla Dote Scuola, che raggiunge diverse tipologie di studenti (sia quelli delle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado che quelli dei percorsi di IeFP) e prevede contributi – anche componibili tra loro – per premiare il merito e l’eccellenza e per alleviare i costi aggiuntivi sostenuti dagli studenti disabili.

In particolare, il contributo che copre le spese di frequenza dei ragazzi iscritti ai corsi regionali di IeFP è la “Dote Scuola per l’Istruzione e Formazione Professionale”.

La possono richiedere gli studenti residenti o domiciliati in Lombardia che si iscrivono alla prima annualità di un percorso di IeFP, attivato dagli enti di formazione accreditati al sistema regionale.

Gli insegnanti in tutto questo sono l’anello debole del sistema di formazione.

I contratti che questi centri utilizzano sono con paghe orarie da fame: co.pro., collaborazioni occasionali, partita Iva, ecc… Bisogna arrivare a 30-32 ore a settimana per arrivare a 1000/1100 euro al mese senza considerare il tempo che dedichiamo alle riunioni, scrutini, esami, ecc. che non vengono retribuiti e devono anche pagarsi le spese di trasporto.

Ma lo stipendio, se così si può chiamare, lo percepiscono ogni cinque mesi, anche se nel contratto c’è indicato che il pagamento avviene ogni 90 giorni.

Le fatture vanno però emesse ogni mese e viene pagata anche l’Iva di un compenso ancora non ricevuto.

Se questi docenti insegnano la materia per cui sono laureati ed iscritti in terza fascia, possono aggiornare il punteggio nelle graduatorie delle scuole statali.

Il responsabile del Centro ti sfrutta anche per questo.

Docenti che insegnano due materie mediamente in 6-8 classi da 23-26 alunni.

Sono continuamente sotto pressione, sotto minaccia, sfruttati appunto; non possono mai dire di no al direttore del Centro, altrimenti l’anno dopo non sono riconfermati e perdono quel minimo di continuità.

Se poi aprono una vertenza sindacale, come è successo ad un collega in provincia di Brescia, non vengono più chiamati e a 45 anni – magari – si trovano a dover cambiare lavoro.

Per non parlare degli studenti che frequentano questi centri di formazione: è considerata per tutti l’ultima spiaggia per un titolo di studio; si iscrivono “bocciati” dalle altre scuole, stranieri, ragazzi con infiniti problemi psicologici gravi e molti hanno anche problemi giudiziari.

Spesso i docenti sono minacciati “fisicamente” dai loro stessi alunni, o da loro derisi pesantemente.

Dovrebbero essere i cosiddetti “collaboratori esterni” a gestire in libertà l’orario e l’attività, ma tutti sanno che così non è; anzi, lavorano più dei colleghi che all’interno del centro hanno il contratto a tempo indeterminato, con zero diritti e mille doveri…

Ecco il laboratorio lombardo: una sperimentazione per la distruzione della scuola pubblica laica statale.

Un laboratorio da anni portato avanti con l’avallo e la connivenza di tutti, compreso il partito di maggioranza oggi.

Leggendo il documento La Buona Scuola del Governo e ascoltando queste tue parole, viene in mente che l’enfasi che il documento riserva al tema del lavoro (Scuola fondata sul lavoro, si intitola beffardamente uno dei capitoli) non può essere inconsapevole di questo quadro. Non stentiamo ad immaginare che la sperimentazione lombarda possa essere estesa ad altre regioni.

Ma – a proposito di connivenze – quale è il tuo atteggiamento davanti al silenzio del Miur, dal dossier fino ad oggi?

Gli interessi sono troppo grossi.

La politica non può sputare nel piatto in cui mangia.

I ministri che si sono succeduti, più che dimostrare la propria fedeltà allo Stato, hanno dimostrato la loro vicinanza al Vaticano, per quanto riguarda le paritarie confessionali.

Per quanto riguarda i diplomifici, manca la volontà di smantellare un sistema che si basa proprio sulle connivenze, rispetto al quale esistono accordi trasversali.

Non si procede, ad esempio, ad un controllo capillare dei requisiti di parità, perché si sa già che essi non vengono assolti.

Non si procede a controlli incrociati dei versamenti degli stipendi dei docenti, per non toccare con mano le condizioni infamanti – a fronte di rette spesso molto alte pagate dagli studenti – in cui molti lavorano.

Ci sono enormi incapacità e assenza di volontà da parte della politica italiana di fermare questo mercato degli schiavi (a volte consenzienti), neo-laureati che non vengono pagati o retribuiti con al massimo cinque euro all’ora, in cambio dei punti per scalare le graduatorie nelle scuole pubbliche, partecipare ai corsi abilitanti e insegnare nella scuola statale.

E la Guardia di Finanza?

La Guardia di Finanza – con cui ho avuto un contatto diretto, come dimostrato a p. 283 del libro – è ente accertatore in seguito a denuncia delle procure della Repubblica. Se le denunce non ci sono (perché mancano le visite ispettive e gli Uffici Scolastici Regionali si limitano a mandare anche alle scuole più a rischio di illegittimità un semplice modellino di autocertificazione) la Guardia di Finanza non deve e non può agire.

Quale l’azione politica che possiamo organizzare tutti insieme?

Il fatto che l’esponente di un piccolo sindacato scriva un libro così è molto indicativo.

Se non c’è l’interesse e l’azione di un grande sindacato e della grande politica non si muove nulla.


Dal blog http://lucamarcon.wordpress.com/ , interessante creatura di un ex-dipendente Telecom, 17 Settembre 2011 dc:

Venerati maestri

Alberto Asor Rosa: «Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali», Laterza

Se un populista come Beppe Grillo è riuscito, tra le altre cose, a persuadere con una demagogia da prima elementare i seguaci del suo «MoVimento» che nel partito 5 Stelle «uno vale uno» (escluso il suo proprietario – leggi qui) e che tutta la struttura ed il suo funzionamento sono l’attuazione della «democrazia dal basso» (idem come sopra), la colpa è anche di quello che Alberto Asor Rosa chiama «Il grande silenzio». Il silenzio di chi avrebbe dovuto metterci in guardia quello che sarebbe potuto succedere, ovvero che «la gente in teoria sa leggere, ma non capisce ciò che legge, e di conseguenza smette di leggere, e alla fine non sa più leggere.» E, aggiungo io, dato che dalla veglia dell’ignoranza deriva il sonno della ragione, il resto è solo mera conseguenza.

È questo – in neretto – uno dei passaggi più tragici ma anche più veri del libro-intervista di Asor Rosa. Una sorta di pre-visione di cosa ci aspetta, mitigata però da un altro passaggio del libro – contenuto nella premessa -, in cui il protagonista dell’intervista ci racconta come una delle tesi sue predilette sia quella che enuncia: «nella secolare storia di questo Paese non sempre fortunato, le svolte decisive, le rotture fondamentali, i passaggi più delicati sono stati opera di giovani ingegni».

Ringraziamo Asor Rosa per la forza dell’ottimismo insito nella sua visione, ma noi tutti non possiamo fare a meno di chiederci: chi ci avviserà – ovvero sarà in grado di farlo – dell’identità del giovane o dei giovani ingegni che porteranno la svolta decisiva qui ed ora? Buona lettura:

asorrosaalberto-ilgrandesilenzio

D. De Mauro richiama l’attenzione sulla qualità dell’alfabetizzazione degli italiani.

R. Il livello di conoscenze linguistiche negli anni Ottanta era sicuramente cresciuto, rispetto alla palude dell’Italia postunitaria, grazie all’espansione del sistema scolastico, ma anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione di massa. È ormai un luogo comune sostenere che l’italiano negli anni Ottanta diventa per la prima volta una lingua nazionale di massa in conseguenza anche del messaggio televisivo.

Però gli studiosi mettono in guardia: attenzione, questa alfabetizzazione può rovesciarsi nel suo contrario se non viene accompagnata a un’educazinoe critica e da una reale capacità di lettura, che la TV da sola non può dare. Occorrevano altre forme di pedagogia collettiva.

D. E invece?

R. È accaduto che una più diffusa pratica della lingua italiana non sia stata accompagnata da quella accresciuta coscienza civile che solo può consentire una reale espansione della conoscenza nei diversi campi del sapere. Gli studiosi lo chiamano «analfabetismo di ritorno»: la gente in teoria sa leggere, ma non capisce ciò che legge, e di conseguenza smette di leggere, e alla fine non sa più leggere. Ed è qui che si spezza il processo «tradizione culturale scritta-mezzi di comunicazione di massa-accresciuta alfabetizzazione», con conseguenze disastrose: l’alfabetizzazione più diffusa, invece di essere uno strumento in più, diventa un ostacolo nel percorso che potrebbe ricondurre a quella tradizione intellettuale da cui era partito il processo.

D. Un’alfabetizzazione solo apparente.

R. Un’educazione così elementare che è facile dimenticarla. Ed essendo limitata all’interpretazione dei segni, rinuncia a scoprirne i significati più profondi. C’è un sacco di gente, in Italia, anche nelle classi alte, che non ha mai letto un solo libro in vita sua.

D. Lo straordinario successo della TV commerciale, e dei suoi programmi più scadenti, può essere interpretato anche con questa scarsa alfabetizzazione degli italiani?

R. Mi pare che cominci a delinearsi in questo modo un circolo poco virtuoso, al quale aggiungerei un elemento: gli stereotipi televisivi attecchiscono con straordinaria facilità nell’immaginario collettivo, con l’effetto di forgiarlo uniformandolo. Certo, questo contribuisce a creare una «civiltà unica mondiale», che senza ombra di dubbio rappresenta il nostro destino. Ci si può chiedere, però, se è proprio necessario che questo avvenga sotto forma di appiattimento mentale generalizzato. Forse in questo senso la «vecchia cultura» ha ancora un compito da svolgere : quello della «contraddizione» che migliora la qualità complessiva del processo.

D. A proposito del falso che sostituisce il vero, è d’accordo con Jean Badrillaud secondo cui la TV uccide la realtà? “Il delitto perfetto” è anche il titolo del suo saggio.

R. Non sarei così categorico. Il mezzo televisivo – questo sì – collabora alla costruzione di un immaginario molto diverso da quello tradizionale, che è parte essenziale della nuova «civiltà montante». Qual era l’immaginario tradizionale? Naturalmente faccio riferimento a quello delle classi dominanti, più facili da ricostruire sulla base della produzione artistica, letteraria e anche filosofica degli ultimi secoli. La mia tesi, come ho più volte ripetuto, è che il suo carattere preminente consista nella valorizzazione assoluta dell’individualità. Questo spiega perché arte, letteratura, musica e filosofia vengono messe ai vertici del sapere umano: l’homo faber, l’uomo creatore, impersona un «tipo» in cui la «differenza» conta di più, molto di più, di ciò che è identico, comune. Al «prototipo», certo, possono seguire delle repliche, delle ripetizioni: è ciò che costituisce le tradizioni. Però quel che «vale» veramente è il primo esemplare, quello da cui ha inizio la catena: in fondo, letteratura, poesia, ecc., non sono che forme di grande artigianato. Al contrario, l’attuale immaginario collettivo predilige modelli seriali e ripetitivi. Ciò che è comune finisce per essere apprezzato più di ciò che è diverso. Ora la TV è soggetto e insieme oggetto (e persino vittima, talvolta) di questo immaginario massificato, nel senso che essa si afferma come potentissimo mezzo di comunicazione solo quando le platee sono pronte a ricevere questo messaggio indifferenziato, alimentandolo in una spirale senza fine. Per tornare a Badrillaud: la TV, secondo me, non uccide la realtà ma la rappresenta così come le grandi masse immaginano che sia.

(Capitolo V, La civiltà “montante”, pag. 102-103)


Ipazia:

tra le prime martiri del fanatismo cristiano

Scienziata, matematica, donna coltissima, antesignana del progresso scientifico e dell’emancipazione femminile, fu uccisa ad Alessandria dal furore dell’intolleranza cristiana. Ascolta una puntata ricostruita dal programma di Radio3 “la storia in giallo” trasmessa il 17/10/2009 dc con un’intervista allo scrittore Adriano Petta da qui (è necessario real-player o programma compatibile).

Ipazia

Dal sito di Radio 3:

http://www.radio.rai.it/radio3/lastoriaingiallo/view.cfm?Q_EV_ID=300052

Nacque ad Alessandria d’Egitto intorno al 370 dc, figlia del matematico Teone. Filosofa, scienziata, astronoma e musicologa, Ipazia fu trucidata nel marzo del 415, vittima del fondamentalismo religioso.

L’assassinio si consumò in un’epoca di ripudio della cultura e della scienza che già molto tempo prima della sua nascita portò alla distruzione della straordinaria biblioteca alessandrina (sembra contenesse 500.000 volumi) e poi al saccheggio della biblioteca di Serapide.

Ipazia – come scrive Margherita Hack – rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatta grande la civiltà ellenica. Dei suoi scritti non è rimasto niente; sono rimaste invece le lettere di Sinesio che la consultava a proposito della costruzione di un astrolabio e un idroscopio.

L’intervista di oggi è con Adriano Petta, autore con Antonino Colavito del libro “Ipazia. Scienziata alessandrina”, La Lepre Edizioni.

La voce di Ipazia e’ quella di Emanuela Rossi.


la Filosofia Nuda

di

Emmanuelle Arsan

La scrittrice thailandese Marayat Bibidh, con lo pseudonimo di Emmanuelle Arsan, ebbe enorme successo negli anni ’60 con i romanzi fortemente erotici Emmanuelle e L’Antivergine, che dettero il via a una numerosa serie di imitazioni “numerate” (Emmanuelle 3, Emmanuelle 4 e così via). Ai libri seguirono i film. Fu per reagire all’interpretazione del suo libro nel film Emmanuelle con Silvya Kristel che la scrittrice pubblicò nel 1975 il romanzo Laure, di cui realizzò ed interpretò lei stessa il relativo film. Ma la produzione di film con il nome della sua eroina non ebbe sosta per tutti gli anni ’70, e nelle combinazioni e situazioni più fantasiose.

Negli anni ’70 l’Arsan scrisse la rubrica “La filosofia nuda di Emmanuelle Arsan” sul mensile maschile Playman, nella quale ebbe modo di analizzare molti aspetti della società contemporanea e di esprimere intensamente la sua visione del mondo e delle relazioni tra le persone (senza distinzioni di sessi e di gusti).

Ecco come ne parla il sito http://www.raccontiepoesie.org (le correzioni in rosso sono mie, nonché la modifica in corsivo dei titoli di libri e film)

***

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La “vera” Emmanuelle Arsan, la foto dovrebbe risalire agli anni ’70

Emmanuelle Arsan, pseudonimo di Marayat Bibidh nata a Bangkok nel 1932, è una scrittrice thailandese naturalizzata francese.

All’età di 16 anni Marayat Bibidh venne costretta a sposare Louis-Jacques Rollet-Andriane, un diplomatico francese dell’Unesco.

Negli anni ’60, con lo pseudonimo di Emmanuelle Arsan, Marayat scrisse un romanzo erotico dal titolo Emmanuelle, che in breve diventò un successo vendendo ben 19 milioni di copie in tutto il mondo.

In seguito all’uscita del film Emmanuelle, tratto dal suo libro, la scrittrice diresse il film Laure (1975) che parla delle scoperte sessuali di una giovane ragazza chiamata Laure.

La stessa scrittrice è apparsa, accreditata col nome Marayat Andriane, nel film Quelli della San Pablo (1966) e nell’episodio Turn of a Card della serie tv La grande vallata.

La popolarità dell’Arsan iniziò nel 1957 quando Eric Losfeld ricevette da Bangkok un manoscritto abbastanza voluminoso intitolato Emmanuelle. Questo manoscritto comprendeva in effetti il testo dei due libri che Losfeld poi pubblicò con i titoli Emmanuelle e L’Anti-vergine.

A causa della censura di quegli anni l’editore dovette aggirare numerosi ostacoli per la pubblicazione del primo libro che uscì comunque in forma anonima e nei circuiti clandestini. Per questi motivi e per non rischiare troppo sotto l’aspetto finanziario egli pubblicò solamente la prima parte del manoscritto in suo possesso.

Solo dopo che André Breton segnalò il romanzo in prima pagina sulla rivista Arts e André Pieyre di Mandiargues scrisse un articolo su Nouvelle revue française sottolineando l’originalità del romanzo rispetto a quelli che fino ad allora avevano trattato il tema dell’erotismo, il romanzo uscì dalla clandestinità. Erano trascorsi quasi dieci anni quando nel primo trimestre del 1968 il libro conobbe la sua seconda edizione, questa volta con la sigla dell’editore e lo pseudonimo dell’autrice.

Nonostante il periodo di liberalizzazione però il romanzo subì diversi attacchi da parte della censura e, sia per proteggere la carriera del marito ed una certa volontà di circondarla con un alone di mistero, la vera identità dell’autrice venne rivelata solo diversi anni più tardi. Ancora oggi le informazioni sull’Arsan sono scarne e contraddittorie: alcune fonti datano la sua nascita al 1940.

Nel numero 96 della rivista di cinema Positif, di cui Losfeld era l’editore, venne pubblicata una foto della giovane Arsan e questo testo destinato ad illustrare il suo vero nome: Marayat Andriane.

“La si ama a nudo, è bella, pratica l’arte senza velo, in una parola è l’anti-vergine. La sua carriera è strana. Nata a Bangkok nel 1940, è venuta a vivere molto presto in Europa, sposa all’età di sedici anni un diplomatico francese andando a vivere nei diversi Paesi dove il marito viene chiamato. Questa è lei che ci ammalia, più di Candice Bergen, nel film “La Canonnière du Yang-tsé ” (Quelli della San Pablo) di Robert Wise, dove con cui fece il suo esordio sullo schermo. Non scrisse lei la sceneggiatura ed i suoi “giochi” restarono ahimè del tutto innocenti.”

La prima e l’ultima frase, per la loro ambiguità, fanno allusione ai due romanzi, ma il comune lettore del 1968 non poteva comprenderlo, a meno che avesse notato in L’Anti-vergine, che venne pubblicato alcuni mesi dopo, una frase in cui si dice che “si può riconoscere Emmanuelle in Marayât”.

Emmanuelle si fece complice di queste rivelazioni quando nel 1973 venne pubblicato il romanzo di Théo Lésoualc’h: Marayat che racconta l’avventura largamente autobiografica e fortemente sessuale che l’autore ebbe a Bangkok con lei. Si parlò di questo libro nel Magazine littéraire del dicembre 1973 in un articolo ne L’Hypothèse d’Eros che cominciava con queste parole: “L’argomento è Théo Lesoualc’h. Lo specchio è Marayat. Uno e l’altro esistono: ho assistito alla loro copula. Ne potrei parlare, dunque. Non lo farò. È utile conoscere un sogno; ma la realtà che un altro ha fatto di questo sogno, no”.

Negli anni successivi Emmanuelle scrisse numerosi romanzi a tema fortemente sessuale per quegli anni, e numerosi furono il film che vennero prodotti basandosi sui suoi romanzi.

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Interessante anche questa lunga analisi in

http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2006/07/27/viaggio-al-centro-delleros/.

Le correzioni in rosso e alcuni corsivi sono miei. Il testo selezionato e qui riportato è la parte che parla della Arsan.

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Viaggio al centro dell’eros

27 Luglio 2006 dc

Emmanuelle e le donne segrete

di Antonella Lattanzi

L’edizione di Emmanuelle che ho scovato nella libreria Libri di ieri di San Lorenzo assomiglia a quella del Giovane Holden. Spoglia, nuda, cruda, non riporta nomi di autori né di editori. È bianca, un bianco ingiallito dal tempo, è anonima, quasi fosse il testamento di un anarchico. Sulle bandelle, nulla. In quarta, ancora nulla. In copertina, solo il titolo, vergato in grossi caratteri neri e rossi: Emmanuelle, e nient’altro.

Il libraio me ne ha parlato a lungo.

Questo libro sembra infatti ricoprire un ruolo fondamentale nella storia della letteratura erotica.

L’ho letto tutto in un giorno di un caldo ottuso, focoso, a Roma.

Un tal caldo che mi sembrava di morire affogata nelle sabbie del deserto.

Dopo il romanzo, ho studiato a lungo la nota, in fondo al testo, in cui il critico Paul Louis Thirard parlava di quest’opera come di un prodotto “sotto il mantello”, illegale, senza padrone e senza editore. Conclusa la nota, ho reperito quante più notizie possibili sull’autore, sul testo, sulla storia letteraria e umana degli anni Sessanta, perché evidentemente volevo saperne di più.

Il teso di Tirhard è stato scritto a circa un paio d’anni dalla prima pubblicazione del romanzo, avvenuta nel 1967.

Si era ancora lontani dal successo mondiale di Emmanuelle, che vide quest’opera tradotta in circa venti lingue, almeno due fumetti d’autore – Guido Crepax trasformò questo libro, come anche l’Histoire d’O, in una maestosa opera grafica – e almeno un film.

Dicono che Emmanuelle abbia interpretato quella rivoluzione sessuale che, muovendo dagli anni Sessanta, è in atto ancora oggi. Dicono che tra i maggiori pregi di questo romanzo ci sia quello di parlare, di raccontare di sesso senza volgarità e di emancipare il discorso sessuale da un mero atto di procreazione a una libera affermazione di sé. Una nuova visione del sesso come piacere personale, quindi, e anche come atto di socializzazione.

Scrive a proposito Graziano Benelli:

All’interno del fenomeno della letteratura di massa (di consumo), il romanzo erotico contemporaneo appare con un certo ritardo, e solo quando l’interesse (il mercato) relativo agli altri « generi » viene a saturarsi. Certo, il romanzo erotico non è un « genere » qualsiasi; deve far i conti con tabù secolari, col perbenismo cattolico e laico, con le varie censure istituzionali e mentali. Ma, intorno agli anni sessanta, esso può avvantaggiarsi, in Francia più che altrove, della nuova immagine che hanno assunto concetti come sessualità, erotismo, alla luce degli studi della psicanalisi, della sessuologia, della sociologia. I tabù (linguistici) cominciano a cadere, specialmente in una società relativamente libertaria come quella francese; e poi certe pubblicazioni, un tempo strettamente riservate ai locali di Pigalle, hanno in un certo senso svolto un ruolo d’avanguardia, e anch’esse contribuito a far sorgere, anche per il genere erotico, un pubblico (relativamente) di massa. Così Emmanuelle (1967) è un successo straordinario, che investe non solo il romanzo di consumo nel suo insieme, ma l’intera società francese: diventa un fatto di cronaca, di morale, di cultura. E ciò che più conta (ai nostri fini), un fatto di moda, un(a) mod(a)ello da coltivare, imitare, riprodurre all’infinito. Il personaggio di Emmanuelle acquista in poco tempo la stessa notorietà di Arsène Lupin, di Maigret, di Asterix; si pubblicano nuove avventure (L’antivierge, Nouvelles de l’Erosphère, Hypothèse d’Eros, Les enfants d’Emmanuelle), che altro non sono se non la continuazione (l’iterazione) di quella iniziale, a testimonianza della immortalità della nuova eroina. Il personaggio (Emmanuelle) arriva anche a confondersi con l’autore (Emmanuelle Arsan), a tutto vantaggio del mito e del mercato.1(nel sito non si trova traccia di questa nota, né di altre)

All’interno di Emmanuelle, ho scoperto anche brani filosofico-metafisici, che Mario, un personaggio di cultura italiano, pronuncia perché la protagonista, Emmanuelle, appunto, sia erudita su certe questioni fondamentali, sull’erotismo, in fin dei conti, ma non solo. Inoltre, seppur sporadicamente – il romanzo si svolge a Bangkok – il sesso di Emmanuelle si rivolge a enigmatici autoctoni dai falli giganteschi e le movenze rituali.

Per quanto riguarda la trama del primo libro di Emmanuelle Arsan, la storia è presto raccontata: Emmanuelle, diciannovenne neosposa parigina, raggiunge, dopo sei mesi di distacco, il marito, Jean, a Bangkok, dove questi lavora e, dopo essersi da sempre trastullata con il sesso lesbico, o con l’autoerotismo, considerati da lei alquanto naturali, scopre il pluri-sesso – se così posso chiamarlo – fatto anche con gli uomini, e sempre al di fuori del matrimonio. Emmanuelle, ricca giovane avvenente piacevolmente ingenua e ignara di tutto ma comunque avventurosa indagatrice dei piaceri sessuali, si muove con grazia e curiosità, come un’esploratrice, in questo nuovo mondo neo-colonialista, dai confini affettati e fatali, incorrendo, sempre e comunque, in nuove gioie sessuali, da consumare con donne, con uomini – due, i primi amanti di Emmanuelle, già sull’aereo dell’andata – e con se stessa, e da considerare mai tradimenti al marito, ma sempre godibili arricchimenti per entrambi. Estremamente, sfrontatamente lussuriosa, Emmanuelle è nata per il sesso e, nonostante il suo primo amante etero sia proprio Jean, il marito, si dimostra un innato talento in tutto quello che riguarda l’ars amatoria.

A questo primo volume, seguiranno l’Antivierge, Nouvelles de l’Erosphère, Hypothèse d’Eros, Les enfants d’Emmanuelle che, reiterati negli anni, dimostreranno, come ricorda www.eracle.it, l’immortalità di questa giovane protagonista dei sogni sessuali di tanti uomini – e presumibilmente tante donne – nel mondo.

Secondo Thirard, l’opera di Emmanuelle Arsan, autrice di questo romanzo – tanto elitario e introvabile un tempo, quanto popolare oggi – è da considerarsi il terzo passo dell’evoluzione teorizzata dal gesuita S. J. Teilhard de Chardin:

L’umanità è in via d’evoluzione, e dopo la “biosfera” (universo della vita) e la “noosfera” (universo della conoscenza), tappe teilhardiane dell’evoluzione verso Dio, Punto Omega, Emmanuelle inserisce l’Erosfera, universo dell’amore sommo, del massimo godimento fisico, che non è tale, del resto, se non con una adeguata partecipazione mentale, se non seguendo uno sviluppo soddisfacente delle sfere precedenti.2(nel sito non si trova traccia di questa nota, né di altre)

Sarebbe, allora, questo romanzo, una tessera assolutamente necessaria nel compiersi del quadro evolutivo dell’uomo moderno. Personalmente, ho deciso di non pormi, in questo caso, il quesito: mi è piaciuto o non mi è piaciuto Emmanuelle? Ma, piuttosto: riconosco il suo valore storico?, come si è sviluppata la letteratura delle donne, dagli anni Sessanta ad oggi?, quanto è cambiata?

Posso dire con franchezza che Emmanuelle, in tutta la sua finzione (nel significato più stretto del “fingere” latino), in tutta la sua affettazione – ma questa, sono sicura, è una scelta letteraria – è, anche a mio avviso, un romanzo che ha fatto la storia della letteratura erotica, e che di certo per certi versi ha cambiato il modo di intendere questo genere, un tempo “difficile” e aborrito dalla morale comune. Così come fece, per esempio, l’Histoire d’O, scritta, secondo “la leggenda”, a quattro mani, da un uomo e da una donna – uomo l’inventore dell’idea e della scaletta del romanzo, Jean Paulhan, donna la redattrice dell’opera, Pauline Réage, grande scrittrice erotica che lo stesso Paulhan sostenne di aver “scoperto” –. Come l’Histoire d’O, dicevo, sconvolgeva la mentalità del tempo perché riconduceva la donna negli stretti binari della sottomissione sessuale, in questo caso, però, sottomissione desiderata e ricercata – quindi in un certo senso definitivamente “attiva” –, così Emmanuelle sosteneva, predicava, attuava, il sesso per il piacere, il sesso libero, il sesso felice –quindi scevro da tutti i sentimenti e le minacce peccaminose del cristianesimo – ma, allo stesso tempo, un sesso erotico, scritto con “garbo”, libero finanche dall’impiego di terminologie volgari.

Molto meno nera, buia, de L’Histoire d’O, Emmanuelle è una storia felice, leggera, svolazzante come certe gonnelline di donne ingenuamente prorompenti, ammiccante come le loro camicette appena sbottonate, lussuriosa come le loro stanze dell’amore, ricco, come le loro case, alto-borghese, come le loro abitudini.

Per certi aspetti, inoltre, Emmanuelle è anche un romanzo fantastico, che descrive, a volte anche con eccessiva dovizia di particolari – come nell’orgia del secondo volume – il sesso, ma che lo colloca in esperienze così avulse dalla realtà da sembrare, esso stesso, una sorta di storiella per bambini un poco più adulti.

(parlando di sei racconti di donne, le finaliste di “Babele Carte segrete – Letteratura dal cassetto al teatro. Entra in scena l’eros”, concorso di letteratura erotica femminile organizzato dal regista Mimmo Mongelli e dalla giornalista Alessandra Bianco, la cui manifestazione di chiusura e di premiazione si è tenuta a Bari dal 10 al 16 luglio 2006 presso il Teatro Duse)

Riprendendo il discorso di Emmanuelle, allora, il paragone a questo punto è lampante, chiaro, definito: quanto la scrittura di Emmanuelle Arsan è leggera, frivola, intrisa di sesso giocato e ostentato, tanto quella di queste sei donne è auto-lacerante, introspettiva, tracimante dolore.

In Emmanuelle, come in questi sei racconti, l’erotismo è raccontato senza adozione di parole gergali, volgari, come se, a un tempo, si avesse paura di far scadere il proprio racconto in pornografia, e, nello stesso momento, si volesse però dimostrare in questo modo che il sesso non è volgarità.

Anche se, a mio avviso, la volgarità non è l’uso di parole dirette, gergali, pornografiche – che dir si voglia – perché la mia idea di volgarità è tutt’altra – io credo che volgare sia l’uso gratuito di certe espressioni che, invece, quando adottate per una sorta di realismo, o di necessità nello svolgimento dell’opera, si rivelano necessarie tanto quanto il resto –, credo che una simile scelta “stilistica” sia l’unico punto in comune tra questo erotismo “moderno”, o meglio “contemporaneo”, e quello di Emmanuelle, se si esclude la quasi totale identificazione tra autore e protagonista dell’opera, che avviene tanto nel romanzo del ’67 (l’Arsan divenne, in seguito al successo di questo romanzo, una figura quasi mitica, o mitologica), quanto in questi sei racconti.

Per il resto, l’antitesi è lampante: le scrittrici di “Carte segrete”, per esempio, sembrano non avere bisogno dell’uomo, o meglio, non averne più, ormai, in una presa di coscienza che sa di doloroso e straziante. Queste donne vedono l’uomo come una chimera, nel bene e nel male. Spesso fanno l’amore da sole, ma il loro autoerotismo non è qualcosa di puramente fisico – come invece in Emmanuelle – quanto più l’espressione di un sentimento di rivalutazione, di rivalsa, che, di volta in volta, è l’autocompiacimento, o la dichiarazione di una mancanza, di una frustrazione, di un vuoto, di un dolore acuto, la denuncia, la presa di coscienza di una violenza o, dolcemente, una “dedicata” dichiarazione d’amore.

Le donne di “Carte Segrete”, ancora, non vogliono mai dimostrarsi donnette felici, leggere, pronte a tutto – anche a essere usate, adoperate – ma intendono sottolineare la propria interiorità mediante la parola sessuata, mediante il racconto erotico.

Al contrario, Emmanuelle è una donna che vuole scoprire tutto del sesso, che vuole dedicarsi a quest’arte, che intende darsi a uomini e donne, che vive il tutto senza troppi pensieri, completamente in balia della bella vita, e della scoperta del proprio, come dell’altrui sesso.

In questo, non credo che si possa dar torno o ragione a nessuno.

Non sono qui, ripeto, per stilare giudizi, ma solo per indagare il profondo, per studiare, per scavare all’interno.

La “dolce vita” di Emmanuelle, in fin dei conti, è una vita che non presuppone il pensiero, ma che, dedita all’azione, si diletta nei piaceri del corpo. Perché Emmanuelle può permetterselo. Emanuelle è infatti una donna ricca, giovanissima, che ama follemente una donna vista un giorno solo e che piange per la sua assenza – mi riferisco a Bee, l’”ape” per la cui perdita la protagonista soffre così tanto da parlarne persino al marito – e che non trova il proprio comportamento immorale. Anzi, con la connivenza di Jean, suo marito, Emmanuelle vuole diventare immorale, vuole sperimentare la passione senza veli e senza tabù.

Al contrario, le donne di “Carte segrete” hanno forse già sperimentato troppo, oppure non sperimenteranno mai. Fatto sta che, figlie di una società molto meno aulica, molto meno ricca e opulenta e spensierata di quella di Emmanuelle, cercano disperatamene, con la propria scrittura dolorosa, di affrancarsi dal sesso maschile – di cui, invece, Emmanuelle anela a divenire schiava d’amore -, di autogestirsi, di riconoscere, in prima persona e quindi in maniera globale, la propria elevatissima umanità. Il sesso, in questa accezione, è un sesso quasi esclusivamente romantico, un sesso fatto per amore, solo condito – o addirittura privo – di passione sessuale, un sesso funzionale alla scoperta di sé, un sesso psicologico, com’è spesso quello delle donne. Un erotismo, oserei dire, a tratti antierotico, nel quale la storia riveste un ruolo fondamentale, e nel quale le donne convogliano tutta la propria forza vitale, nel bene e nel male, con tutti gli scossoni, i dubbi, i dondolii di umore, tipici del sesso femminile.

L’”indecenza”, in questa nuova accezione, non è più una chimera da perseguire per la totale e completa liberazione sessuale, ma qualcosa da cui rifuggire, perché si accompagna, per esempio nel racconto di Tinta, a un dolore continuo e persistente, qualcosa che allontani la narratrice dal proprio modo di essere, qualcosa che, gestita da un uomo spesso egoista e indolente e spregiudicatamente insensibile, non riesce più nella propria funzione liberatoria e catartica ma, al contrario, affonda il delicato equilibrio della donna in un pantano di dubbi, angosce, inquietudini, dai quali, per il proprio unico bene, la narratrice stessa – ormai donna autosufficiente – decide di liberarsi una volta per tutte.

E così, mentre Tinta, come altre della sestina vincitrice, termina il proprio racconto con una dolorosa ma decisa asserzione di libertà:

 “Lascia pure la luce accesa stasera, amore mio: quando alzerai lo sguardo, io non ci sarò più.”

al contrario, Emmanuelle, estasiata dai piaceri del sesso, felice e spensierata, sempre più giovane man mano che si trova a contatto con il sesso forte, dal cui potere si lascia, entusiasticamente, sopraffare, conclude il suo elogio del piacere, durante un rapporto sessuale con due uomini, un trittico di sesso sfrenato e lussurioso ed estatico e veramente spensierato, così:

“Emmanuelle gridò più forte di quanto non aveva mai gridato, e sentì salirle nella gola il gusto aspro del seme che l’inondava. La sua voce rimbalzava sulle acque scure, e nessuno avrebbe potuto dire a chi quel grido fosse rivolto:

Amo! Amo! Amo!”

È questo, io credo, il nocciolo della questione. L’erotismo al femminile di “Carte Segrete”, campione, a mio avviso, di tutta una corrente moderna, conclude come ritirandosi in se stesso e annunciando: Uomo, ora non puoi più farmi del male. Io mi basto.

L’erotismo di Emmanuelle, invece, si esplicita all’esterno, offrendosi quanto più può in un grido a metà tra l’esclamazione di gioia e la supplica.

In questi due differenti finali, io credo, sta un enorme scoperta, un importantissimo snodo della letteratura erotica, un’asserzione di dolore e di coraggio, la prima, di felicità e spensieratezza la seconda. L’unità di misura che serve studiare per capire quanto la sessualità femminile sia mutata nel corso del tempo, e con lei tutto l’ordine di valori e di priorità della società in cui viviamo.

Alcuni link per Emmanuelle su internet:

http://www.ciao.it/Emmanuelle_Arsan_E__Opinione_637030

http://www.capital.it/trovacinema/scheda_film.jsp?idContent=116682


Da Internazionale del 6 Marzo 2009 dc:

Darwin ha ragione

Basta con il relativismo a tutti i costi.

Le verità scientifiche esistono e l’evoluzionismo è una di queste.

Richard Dawkins polemizza e consiglia la lettura di un libro illuminante

Richard Dawkins, The Times, Gran Bretagna

Come facciamo a sostenere che l’evoluzione è “vera” e che non si tratta solo di un’opinione come tante altre? Le opinioni non meritano forse tutte lo stesso rispetto?

Certo, questo è vero quando si parla di gusti musicali o di posizioni politiche. Ma quando si tratta di dati scientifici?

Purtroppo gli scienziati ricevono queste obiezioni relativistiche ogni volta che affermano la verità fattuale di qualcosa che ha a che fare con il mondo reale.

Ho deciso di affrontare l’argomento dopo aver letto l’ultimo libro del biologo Jerry Coyne Why evolution is true (Oxford University Press 2009 dc).

Uno scienziato afferma con aria supponente che il rombo del tuono non è il suono trionfale delle palle di Dio che sbattono tra loro né quello del martello di Thor. è invece l’eco delle scariche elettriche che vediamo sotto forma di lampi. I miti tribali, anche se poetici, non sono veri.

Ovviamente salterà fuori un antropologo che dirà: chi sei per innalzare qualcosa al grado di verità scientifica? Le credenze tribali sono vere nel senso che fanno parte di un insieme coerente con il resto della visione del mondo della tribù. La verità scientifica è solo un tipo di verità (l’antropologo potrebbe chiamarla verità “occidentale” o perfino “patriarcale”). Come le verità tribali, anche quelle degli scienziati fanno parte di una visione del mondo, che loro chiamano scientifica. Secondo una versione estrema di questa tesi, perfino la logica e l’evidenza sono solo strumenti dell’oppressione maschile sulla “mente intuitiva”.

Ascoltami bene, antropologo. Se decidi di viaggiare con un Boeing 747 invece che su un tappeto volante o un manico di scopa, e se afidi il tuo tumore alle cure di un chirurgo invece che a uno sciamano, scoprirai che la versione scientifica della verità funziona. Puoi usarla per navigare nel mondo reale. La scienza è in grado di prevedere con certezza assoluta, a meno che non arrivi prima la fine del mondo, che a Shanghai il 22 luglio 2009 dc si osserverà un’eclissi totale di Sole. Le teorie secondo cui il dio della luna divora il dio del sole sono poetiche, e forse coerenti con altri aspetti della visione del mondo condivisa da una tribù, ma non sono in grado di prevedere la data, l’ora e il luogo in cui si osserverà un’eclissi. La scienza sì, e in modo così preciso che potresti regolarci l’orologio. La scienza ha portato l’uomo sulla Luna e poi l’ha fatto tornare a casa. La teoria dell’evoluzione ci guida in modo affidabile e premonitore nel mondo biologico con un successo superiore a qualsiasi altra tesi scientifica. Il minimo che si possa dire sulla teoria evoluzionistica è che funziona. Qualche pedante potrà spingersi oltre e sostenere perfino che è vera. Le solite accuse.

Ma allora da dove salta fuori la frottola, spesso ripetuta a pappagallo, che “l’evoluzione è solo una teoria”? Forse dall’errore dei filosofi secondo cui la scienza non può mai dimostrare una verità. Al massimo può essere incapace di confutare un’ipotesi. L’evoluzione, insomma, è un’ipotesi che non è ancora stata confutata. Ma potrebbe esserlo.

In genere gli scienziati non si preoccupano di questo tipo di filosofi. Anzi, li ringraziano perché si sentono liberi di far progredire la conoscenza. Ma potrebbero obiettare a questa teoria che quello che vale per la scienza vale anche per l’esperienza quotidiana. Quindi, se l’evoluzione è un’ipotesi non falsificata, lo è qualsiasi dato di fatto sul mondo reale. Anzi, perfino l’esistenza stessa di un mondo reale.

Ma un discorso del genere si può facilmente mettere da parte. L’evoluzione è vera nello stesso modo in cui accettiamo come verità che la Nuova Zelanda si trova nell’emisfero australe. E se rifiutassimo una volta per tutte di usare la parola “vero”, come faremmo a condurre le nostre conversazioni quotidiane? O a compilare la casella “sesso” di un modulo dell’anagrafe? Dovremmo scrivere: “Finora l’ipotesi che io sia maschio non è stata falsificata, ma aspettate un attimo che ricontrollo”. La filosofia che impone alla scienza questi dubbi non può risparmiarli ai fatti della vita di tutti i giorni.

In questo senso, l’evoluzione è vera: a condizione, naturalmente, che ci siano solide evidenze scientifiche a suo favore.

Ebbene, le evidenze scientifiche sono solidissime e Jerry Coyne le espone in modo convincente.

Vale la pena di anticipare un’altra delle solite accuse che riceveranno Coyne e il suo libro: “Perché vi agitate tanto? State combattendo contro i mulini a vento: oggi nessuno prende più sul serio il creazionismo” (traduzione: “Il regius professor di teologia della mia università non è un creazionista, l’arcivescovo di Canterbury accetta l’evoluzione, quindi continuare a scaldarvi è una perdita di tempo”).

Purtroppo non è così. Secondo alcuni sondaggi condotti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la maggioranza degli intervistati vorrebbe che a scuola i professori di scienze insegnassero il “disegno intelligente”.

Secondo il sondaggio Ipsos-Mori, solo il 69 per cento dei britannici desidera che a scuola si insegni la teoria evoluzionistica. Più del 40 per cento degli statunitensi crede che “la vita sulla Terra, nella sua forma attuale, esista dall’inizio dei tempi” (sondaggio Pew) e che “Dio ha creato gli esseri umani in una volta sola, negli ultimi diecimila anni e nella loro forma attuale” (sondaggio Gallup). Gli insegnanti di scienze sono in difficoltà. Nell’ottobre del 2008 dc sessanta professori statunitensi si sono riuniti nel centro per l’educazione scientifica dell’Emory University di Atlanta, in Georgia, per confrontare le loro esperienze. Uno ha raccontato che i suoi studenti sono “scoppiati a piangere” quando hanno scoperto di dover studiare l’evoluzione. Un altro ha detto che i suoi alunni hanno protestato ripetutamente quando ha affrontato l’argomento in aula. Esperienze del genere sono comuni anche in Gran Bretagna. Il quotidiano The Guardian ha scritto che nel febbraio del 2006 dc “alcuni studenti di medicina musulmani di Londra hanno distribuito dei volantini dove si liquidavano come false le teorie di Charles Darwin”. I volantini di quei musulmani erano stati prodotti dall’Al Nasr Trust, un ente di beneficenza  ufficialmente riconosciuto che ha anche delle agevolazioni fiscali. Il contribuente britannico, quindi, sovvenziona la distribuzione nelle università di materiali che contengono falsità scientifiche. Gli insegnanti di scienze potranno confermare che stanno subendo pressioni lievi ma crescenti dalle lobby creazioniste, dietro le quali di solito si nascondono organizzazioni statunitensi o islamiche.

Nessuno può avere la faccia tosta di negare che il libro di Coyne, e non solo il suo, è necessario. Per onestà devo confessare di essere parte in causa. Il 12 febbraio 2009 dc è stato il bicentenario della nascita di Darwin e in autunno ricorrerà il 150° anniversario della pubblicazione del suo libro L’origine della specie. Visto che le case editrici sono sempre attente agli anniversari, ci aspettavamo che quest’anno sarebbero usciti diversi volumi su Darwin. Ma quando abbiamo cominciato a scrivere i nostri testi (il suo è appena uscito, il mio uscirà in autunno) né Jerry Coyne né io sapevamo che l’altro stava lavorando sulla validità della teoria evoluzionistica. Forse i nostri due libri non resteranno neanche dei casi isolati: più siamo, meglio è. In fin dei conti la teoria evoluzionistica è la vera storia del perché esistiamo, e ne dà una spiegazione soddisfacente: demolisce e sostituisce tutte le spiegazioni del passato, a prescindere dalla devozione e dalla buona fede con cui sono state credute vere.

Punto debole

Why evolution is true è un libro eccezionale. Coyne ha una conoscenza straordinaria della biologia evoluzionistica e la espone in modo magistrale, senza mai risultare noioso. Anche se affronta moltissimi argomenti, il suo testo resta sempre agile e leggibile. In un capitolo, che s’intitola “Scritto nelle rocce”, Coyne smonta la più comune tra tutte le menzogne creazioniste, quella sui presunti “buchi incolmabili” nelle testimonianze fossili. “Dove sono gli anelli di congiunzione?”, chiedono i creazionisti. Coyne ne indica molti e tutti convincenti. Si tratta non solo dei fossili di grandi animali come le balene e gli uccelli o di quelli dei cugini del celacanto, che hanno compiuto la transizione dall’acqua alla terra, ma anche dei microfossili. Questi hanno il vantaggio dei grandi numeri:  alcuni tipi di rocce sedimentarie sono composti da minuscoli scheletri fossilizzati di foraminiferi, radiolari e  altri protozoi calcarei o silicei. È quindi possibile tracciare un grafico di una misura a scelta, come funzione  continua del tempo geologico, via via che si analizza un nucleo di sedimenti. In uno dei grafici del libro si vede chiaramente  un genere di radiolario (dei magnifici protozoi dal guscio delicato la cui forma ricorda una lanterna) colto nell’atto di dividersi in due specie due milioni di anni fa.

La divisione di una specie in due, a  cui si riferisce il titolo della grande opera  di Darwin, rappresenta anche uno dei suoi pochi punti deboli. Coyne è la massima autorità sulla formazione delle specie, e lo dimostra l’efficacia dei due capitoli intitolati “L’origine della specie” e “La geografia della vita”. Forse la prova anticreazionista più immediatamente convincente è la distribuzione geografica degli animali e delle piante sui continenti e sulle isole (compresi i laghi, le vette montane e le oasi: dal punto di vista di un animale qualsiasi piccola area dove può vivere, circondata da un’area più vasta dove invece non sopravvivrebbe).

Dopo aver enunciato molte prove sull’argomento, Coyne conclude: “Provate a trovare una teoria che spieghi gli esempi che abbiamo discusso adducendo la creazione particolare di specie su isole oceaniche e continenti. Non ci sono risposte valide. A meno che non si presuma che il creatore volesse far apparire le specie come se si fossero evolute su delle isole. Ma dal momento che nessuno accetta questa risposta, si spiega perché i creazionisti schivano la biogeografia delle isole”.

Questa disonestà per omissione è una caratteristica dei creazionisti. Adorano i fossili perché hanno insegnato loro (sbagliando, come dimostra Coyne) a credere che i “buchi” nelle testimonianze fossili mettano in difficoltà i sostenitori della teoria evoluzionistica. La vera difficoltà per i creazionisti è la distribuzione geografica delle specie. E infatti la ignorano completamente.

In Why evolution is true c’è una lucida esposizione della selezione naturale al livello dei geni (Darwin, che non sapeva niente di geni, la descrisse al livello dei singoli organismi). Coyne spiega in che modo un verme parassita modifica l’aspetto e il comportamento della formica che lo ospita, trasformando il suo addome in un simulacro di bacca rossa che sporge in modo appetitoso ed è collegata al torace da uno stelo assottigliato. Di certo avrete già indovinato il seguito: la “bacca”, piena di uova di verme, viene mangiata da un uccello, che diventa così l’ospite definitivo del verme.

Scrive Coyne: “Tutte queste modificazioni sono provocate dai geni del verme parassita: è un trucco ingegnoso per riprodursi. Questi prodigiosi adattamenti – i modi diversi in cui i parassiti controllano i loro portatori solo per trasmettere i geni – fanno venire l’acquolina in bocca agli evoluzionisti”.

Calabroni arrosto

Verissimo. Questo linguaggio “adattamentista” incentrato sui geni è ormai universale tra i biologi dell’evoluzione che operano sul campo. Vale la pena di ricordare l’ostilità altezzosa con cui l’attaccò, trent’anni fa, l’illustre genetista Richard Lewontin, il professore di Coyne a cui è dedicato il libro. Why evolution is true contiene anche un’utilissima spiegazione della mia teoria del “gene egoista”. Coyne spiega bene che la teoria non ha niente a che fare con alcune tesi spurie, secondo cui saremmo deterministicamente predisposti a essere egoisti. In trent’anni (Il gene egoista uscì nel 1976 dc) le cose sono molto cambiate.

Il capitolo sul “motore dell’evoluzione” si apre con un esempio di macabro splendore. I calabroni giganti del Giappone saccheggiano i nidi delle api mellifere per dare da mangiare alle loro larve.

Un calabrone-esploratore, da solo, scopre un alveare e lo contrassegna con una sostanza chimica che lascia una macchia nera, una specie di condanna a morte. “Richiamati dal contrassegno, i compagni di nido dell’esploratore si avventano sulla macchia. Un gruppo di venti o trenta calabroni attacca in formazione una colonia che può comprendere fino a trentamila api. Ma non c’è lotta: i calabroni fanno irruzione nell’alveare schioccando le mandibole e decapitano le api una a una. Siccome ogni calabrone riesce a decapitarne quaranta al minuto, la battaglia si conclude nel giro di qualche ora, con tutte le api morte e l’alveare pieno di cadaveri fatti a pezzi. A quel punto i calabroni possono rifornire la loro dispensa”.

Perché Coyne racconta questa storia? Per confrontare l’atroce sorte delle api mellifere europee introdotte in Giappone con quella delle api autoctone che hanno avuto il tempo di elaborare evoluzionisticamente “una stupefacente strategia di difesa, l’ennesimo prodigio del comportamento adattivo. Quando il calabrone-esploratore giunge all’alveare, le api che si trovano all’ingresso si precipitano a chiamare le compagne, ma al tempo stesso lo attirano all’interno. Appena il calabrone entra, centinaia di api operaie gli formano intorno uno stretto ‘gomitolo’. Poi, facendo vibrare l’addome, portano rapidamente la temperatura interna del gomitolo fino a 47 gradi centigradi. Nel giro di venti minuti il calabrone-esploratore muore arrostito e l’alveare quasi sempre si salva”. Anche se le api sono in grado di sopravvivere a temperature elevate, questo non è indispensabile alla selezione naturale per favorire l’adattamento. Le api operaie sono sterili: i loro geni non sopravvivono nelle operaie stesse, ma come copie nei corpi di quella minoranza di abitanti dell’alveare destinata alla riproduzione. Se le operaie che si trovano al centro del “gomitolo” si arrostissero insieme al calabrone, il loro sacrificio sarebbe comunque servito: le copie dei loro geni “che arrostiscono” sopravvivrebbero.

Nel libro c’è anche un ottimo capitolo dedicato a “Rimasugli, vestigia, embrioni ed errori di progettazione”, argomenti già trattati dallo stesso Darwin, e uno su “Come il sesso guida l’evoluzione” e sull’evoluzione umana. Ma Coyne si supera quando discute un altro elemento straordinariamente evidente da cui finalmente possiamo costruire l’albero genealogico completo di tutti gli esseri viventi


13 Febbraio 2009 dc:

Smascheriamo Augias!

Prima o poi dovrò mettermi d’impegno per rivelare, far notare e smascherare la realtà di questo signore, che molti ateoagnostici ritengono un intellettuale laico, che dovrebbe essere ateo, e lo stimano e apprezzano. Bisognerà far luce sulle sue reali posizioni, sulla sua impreparazione e sul suo pressapochismo in almeno un’occasione, sulla sua superficialità e sul suo fare l’occhiolino al cristianesimo, alla figura di Cristo ed altre cose ancora.

Un solo accenno al pressapochismo, cito personalmente per averlo visto e sentito con i miei occhi e le mie orecchie: in una trasmissione recente, programmata da un canale RAI a fine 2008 dc o inizio 2009 dc e dedicata al nazismo, il conduttore Augias, accanto ad una enorme svastica rossa che campeggiava nello studio, arrivava a dire che Hitler aveva preso il simbolo della svastika dalle tradizioni orientali, generalmente buddiste e induiste e, per farlo proprio del nazionalsocialismo, lo aveva “ribaltato”, in modo che la svastica originale, cioè questa (dal sito http://www.satorws.com/simbolismo-svastica.htm , non a caso abbinata al simbolo del Tao))

svastica_sinistrorsa

detta svastica sinistrorsa perché gli uncini puntano verso sinistra, fosse trasformata nella ben più nota svastica destrorsa

svastica_destrorsa

Ebbene, non si sa se direttamente Augias o chi gli ha preparato la “pappa” della trasmissione, in ogni caso non si sono informati e hanno detto una sonora boiata. Nelle tradizioni in cui è presente questo simbolo esistono, quasi sempre, entrambe le versioni, a volte con significati diversi. Potete trovarne una conferma qui e qui

Jàdawin di Atheia


Da Sapere del Febbraio 2008 dc:

Se Dio avesse le ali

di Enrico Bonatti, professore di geologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra della «Sapienza» Università di Roma

Negli ultimi mesi, tra pronunciamenti di uomini di Chiesa, da papa Ratzinger in giù, articoli nelle pagine culturali di giornali, fino poi ai programmi televisivi di Giuliano Ferrara, molti hanno sfiorato un tema che da tempo immemorabile, pur se con diversi gradi di consapevolezza, è alla base di ansie, terrori e speranze in noi esseri umani. Il desiderio cioè di Homo sapiens di sentirsi il fine ultimo dell’evoluzione della vita sulla Terra, il culmine della creazione.

Non mi addentro nel campo vastissimo dell’origine dei miti e delle religioni: ma, pur semplificando, penso si possa dire che le grandi religioni sono sorte in buona parte per placare almeno un po’ il nostro bisogno di preminenza, di permanenza, di immortalità. Bisogno che sembra esser stato particolarmente intenso nella nostra tradizione occidentale e che ha portato recentemente anche al movimento del “Disegno Intelligente”, particolarmente forte negli Stati Uniti ma in crescita anche in Italia (vedi per esempio il bel saggio di T. Pievani, In Difesa di Darwin, Bompiani, 2007 dc). Dalla Bibbia in poi abbiamo sostenuto che le piante, gli animali e la Terra tutta sono non molto più antichi dell’essere umano: una Terra senza umanità era inutile e quasi inconcepibile, visto che la natura era stata creata in sua funzione e al suo servizio. Da qui il convincimento che l’età della Terra fosse di poche migliaia di anni, simile appunto all’età dell’umanità, calcolata in base al numero di generazioni trascorse da Adamo a Cristo. La data di nascita della Terra, posta 4004 anni avanti Cristo dai calcoli dell’arcivescovo d’Irlanda Ussher nel 1650 dc, è la più nota, perché fu più tardi inserita nella Bibbia canonica anglicana.

Darwin, che più di ogni altro estese il nostro senso del tempo e diminuì la nostra hubris, ne aveva una copia con sé nel suo viaggio con la Beagle. Se pur credeva a una Terra non più antica di poche migliaia di anni quando nel 1835 dc si imbarcò sulla Beagle, aveva certo cambiato idea tre anni dopo quando sbarcò di nuovo sulle coste dell’Inghilterra. Nell’ultimo secolo l’età della Terra si è allungata enormemente rispetto a quella degli esseri umani: oggi pensiamo la Terra abbia 4 miliardi e mezzo di anni. Qualcuno ha notato che se paragonassimo l’età della Terra all’altezza della Torre Eiffel, l’intervallo di tempo dalla comparsa dell’uomo ad oggi sarebbe rappresentato dallo spessore dello straterello di vernice che copre l’acciaio sulla cima della Torre. Se proprio non possiamo negare una lunghissima storia della Terra prima della comparsa dell’essere umano, e un’evoluzione biologica durata 4 miliardi di anni, vorremmo almeno che questa lunga fatica fosse diretta verso un degno obiettivo, e che l’obiettivo fossimo noi, o qualcosa al di sopra di noi di cui noi possiamo far parte. Che il mondo sia stato creato in funzione dell’uomo è detto chiaramente già nella Genesi, ed è implicito nel resto della Bibbia, eccetto forse nelle meditazioni del libro di Giobbe e dell’Ecclesiaste, lì dove l’uomo è nulla se non polvere.

Molto più tardi, i Padri della Chiesa ma poi anche alcuni dei pionieri della scienza    moderna,    come    Keplero, Newton, Leibnitz e Hutton, non dubitavano che la natura fosse al servizio e in funzione dell’uomo (chi dubita, rischia una brutta fine: vedi Giordano Bruno). Prima di Darwin, Goethe e i filosofi/naturalisti tedeschi suoi contemporanei pensavano che le forme naturali possedessero una tendenza innata verso la perfezione, dove la perfezione era la forma umana. Dopo Darwin, il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin più di mezzo secolo fa proponeva un’evoluzione biologica diretta ad aumentare gradualmente lo spazio dello “spirito”, e tesa verso una “noosfera” o verso un “punto omega” non dissimile dal dio cristiano: mi si perdoni il parallelo empio con il “sol dell’avvenire” cui anelavano nello stesso periodo le folle del socialismo reale. Ma l’evoluzionismo darwiniano, basato su mutazioni genetiche casuali seguite da selezione naturale, è difficile purtroppo ci sollevi verso la noosfera o verso qualche altra sfera celeste. Questo è stato stigmatizzato dal cardinale Cristoph Schönborn, arcivescovo di I Vienna, quando sul New York Times (11 luglio 2005 dc) ha condannato l’evoluzionismo darwiniano, sembra con l’assenso di papa Ratzinger, seguito dal cardinale Walter Kasper (presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani) e poi anche dai “teocon” americani (Bush in testa) e nostrani che, non potendo più negare l’evoluzione biologica, la pensano però diretta da un “disegno intelligente”. Ma una recente indagine pubblicata da Science (11 agosto 2006 dc) mostra come oltre il 40 % degli americani (il 20 per cento degli italiani) non crede che l’essere umano derivi da altre specie, cioè non crede nell’evoluzione biologica, con o senza “disegno intelligente”.

I fautori del disegno intelligente pretendono la loro sia un intuizione originale e recente. Ma prendiamo dal bel libro di Paolo Rossi I Segni del Tempo (Feltrinelli, 1979 dc), una citazione dall’Essai de Cosmologie scritto nel 1750 dall’illuminista francese Pierre Louis de Maupertius: «Tutti i filosofi si dividono oggi in due sette. Gli uni vorrebbero sottomettere la natura a un ordine puramente materiale ed escluderne ogni principio intelligente o almeno vorrebbero che nella spiegazione dei fenomeni non si facesse mai ricorso a quel principio e che le cause finali venissero completamente bandite. Gli altri, al contrario, fanno un uso continuo di tali cause, scoprono in tutta la natura le vedute del Creatore, penetrano i suoi disegni nei fenomeni più minuti. A parere dei primi l’universo potrebbe fare a meno di Dio: almeno, le più grandi meraviglie che vi si osservano non ne provano affatto la necessità. A parere dei secondi le parti più minuscole dell’universo sono altrettante dimostrazioni di Dio: la sua potenza, la sua saggezza e la sua bontà sono scritte sulle ali delle farfalle e sulla tela dei ragni». Questa descrizione del clima culturale dell’Illuminismo europeo tre secoli fa potrebbe esser applicata altrettanto bene al dibattito attuale.

Sean Nee, biologo dell’università di Edimburgo, scrivendo su Nature (vol. 435, p. 429, 2005 dc) del nostro bisogno di essere in cima alla scala biologica, prova a considerare l’evoluzione dal punto di vista delle forme di vita che, pur se invisibili ai nostri occhi, sono di gran lunga le più abbondanti e antiche del nostro pianeta: i microrganismi. A partire da quasi 4 miliardi di anni fa i Bacteria e gli Archea sviluppavano capacità straordinarie: da quella di generare luce a quella di “respirare” metalli, a quella di vivere negli ambienti più estremi, (fino a 120°C sul fondo degli oceani o nelle profondità del sottosuolo, o parecchi chilometri sotto la superficie dei ghiacci antartici), a quella di comunicare chimicamente per coordinare azioni di gruppo, o perfino di suicidarsi per il bene del gruppo. I cianobatteri hanno inventato più di tre miliardi di anni fa un meccanismo per produrre ossigeno, la fotosintesi, che più tardi ha portato a una atmosfera simile a quella attuale e ha permesso lo sviluppo di forme di vita cosiddette “superiori”. La combinazione di alcuni gruppi di Archea e Bacteria ha portato poi agli Eukarya (cioè organismi dotati di cellule); tra questi alcuni gruppuscoli si sono poi evoluti in organismi che noi reputiamo “superiori”, tra cui i mammiferi, creando ambienti che i microbi sfruttano in maniera altamente efficiente: vivono più microrganismi nello stomaco e nel tratto urinario di un Homo sapiens di quanti Homo sapiens vivono sulla Terra.

Si potrà obiettare che quantità non è qualità, e che Homo sapiens ha dalla sua le Piramidi, la Divina Commedia, la Nona Sinfonia, la Cappella Sistina e … la bomba atomica. Ma se Homo sapiens fosse eliminato da una qualche catastrofe (magari causata da se stesso), i microrganismi continuerebbero imperterriti per almeno un altro miliardo di anni. Di Homo sapiens rimarrebbe la crosta di vernice sulla Torre Eiffel. Sia come sia, ho avuto modo di verificare direttamente che non siamo i soli a crederci sulla cima della scala evolutiva. Un paio di anni fa in una cittadina dell’Appennino emiliano una passerottina neonata caduta dal nido è stata soccorsa, curata e nutrita da mani amorevoli. È sopravissuta, e da allora svolazza libera in un appartamento, dove ha i suoi spazi, i suoi ritmi, la vaschetta per il bagno quotidiano … L’estate scorsa per giorni si agitava alla ricerca di un posto adatto a costruirsi il nido (più tardi infatti scodellò cinque uova). Nel corso di queste esplorazioni mi si posò sulla testa mentre leggevo in poltrona, e decise che il posto, tra i miei radi capelli grigi, era adatto per il nido: rifiutava di spostarsi, beccava, protestava in maniera aggressiva se qualcuno si avvicinava… Era evidente che per la passerotta il prezioso cranio di Homo sapiens che mi porto sul collo, culmine di miliardi di anni di evoluzione, era stato creato dal “disegno intelligente” di un buon dio alato e pennuto al solo fine di fornirle un luogo confortevole dove covare le sue uova. Non fu facile convincerla altrimenti.


Dal supplemento Tuttoscienze de La Stampa del 29 Settembre 2007 dc:

Introduzione dell’amico Sestante che me lo ha inviato, al pari di altri articoli pubblicati su questo sito

Questo articolo è per molti aspetti discutibile: la titolazione a effetto “caro Darwin non servi più”, certe frasi fantasiose come “l’età d’oro dell’evoluzione”, certe conclusioni azzardate come “l’evoluzione darwiniana è finita”. D’altro canto noi ateo-razionalisti non dobbiamo idolatrare tutto quello che sa di scienza e tanto meno prendere per oro colato quello che esce dalla bocca di qualche accademico, però questo articolo è illuminante sugli sviluppi futuri della biologia e su alcune conseguenze che essi potranno avere. Ma soprattutto spaventerà moltissimo chi ha delle concezioni molto diffuse in campo ambientalista, come una visione sacrale della vita o una considerazione finalistica della Natura quale organismo perfetto e intoccabile: in altre parole un sostituto di Dio.

É l’alba del post-evoluzionismo.

IL DESIGN DEI GENOMI DIVENTERÁ UNA NUOVA FORMA D’ARTE

“Caro Darwin, non servi più. Per l’evoluzione c’è il biotech”

di Freeman Dyson, American Physical Society, US Nationale Academy of Sciences

In un articolo provocatorio e illuminante – «Una Nuova Biologia per un Nuovo Secolo» – il grande biologo Carl Woese ha messo sotto accusa i limiti della biologia riduzionista e la logica che l’ha guidata nell’ultimo secolo, sottolineando la necessità di una nuova biologia, che si basi sui concetti di comunità e di ecosistemi, anziché su quelli di geni e di molecole. Ma allo stesso tempo ha anche sollevato una questione estremamente importante: quando è cominciata l’evoluzione darwiniana?

Con evoluzione darwiniana intende l’evoluzione come la descrisse lo stesso Charles Darwin, basata cioè sull’intensa competizione per la sopravvivenza tra specie diverse. Presenta quindi una serie di prove, secondo le quali l’evoluzione stessa non risale all’alba della vita. All’inizio il processo che lui ha definito come «trasferimento genetico orizzontale» – vale a dire la condivisione degli stessi geni tra specie differenti – era prevalente. E questo diventa sempre più evidente man mano che si retrocede nel tempo.

Woese è il maggiore esperto mondiale nel campo della tassonomia microbica. Qualunque cosa scriva, anche quando sembra tendere ai vertici della pura speculazione, dev’essere preso molto sul serio. Oggi lui postula un’«epoca d’oro» della vita pre-darwiniana durante la quale il «trasferimento genetico orizzontale» era un fenomeno universale e, quindi, non c’era una separazione netta tra le specie. La vita, allora, era una comunità di cellule di vario tipo: tutte condividevano le informazioni genetiche in modo che una serie di processi chimici e catalitici, inventati da una sola creatura, potessero poi essere ereditati dalle altre. L’evoluzione, quindi, era un «affare comune», con un’intera comunità in grado di migliorare la propria efficienza metabolica e riproduttiva, perché venivano scambiati i geni delle cellule più efficienti.

Ma poi, in un giorno nefasto, avvenne che una cellula, che assomigliava a un batterio primitivo, riuscisse a superare le altre in efficienza. Così questa cellula si separò dal gruppo e cominciò a rifiutare la logica della condivisione. La sua discendenza si trasformò nella prima vera e propria specie separata. Grazie alla sua superiore efficienza continuò a prosperare e a evolversi separatamente.

Poi, alcuni milioni di anni più tardi, un’altra cellula si separò dal gruppo e anch’essa diventò un’altra specie. E il fenomeno si allargò, finché la vita si suddivise in tante specie, tutte diverse.

I processi biochimici di base della vita si sono quindi evoluti rapidamente durante le poche centinaia di milioni di anni che hanno preceduto l’era darwiniana e sono cambiati molto poco nei seguenti 2 miliardi di anni di evoluzione.

Il design dei genomi trasformerà il mondo

L’evoluzione darwiniana è lenta, perché le specie, una volta che si sono affermate, si trasformano con gradualità. L’evoluzione, infatti, fa sì che una specie si estingua solo per permettere a un’altra di prenderne il posto.

Ci sono tre innovazioni, tuttavia, che hanno permesso di accelerare i ritmi nelle fasi successive. La prima è stata il sesso, che non è altro che una forma di trasferimento genetico orizzontale. La seconda è l’organizzazione multicellulare, che ha spalancato un mondo completamente nuovo di forme e funzioni. La terza è stato il cervello, che a sua volta ha aperto una nuova dimensione di sensazioni e azioni coordinate, fino a quel culmine che è l’invenzione delle mani e degli occhi. E allo stesso tempo una serie di estinzioni di massa (dilatate nel tempo) ha contribuito a produrre ulteriori opportunità evolutive.

Ora, 3 miliardi di anni più tardi, l’evoluzione darwiniana è conclusa. L’era della competizione delle specie è finita 10 mila anni fa, quando una singola specie, l’Homo sapiens, ha cominciato a dominare e a riorganizzare la biosfera. Da quel momento l’evoluzione culturale ha preso il posto dell’evoluzione biologica come forza fondamentale di cambiamento. Questo secondo tipo di evoluzione non è darwiniano. Le culture, infatti, si diffondono attraverso il trasferimento orizzontale delle idee piuttosto che per eredità genetica. Ed è un’evoluzione che si muove mille volte più velocemente di quella darwiniana, portandoci in un’era di interdipendenza culturale che definiamo globalizzazione.

Ora, nell’ultimo trentennio, l’Homo sapiens ha riportato in primo piano l’antica pratica pre-darwiniana del trasferimento genetico orizzontale, spostando i geni con abilità crescente dai microbi alle piante, fino agli animali, confondendo di nuovo i confini tra le specie. Ci stiamo quindi muovendo nell’era post-darwiniana, in cui le specie non esisteranno più e l’evoluzione della vita riprenderà a essere comune.

In questa nuova epoca le biotecnologie saranno fondamentali. Ci saranno, per esempio, i kit fai-da-te per i giardinieri, che utilizzeranno la manipolazione genetica per crescere nuove varietà di rose e orchidee. E ci saranno i giocattoli bio-tech per bambini, che utilizzeranno uova e semi veri anziché semplici simulazioni. L’ingegneria genetica, una volta che sarà nelle mani della gente comune, ci darà un’esplosione di biodiversità. Il design dei genomi diventerà una forma d’arte, creativa quanto la pittura e la scultura. Certo, non molte di queste creazioni potranno essere considerate capolavori, ma gratificheranno gli autori e contribuiranno ad aumentare la varietà di fauna e flora.


da Diario del  30 Giugno 2007 dc:

Introduzione dell’amico Sestante.

La recensione che ti invio la dice lunga su certi “eretici” che con la scusa di criticare l’attuale papa e per non dimostrarsi troppo faziosi un bel colpetto all’ateismo non se lo risparmiano. Questa volta, purtroppo, la recensione insolitamente lunga (ben 2 pagine) è ospitata da Diario del 30 giugno a firma di Gianandrea Piccioli.

La riportiamo tutta, per dimostrare che non ci tiriamo indietro neanche davanti a simili colpi bassi.

Per certi dotti critici del corso conservatore della Chiesa Cattolica  tutto va bene finché si rimane all’interno di una concezione religiosa o, meglio ancora, cristiana. Si possono allora citare a man bassa filosofi come Aristotele, Kant, Heidegger, pensatori come Simon Weil, Edit Stein ecc.. Guai però ad esprimere una concezione del mondo areligiosa, allora si diviene improvvisamente rozzi, retrò, si prendono posizioni da “farmacisti di bottega” di stampo ottocentesco e si scrivono “libelli”.

Questo è il tono che assumono per legittimare le loro critiche alla Chiesa Cattolica. Si pavoneggiano cercando di dimostrare che le loro critiche sono supportate da una robusta dottrina, da non confondersi col pensiero primitivo degli Atei. Quindi Stirner, Marx, Schopenauer, Nietszche e tanti altri non esistono, sono poco più che scribacchini di terz’ordine.

Ma vorrei chiedere all’articolista: chi si sente oppresso e rivendica i propri diritti conculcati è solo un fastidioso petulante oppure ha qualche ragione nel rivolgere ai suoi oppressori le stesse accuse? Se l’oppressione durasse per secoli dovrebbe perciò stesso cessare di lamentarsi come un bambino capriccioso che ha bisogno del ciuccio per addormentarsi? Con questa logica dovremmo tenerci sempre lo stesso modello di famiglia, niente fecondazione medicalmente assistita, niente aborto, niente divorzio, senza parlare poi dell’omofobia e di tutte le restrizioni dei comportamenti sessuali. In questo c’è la stessa malcelata arroganza del tanto criticato Ratzinger che dice: protestate pure, ma la vera Morale è quella nostra. Non contento di questo, l’articolista vuole giocare anche in campo avverso definendo con un certo disprezzo “sedicenti laici” persone come Odifreddi, volendo avere anche qui la parola definitiva: ma se vuol scegliersi anche i giocatori della squadra avversaria a che pro la partita? Vuol poi degnarsi l’articolista dall’alto della sua dottrina di spiegarci quali sarebbero, secondo lui, i “veri” laici?

Sul contenuto del libro recensito, non interessandomi ai temi metafisici, mi soffermo solo su due punti.

Parlando di ermeneutica, o interpretazione, va detto che anche la scienza, a suo modo, è una interpretazione del reale. Ma i risultati di questa interpretazione sono ottenuti attraverso il reperimento di prove rigorose riproducibili e falsificabili ed hanno apportato numerosi benefici all’umanità, oltre all’enorme messe di conoscenza attingibile da tutti, mentre i conflitti di interpretazione tra religioni o all’interno di esse, derivati da visioni soggettive o da interessi contingenti, hanno provocato quasi sempre guerre, oppressione e superstizioni varie senza apportare alcun miglioramento concreto al tenore di vita umano, anzi, le caste sacerdotali si sono perlopiù legate alle classi dominanti aumentando la sofferenza dei sottoposti.

Per quanto riguarda la proposta dell’autrice del libro di distinguere tra non indifferenti e indifferenti, a parte la doppia negazione che caratterizza i primi, il problema sta nei secondi: c’è infatti una differenza sostanziale tra un’indifferenza che può caratterizzare l’atteggiamento di un ateo o di un agnostico, altra cosa invece è un comportamento tiepido nei confronti della religione ma che non la rifiuta del tutto, oppure più semplicemente quello di qualcuno che non vuole approfondire il problema religioso perché ha altri interessi preponderanti: artistici, culturali, politici ecc..

La religione del cuore

Suggerimenti per restare cristiani nonostante la Chiesa di oggi

Fra le sconcertanti conseguenze del goffo, torvo e, sui tempi lunghi, inane pontificato di Benedetto XVI, che peraltro accentua in chiave restauratrice e antipatizzante le linee guida del precedente, c’è anche il ritorno di un pensiero anticlericale, anzi antireligioso, che sembrava sepolto per sempre coi notabili progressisti che si radunavano socialisteggiando o liberaleggiando nei retrobottega delle farmacie di paese, tra Otto e Novecento.

Del resto l’eterno ritorno dell’eguale è una mediocre formula filosofica consona a tempi di confusa mediocrità. Assistiamo così al pullulare di libri e libelli sedicenti laici che, come il bestseller di Piergiorgio Odifreddi, parlano di religione con la competenza e l’esprit de finesse di un lottatore di sumo che discetti sulla wagneriana morte di Isotta. E nel furore polemico nessuno sembra rendersi conto che entrambi i contendenti, laici e clericali, sono l’uno il rovescio dell’altro e si sorreggono a vicenda, dorso a dorso, come talamoni sgretolati dall’inquinamento.

Si distingue nettamente dalla selva di questi sottoprodotti il coraggioso (innanzi tutto per sincerità personale) e importante libro di Roberta De Monticelli, Sullo spirito e l’ideologia, sottotitolato Lettera ai cristiani. Insieme con La differenza cristiana di Enzo Bianchi (Einaudi) e Lo Stato e la Chiesa di Gustavo Zagrebelsky (Biblioteca di Repubblica), tra i pochissimi veramente utili ad affrontare i problemi in campo (anche là dove, come nel caso di Zagrebelsky, accada talvolta di dissentire). Fin dal titolo, la De Monticelli mette le sue carte sul tavolo: lo spirito come quella capacità di trascendere se stessi che ci definisce come persone, come «disciplina ascetica del distacco» nella ricerca del vero, e il suo esatto contrario: l’ideologia intesa «come contraffazione della sapienza spirituale» e «falso rapporto con la verità, cioè con la ricerca di verità».

E ideologiche, quindi sostanzialmente mistificanti, sembrano molte delle attuali prese di posizione del Magistero, talmente volte all’affermazione di un’identità forte da far dubitare «che sia possibile a una fede cristiana abitare un’istituzione terrena senza perdersi». Al punto che viene facile stabilire sintonie col Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov. Al punto che, riprendendo un’affermazione di Simone Weil circa il «disagio dell’intelligenza» causato dalla «maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione», l’autrice può giustamente sostenere che «ci si trova a non aver più nomi per il divino, a non aver più proposizioni per la fede (…) perché troppi dei nomi e troppe delle proposizioni tramandate hanno alle nostre orecchie un suono falso». La De Monticelli individua cinque fili nel groviglio dell’identità cattolica così cara agli ultimi pontefìci ci e al loro entourage di fondamentalisti e atei devoti. Innanzi tutto, ed è tema attualissimo, la pretesa non tanto di auspicare che le leggi dello Stato siano conformi a principi che si ritengono giusti (il che sarebbe perfettamente legittimo) quanto di ottenere, sulla base di una distinzione tra ragione buona (illuminata dalla fede) e ragione cattiva (abbandonata alla nostra superba autonomia), che lo Stato, anziché tutelare gli individui, si sostituisca a essi per scegliere al loro posto.

Seguono poi il rapporto tra ragione e trascendenza, col tentativo di recuperare una continuità tra metafisica e teologia che già san Tommaso aveva interrotto (per non parlar di Kant, che alle origini del moderno aveva offerto su un piatto d’argento la soluzione al dualismo tra fede e conoscenza sostenendo la trascendenza assoluta del divino); il mito delle radici cristiane d’Europa, che contraddice il comandamento Non nominare il nome di Dio invano; il tema tutto ratzingeriano della «critica della ragione moderna dal suo interno» e infine, tipica per esempio di movimenti come Comunione e Liberazione, «la sindrome di accerchiamento, il sentirsi attaccati o respinti ai margini dell’intellettualità, il credersi dunque in una posizione di difesa che va forse rovesciata in una di attacco». Per ognuno di questi punti c’è un’acuminata analisi retta sempre da grande rispetto intellettuale: il che rende più taglienti le conclusioni. E sempre, accanto alla critica, l’apertura di una possibile via alternativa, più evangelica e rispettosa del prossimo.

Su alcuni punti, pur non essendo un esperto, mi domando se non ci siano delle forzature. Per esempio certe tenaci idiosincrasie filosofiche di Roberta De Monticelli le fanno iscrivere Ratzinger (con biasimo nemmeno tanto implicito) tra i seguaci di Heidegger per la critica alla ragione strumentale e alla volontà di potenza della tecnica. Ma il tema dell’ambiguità della ragione, piaccia o no, è comune a molta filosofia novecentesca, dall’ultimo Husserl (quello della Crisi) a tutta la scuola di Francoforte (basti pensare alla Dialettica dell’Illuminismo) fino ad Habermas (che non a caso è uno degli interlocutori del papa). Più che di Heidegger mi sembra che Ratzinger sia intriso di un pessimismo antropologico che risale a Bonaventura e al suo apocalittico antiaristotelismo, come ha ben dimostrato il teologo americano Joseph Komonchak in un saggio utilissimo per comprendere la formazione dell’attuale pontefice e la sua distanza critica da tutta la cultura moderna, nella convinzione (anticonciliare) che dialogo e annuncio siano incompatibili. Un altro motivo di perplessità è la polemica un po’ forzata che la De Monticelli conduce contro l’ermeneutica: forzata perché poi lei stessa giunge, a mio parere, alle medesime conclusioni. A parte il fatto che c’è ermeneutica ed ermeneutica: quella di Ricoeur, a esempio, e quella di Gadamer o, per stare in Italia, quella di Pareyson e di Vattimo, e quella di Paolo De Benedetti, sempre alla ricerca del 71° senso. O quella di Scholem, che riprende una vecchia tradizione qabbalistica secondo cui la rivelazione di Dio comincia e finisce nell’aleph, la prima lettera in apertura del Genesi; però l’aleph non ha nemmeno un suono preciso, è solo la predisposizione della glottide a parlare, poco più di un’emissione di fiato: tutto il resto è interpretazione umana.

Il conflitto delle interpretazioni, praticato dall’ermeneutica, non porta poi al nichilismo, non esclude affatto la necessità di giustificare razionalmente il pensiero e l’azione, anzi è nella «civile conversazione» di stampo umanistico che si può raggiungere un accordo razionale circa la verità per definizione inconoscibile e raggiungibile sempre e solo asintoticamente e quindi provvisoriamente e quindi storicamente. Senza per questo essere relativisti e magari credendo anche all’esistenza oggettiva, in qualche iperuranio, dei valori. Che però vengono da noi conosciuti e discussi e applicati sempre in modi storicamente determinati ed entro i paradigmi conoscitivi dell’epoca in cui ci è dato vivere.

L’ultima parte del libro è più provvisoria, la traccia di una ricerca in fieri che si prospetta particolarmente significativa. La De Monticelli, da brava fenomenologa e da simpatizzante, tra l’altro, di Edith Stein e di Simone Weil, sostiene correttamente che si può fare esperienza di verità anche in ciò che sfugge alla sfera delle motivazioni razionali ed empiricamente verificabili, vale a dire in ciò che va oltre la ragione, come per esempio l’esperienza del bello o, appunto, l’esperienza del divino. Sono sfere che appartengono allo spirito, quello spirito così tradito dall’ideologia dell’istituzione ecclesiastica, e che hanno a che fare col senso, con la sua donazione e con la sua ricerca. Anche l’esperienza di fede ha dignità conoscitiva e di questa dignità bisogna dar conto.

Di qui un tentativo, che mi ricorda quello grandioso di Rosenzweig nella Stella della redenzione, di esperire il mondo alla luce dei concetti religiosi, ovvero di usare in chiave categoriale certi temi della tradizione cristiana, come per esempio, qui, quello dell’incarnazione (che aiuta a vedere «la dimensione del valore nascosto nelle cose del mondo») . E per facilitare la chiarezza intellettuale la De Monticelli propone di sostituire la schematica distinzione tra credenti e non credenti con quella, più sottile e problematica, tra non indifferenti e indifferenti «al tipo di valori di cui è esperienza l’esperienza religiosa». Temo l’attendano tempi duri.

Gianandrea Piccioli


da “Diario” del 25/11/05 dc:

Quando Dio fa

Come la ragione è riuscita a sopravvivere ai miracoli

Le imposture degli Antichi e i miracoli dei Moderni di Carlo Augusto Viano, Einaudi pagine157, 16 euro

Senza problemi come il libero arbitrio, la predestinazione, l’onnipotenza, i miracoli, la filosofia avrebbe una vita più lineare, ma sarebbe così noiosa che i filosofi dovrebbero escogitare dei rompicapo. Questi rompicapo inventati ad hoc, però, risulterebbero meno interessanti di quelli forgiati a caldo dalle religioni nel corso dei secoli. E allora bisognerebbe distogliere i pupi dallo studio della storia del pensiero, onde evitare che qualcuno si accorga, per esempio, che un cervello in una vasca, come esperimento mentale, è squallido. Per fortuna questa è un’ipotesi irreale: le religioni ci sono, e continuano a imporre al pensiero ginnastiche poderose. In questo senso, l’idea di miracolo è formidabile. Viano svolge il tema in forma storica. Due millenni e mezzo di discussioni, centinaia di filosofi teologi e scienziati. Ha letto direttamente un numero infinito di testi, perché poco si fida dei riassunti altrui. Poi distilla in sette righe chiare un teologo che ha scritto seimila pagine incasinate. Non si cura di avvertirci che il suo è un riassunto diverso dal solito, e un tantino prezioso. Per signorilità, e del resto gli manca lo spazio: ha deciso di regalarci solo un decimo di quelle 1.500 pagine che chiunque altro, con quel materiale, avrebbe pubblicato. Sempre per signorilità: anche se il recensore tende a viverla come un’efferata forma di sadismo sabaudo. Come riassumere 150 pagine che ne riassumono 1.500? Tocca abbandonare il filo cronologico, e fingere di poter distinguere due temi fondamentali. Il primo è un tema di storia della cultura già intuibile dal titolo: come sia potuto accadere che la pubblica arena unanime chiami oggi miracoli quelle prestazioni che, se si verificano in ambiente pagano, vengono chiamate imposture. Così le chiamiamo noi, ma così le chiamavano – non sempre – i filosofi greci e romani. Come del resto hanno fatto, a volte in modo furtivo, diversi filosofi in epoca cristiana anche nei confronti dei miracoli monoteistici. Più o meno fino a un secolo fa, quando per motivi che troverete nel libro i filosofi decidono di smetterla col gretto positivismo, e la stessa parola «impostura» sparisce dalla circolazione. Il secondo tema (ma quanto è artificioso estrarlo dai suoi intrecci naturali!) è più schiettamente filosofico. Ossia epistemologico. Non nel senso anglosassone, ma proprio nel senso di filosofia della scienza. In definitiva, quindi, è anche un tema direttamente scientifico. Perché, per farla troppo breve e troppo facile, un miracolo che si rispetti ,deve violare le leggi di natura; se viola le leggi di natura è impossibile; se è impossibile allora come facciamo a credere a quelli che ce lo raccontano? Di solito se uno racconta una cosa impossibile viene immediatamente escluso dalla lista dei testimoni attendibili.

È proprio un problema difficile da risolvere, tanto che Pascal, scienziato e credente, affermava che i miracoli provano la fede, ma è la fede che fa credere ai miracoli. Sembra una di quelle piroette che gli piacevano tanto, e lo è, ma è anche un’ammissione sincera: epistemologia e miracoli, di per sé, fanno a pugni. Appunto. È proprio nel trasformare il pugilato in un balletto che si distinguono i bravi filosofi. E, dagli stoici fino agli inizi del secolo scorso, i Ray Sugar Robinson del pensiero sono stati tanti, e davvero pieni di fantasia. Perché la via fondamentale è un accorto indebolimento della natura e delle sue leggi, ma poi bisogna fare anche i conti con i poteri di Dio, e trattare il modo in cui gli uomini credono in modo che i miracoli siano credibili, ma non lo siano eventuali asini che volino per motivi privati. Sono cose davvero interessanti, leggere per credere (è proprio il caso di dirlo), anche se, non certo per colpa di Viano, man mano che ci si avvicina ai nostri tempi il divertimento cala. Perché i discorsi diventano più vaghi, e il vero è vero ma non proprio vero e le prove sì ma non proprio prove, e insomma son tutte metafore ma non proprio metafore. La voce narrante non perde quasi mai il suo tono da documentario scientifico, anche se ogni tanto si capisce che è sul punto di sbottare. Uno dei tratti più ammirevoli dell’operazione di Viano, in effetti, è proprio lo stile humianamente sereno. Il vecchio ragazzaccio ha saputo fingere molto bene di essere un anziano signore ormai superiore a qualsiasi polemica, una specie di grande dilettante che ama antichi tomi ed eterni rompicapi. Come capitava a Hume, con questo suo atteggiamento si farà odiare più che se avesse lanciato mortaretti ateistici. È un tipo di scrittura che facilita anche chi voglia rispondere con una congiura del silenzio, ma questo è un rischio che Viano ha certamente corso volentieri, pur di scrivere sulla religione, di questi tempi, etsi Ruini non daretur.


Gli eredi di Satana

Nel maggio 2006 dc: Alessandro Capece (nel 2007 dc è diventato prima redattore e poi anche editore del giornale on line Resistenza Laica, a cui ho aderito con questo sito)  aveva inviato al sito dell’Associazione Atheia (era http://www.atheia.net) uno dei suoi scritti su tematiche anticlericali, e gli avevamo così proposto di renderlo scaricabile dal nostro sito.

Dal 2007 è sul mio sito personale www.jadawin.info.

Il titolo è “Gli eredi di Satana”, lo potete scaricare da qui in Word. Il blog dell’autore, dove potete trovare lo scritto, era http://www.trotzky.splinder.com/ fino a circa ottobre 2010 dc, ora non saprei dove possa essere. Uno dei blog dell’autore è http://1870.splinder.com/  , l’indirizzo e-mail dell’autore dovrebbe essere ancora antiglob@yahoo.it


Da “Diario” del 14 Ottobre 2005 dc:

Il nostro inviato Deborah Ameri da Canterbury

L’uomo che ha condensato la Bibbia

Il libro originale ha 1.189 capitoli, il reverendo Michael Hinton ne ha sfornato una versione mordi e fuggi di 50 pagine che si legge in 100 minuti. È già un bestseller. La Chiesa anglicana approva. Questa è la storia di un pretino di campagna (che poi si è trasferito al mare), accortosi tardi della vocazione e grande conoscitore di latino e greco e paziente studioso delle Sacre Scritture. C’è poi un piccolo editore di Canterbury che faceva anche il portavoce della diocesi, ma si addormentava sempre mentre leggeva la Bibbia. Infine, c’è una Chiesa, quella d’Inghilterra, che sta vivendo una profonda crisi. I fedeli scappano, non vanno a messa e sono piuttosto ignoranti. Urge uno stratagemma. Almeno per tamponare, se non per risolvere. Così è nata la mini Bibbia: The 100-minute Bible, il blasfemo Bignami del libro più sacro al mondo. Un riassunto delle Scritture che si legge, appunto, in 100 minuti e costa tre sterline (4,3 euro).

L’Inghilterra è impazzita. L’idea è parsa geniale. Quasi rivoluzionaria. Pagine di giornali e commenti. Programmi a tema spirituale sulla Bbc, su Itv, su Channel 4, su Five. Mai argomento religioso è stato tanto dibattuto. E nel calderone c’era anche un po’ di pepe. Perché il distillato biblico è stato presentato, il 21 settembre, nientemeno che nella cattedrale di Canterbury, la San Pietro anglicana, la chiesa madre d’Inghilterra. Fosse stato davvero il Vaticano si sarebbe urlato come minimo al sacrilegio. Ma qui, è diverso. Siamo andati a vedere. E a incontrare i personaggi chiave.

Insegnava storia. Per raggiungere il reverendo Michael Hinton, autore del sunto, bastano un paio di ore di treno dalla stazione Victoria di Londra. Il sacerdote, 78 anni, è in pensione e vive a Dover, proprio di fronte alle bianche scogliere. È lo stereotipo in carne e ossa dell’anziano curato di campagna. Pochi capelli bianchi, riga da un lato, basette arruffate, sopracciglia folte e all’insù, un po’ luciferine, largo sorriso, occhiali di metallo, apparecchio per la sordità. È così perfetto che sembra sia stato pastore per tutta la vita. Invece si è laureato a Oxford, per 35 anni ha insegnato storia in tre diversi licei, si è sposato, ha fatto cinque figli e solo nel 1984 dc è stato ordinato sacerdote. Ha scelto di fare il prete senza salario, in un villaggio del Kent e poi, nel 1995 dc si è rifugiato a Dover con la moglie Jean. Abitano in una palazzina accogliente, sul mare. «Oggi piove, ma di solito il tempo è splendido», assicura. Il reverendo, ci confessa, viene da un tour de force di interviste: «E chi se lo aspettava. Mi hanno cercato dal Sudafrica e dall’Australia. Anche da Radio vaticana», dice con mal celato orgoglio. Insomma, cos’è questa Bibbia in 100 minuti? «Un lavoro di rimpicciolimento. 11.189 capitoli del libro originale condensati in 50 pagine, che possono essere comodamente lette in cento minuti». Il pastore però ci ha impiegato due anni a tagliare Antico e Nuovo Testamento. Mica uno scherzo decidere cosa tenere e cosa buttare del libro più letto della storia. «Mi sono attenuto a due princìpi», spiega Hinton, «ho cercato di mantenere il più possibile il personaggio di Gesù, che è il protagonista. E di raccontare le storie più note al grande pubblico, come l’Arca di Noè, il diluvio universale, Mosè e la divisione del Mar Rosso». Detta così, la riduzione pare un fumettone per ragazzi. «È un riassunto fedelissimo», precisa il sacerdote, «molto stringato. E come tale non basta. È un’introduzione. Per dare un’idea a coloro che vanno di fretta. Ai quali, magari, poi verrà voglia di prendere in mano il libro originale». Insomma meglio tanti fedeli in più, anche se ignoranti, che pochi, ma dotti di teologia. Per conquistare anche i giovani il linguaggio usato è molto semplice, moderno, per niente criptico. La poeticità è stata abbandonata in favore della praticità. Ma è per una buona causa. «La società di oggi è secolare, individuale e materiale», prosegue padre Hinton, «ognuno pensa a se stesso, tutti vanno di fretta. Le chiese sono sempre più vuote. Gli unici che stanno acquisendo fedeli sono i pentecostali. Mentre da noi la gente varca il portone solo per matrimoni o funerali. Cioè quando ha bisogno». E dire che la Chiesa d’Inghilterra ha un’etichetta piuttosto liberal. Il futuro re, principe Carlo del Galles, fedifrago per tutta la vita, ha potuto sposare una donna divorziata, vissuta nel peccato, in una cerimonia civile, ma con la benedizione della regina, capo della Chiesa anglicana. «Una relazione fuori dal matrimonio era peggio», ragiona il reverendo Hinton. Giusto. A Roma però sarebbe stato fuori luogo.

Tolleranza con i gay: in dicembre entrerà in vigore nel Regno Unito una legge simile a quella che regola i Pacs francesi. Permetterà le unioni civili tra gay, che avranno gli stessi diritti ereditari e fiscali di mariti e mogli. La prima coppia ad arrivare all’altare, insieme a Elton John e il compagno David Furnish, sarà una donna sacerdote anglicano, lesbica dichiarata, che finalmente potrà unirsi alla fidanzata di una vita. Nessuno ha fiatato. Rientrerà nella legge e questo è sufficiente. Il reverendo Hinton ci tiene a precisare: «Non parlerei di matrimonio, ma di partnership. I richiedenti saranno protetti dalla legge. Ma il concetto di famiglia è una cosa diversa».

La fattoria dell’editore. Se per padre Hinton la speedy Bibbia rappresenta una missione di proselitismo, per colui che l’ha concepita potrebbe significare il riscatto di una vita. Léonard Budd, detto Len, è il titolare della 100-minute press, di Canterbury, che ha stampato il libretto. Andiamo a trovarlo, aspettandoci di essere ricevuti in un ufficio. Ma Mystole Farm, piccola fattoria in aperta campagna, non è solo la sede della casa editrice. Mister Budd lì ci vive pure. Casa e bottega, insomma. La 100-minute press si riduce a uno studiolo, ingombro di libri, carte e documenti, solcati dai tre gatti di casa e ciancicati dal labrador Vick. Piccolo editore, ma con grandi idee, Léonard: «Sono certo che la mini Bible diventerà un best seller come l’originale. Stiamo già preparando il lancio in altri Paesi, Italia compresa, e la tradurremo in varie lingue». Ma il colpo di genio, come è nato? «Qualche anno fa ero portavoce della diocesi di Canterbury. Mi trovavo a un convegno sulla conoscenza della Bibbia. Molti eminenti sacerdoti discutevano del fatto che i giovani di oggi non ricevono un’istruzione religiosa a scuola e non frequentano il catechismo. Per cui della Bibbia non sanno nulla. Allora ho pensato che avrei potuto pubblicare il sacro libro a puntate sulla rivista della parrocchia. Episodi da poter leggere in due minuti. Poi ho realizzato che ci sarebbe voluto troppo tempo e che sarebbe stato dispersivo. Così ho pensato ai 100 minuti, un titolo a effetto. Accattivante. Ed è stata un’idea vincente. Siamo talmente sommersi di richieste che non riusciamo a farvi fronte. Abbiamo venduto finora 10 mila copie e altre 30 mila, già ordinate, sono in stampa (si può anche acquistare on line su http://www.the100-mi-nutepress.com). Non ci aspettavamo tanto clamore. Alla presentazione c’erano più giornalisti che spettatori». Incuriosisce sapere quali altri libri mister Budd ha miniaturizzato in 100 minuti. «Beh, nessuno. La Bibbia è il primo. Però, ho molte idee per i prossimi volumi. Ma non posso rivelarle». Capiamo. Ma allora, viene da chiedersi, prima cosa stampava questa casa editrice? Un genere di volumi molto diverso. Intanto non si chiamava così, ma semplicemente My-stole Pubblications. E lavorava per conto dell’Esercito della Salvezza, un’associazione presente in 109 Paesi del mondo che, come è scritto sul sito ufficiale: «Esiste per salvare le anime, creare gente santa e servire l’umanità sofferente». Mister Budd ci mostra le vecchie pubblicazioni, in lingua francese: Come coltivare i funghi in Basso Congo, Riconoscere i funghi in Basso Congo, La ripiantumazione dei boschi in Basso Congo. Erano rivolte alla popolazione locale. Non è chiaro se venissero distribuite gratuitamente. La Bibbia mordi e fuggi è senza dubbio un salto di qualità che gli ha procurato una fama inaspettata. Per questo non vuole sentire parlare di operazione blasfema: «Abbiamo semplicemente reso la Bibbia più accessibile. Non siamo i primi ad averne pubblicato solo una porzione. Non è un’idea rivoluzionaria. Solo un adattamento». E comunque sono chiacchiere inutili, sottintende, perché la Chiesa anglicana è dalla sua parte. L’autorevole imprimatur. Già, Canterbury è la capitale ecclesiastica del Regno Unito. E il diacono della cattedrale, il reverendo Robert Willis, ha addirittura preso parte al lancio del libello. «Un’idea meravigliosa», ha commentato, «per cominciare a conoscere la storia della Bibbia». La maestosa cattedrale gotica è avvolta nel silenzio e nel bagliore delle candele. Per queste navate si aggirano gli spiriti di santi, pellegrini e soldati, sepolti centinaia di anni or sono nella cripta. Chissà se i devoti visitatori (che hanno pagato cinque sterline d’ingresso) sarebbero disposti a leggere un surrogato delle Sacre Scritture. «Perché no», risponde Jean Michel, francese di Calais, in vacanza con la moglie, «non ho mai letto la Bibbia. Solo parte dei Vangeli. Mi piacerebbe averne un’idea, anche se generale». «A me sembra una trovata pubblicitaria», critica la signora Annabel, mentre fa acquisti al negozio della cattedrale, «però potrebbe attirare i giovani ignoranti in materia». «Nemmeno se avessi 100 anni a disposizione riuscirei a leggere la Bibbia», scherza un ragazzino in gita scolastica. Reverenda Annie si muove silenziosa nel buio. Sta buttando le vecchie candele consumate e sistemando quelle nuove. Sorride gentile, una massa incolta di capelli neri le circonda il viso minuto. «Una bella idea, siamo stati felici di averla tenuta a battesimo», commenta, «di questi tempi abbiamo bisogno di tutto. I fedeli continuano a diminuire. E noi andiamo incontro alla loro busy life». Detto da un prete fa un certo effetto.


Un articolo su “Panorama”, sicuramente prima del 2001 dc, parlava di un singolare personaggio, Luca Staletti.

Uomini contro. Luca Staletti

staletti

Estremista PCI. Giramondo. Infine agente della Arsan. Storia di un arrabbiato vero. Passato da Pietro Secchia a «Emmanuelle»

di Giampiero Mughini (Nostra nota: non è questo, certo, un nome che dia garanzie…)

Quant’è sexy la rivoluzione

Altro che i presunti “cannibali”, quei giovanotti alla Aldo Nove o Isabella Santacroce che mordicchiavano qua e là costumi e vezzi dell’Italia recente. Questo milanese di 76 anni, questo ex partigiano comunista che mezzo secolo fa abbandonò l’Italia e da allora vive a Parigi dov’ è uno dei guru dell’ editoria underground, questo Luca Staletti che quando vi riceve nel suo appartamento al XVIème arrondissement vi pesa e vi soppesa, di rabbia in corpo ne ha ancora a tonnellate. Da anarchico che non si piega di una virgola, da uomo d’editoria che conosce fatti e misfatti di autori e di libri, i suoi sono più colpi di sciabola che di fioretto in questo libro autobiografico, L’orzaiolo, che la piccola ma vitale casa editrice romana “Derive e approdi” sta per mandare in libreria.

Tutto comincia da quando lui, ex partigiano delle formazioni comuniste, non ne voleva sapere di accordi tra operai e padroni nell’Italia dei primi anni Cinquanta, e il suo punto di riferimento nel PCI era l’ala sinistra, quella che faceva capo a Pietro Secchia (nostra nota: quelli veramente a sinistra, i trozkisti e i bordighisti, erano fuori dal PCI da anni. O se n’erano andati o erano stati espulsi!). Quando il braccio destro di Secchia, Giulio Seniga, se ne andò via portandosi soldi e documenti del partito, e fini li la carriera politica di Secchia, Staletti e Seniga ebbero un tempestoso faccia a faccia, anche se oggi Staletti non ne vuole parlare (Seniga è morto qualche anno fa). Deluso dalla sinistra italiana, Staletti andò a cercare il suo pane per il mondo. Tenendo per baricentro Parigi. “Ho fatto cinque volte il giro del mondo” è il debutto del suo libro. In America Latina era di casa. Gli irregolari della vita e della politica li incontrava tutti, sempre restandone deluso. Quanto a quelli della sinistra scompigliata e ribelle, sempre li trovava o dogmatici o alla camomilla o non anarchici. Gli sembrava che dappertutto a pagare fossero gli “sgobba”, che lavorano duro e guadagnano poco. A Parigi succede che nel Quartiere Latino, in rue du Cherche-Midi, c’è una libreria animata da un editore coraggioso e sulfureo, Eric Losfeld. Una bella e giovane donna, che come nome di battaglia si è data Emmanuelle, porta a Losfeld un grosso manoscritto dove sono raccontati sogni ed esperienze erotiche di una disinibita parigina che è andata a vivere a Bangkok. Pagine torride per la Francia e l’Europa della metà degli anni 60!

Dapprima il libro circola in due tomi semiclandestini che si vendono “sous le manteau”. Più tardi, nel 1967 dc, Losfeld ne cura un’edizione ufficiale, un libro che verrà tradotto e piratato in tutte le lingue del mondo, un affare editoriale da miliardi. L’agente letterario dell’Emmanuelle reale è Staletti. Comincia lì la sua carriera di geniale “mezzano” tra autori ed editori: è lui che importa Guido Crepax in Francia e Wolinski in Italia. È lui all’origine della recente ed elegante versione italiana dell’ “Histoire d’O” pubblicata dalla casa editrice “Es” di Milano.

Ma neppure questo placa la rabbia di Staletti. Lui non avrebbe voluto fare il contrabbandiere di materiale erotico, bensì il capo di una piccola casa editrice che stampasse cinque pamphlet all’anno, di politica e di denuncia: “Di quelli che fanno tremare cento persone alla volta”. Gli sarebbe piaciuto fare il lavoro di Jerome Lyndon, fondatore delle “Editions de Minuit”, morto pochi mesi fa. Gli sarebbe piaciuto pubblicare un libro come quello di Henri Alleg, “La question”, che denunciava l’uso della tortura da parte dell’ esercito francese in Algeria. Parlate a Staletti di Dio, dei padroni e dell’esercito e lui si metterà a ringhiare. Sublime anarchico di 76 anni.

Cari trentenni italiani, andate a scuola da lui a capire che cos’è un “cannibale”.